Si tratta senz’altro, custodito presso l’Accademia Ligustica delle Belle Arti, di uno dei presepi più particolari della città. Particolare sia per via delle sue minuscole dimensioni che per il materiale, la cera, con cui è realizzato.
Una miniatura talmente delicata e preziosa da essere stata inizialmente creduta in avorio come risulta dall’inventario del 1874 anno in cui il collezionista Antonio Merli la donò all’Accademia-
Autore di questo prodigio di raffinata tecnica è l’artista bavarese di origine italiana Johann Baptist Cetto ( 1671 – 1738) specializzato nella rappresentazione di scene sacre tratte dalla Bibbia.
Le minuscole statuine in rilievo (mm 84 x 62 x 16) sono racchiuse in una raffinata ed elegante cornice d’ebano e filigrana d’argento.
“Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro che sarei stato ospite suo. A Doro volevo un gran bene, e quando lui per sposarsi andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia. Quando gli scrissi per rifiutare di assistere alle nozze, ricevetti una risposta asciutta e baldanzosa dove mi spiegava che, se i soldi non devono neanche servire a stabilirsi nella città che piace alla moglie, allora non si capisce più a che cosa devano servire. Poi, un bel giorno, di passaggio a Genova, mi presentai a casa sua e facemmo la pace. Mi riuscì molto simpatica la moglie, una monella che mi disse graziosamente di chiamarla Clelia e ci lasciò soli quel tanto ch’era giusto, e quando alla sera ci ricomparve innanzi per uscire con noi, era diventata un’incantevole signora cui, se non fossi stato io, avrei baciato la mano”.
Cit. Incipit da “La Spiaggia” di Cesare Pavese romanziere (1908 – 1950).
In copertina: il porto dal battello. Foto di Stefano Eloggi.
Senza nulla togliere allo scatto del fotografo vedere piazza Sant’Elena deserta a quelli della mia generazione fa un po’ impressione.
Infatti la piazzetta che deve il suo nome all’omonimo scomparso oratorio di Sant’Elena si affaccia su via Gramsci e dal secondo dopoguerra fino ai primi anni ’90 ospitava il frequentatissimo mercatino di Shangai dove si poteva trovare veramente di tutto, dall’abbigliamento all’elettronica, ai generi di contrabbando ed ogni altro tipo di merce.
Non bastano nei giorni di maggiore afflusso di avventori i tavolini dell’attigua trattoria dell’Acciughetta per lenire la nostalgia del passato.
Mentre scrivo mi sembra di ascoltare ancora il vivace e colorito proporre le proprie mercanzie e il contrattare dei venditori che animavano la piazzetta.
Momenti di vita quotidiana dell’angiporto immortalati anche in una scena in bianco e nero del film “Au dela des Grilles”, ovvero in italiano “le Mura della Malapaga” del 1949 di Renè Clement in cui alle spalle del protagonista Pierre interpretato da Jean Gabin un commerciante vende una saponetta ad un cliente.
Per fortuna gli allegri colori di alcuni edifici della piazza in contrasto con il grigio della pietra mantengono vivido lo sbiadito ricordo in bianco e nero del tempo che fu.
La Grande Bellezza…
In copertina Piazza Sant’Elena. Foto di Stefano Eloggi.
“Genova dovrebbe fungere d’intermediaria tra la Germania e l’Italia; è un passaggio dall’ideale al reale, da una vita d’immaginazione al benessere fisico. Non è più lo sfacelo e la negligenza di cui si è stati testimoni in molte parti d’Italia: tutto è pulito e ben costruito. Ma nulla è pittoresco, e gli occhi, ancora pieni dell’armonia di un colorito indefinibile e del tutto particolare al Sud, sono sgradevolmente colpiti alla vista dei colori sgargianti di cui ci si serve per dipingere le case, molto spesso variopinte di rosa, di verde, di giallo e di un certo bruno cannella dagli effetti orribili. Alla periferia, le case di campagna sono talmente fitte da formare una specie di sobborgo verdeggiante: tutto annuncia l’opulenza e la ricchezza di una città commerciale.
Genova la Superba è comparabile a una bella donna sprovvista di fisionomia: la si ammira ma più la si guarda, meno piace. Sarebbe difficile dare la spiegazione di questa impressione; la città è bella, i palazzi magnifici, il sito, senza essere pittoresco, è per lo meno rimarchevole, vi è molto movimento: ma è una vivacità puramente commerciale, non è più il regno dell’immaginazione e delle arti, tutto è calcolato e rivolto all’aspetto pratico della vita”.
Cit. Da Voyage d’Italie, 1899. Anna Tyszkiewicz, nota anche come Anna Potocka (1776 – 1867), contessa e scrittrice polacca.
In copertina: palazzata del porticciolo di Nervi. Foto di Stefano Eloggi.
Percorrendo la salita che costeggia sulla sinistra la Basilica di Santa Maria di Castello si giunge alla piazzetta di Santa Maria in Passione in cui si staglia l’omonima chiesa.
A 75 anni dalla fine del conflitto mondiale trovare dei ruderi e delle ferite così devastanti fa tuttora impressione.
L’edificio quattrocentesco costruito su pertinenze medievali degli Embriaci ospitava una comunità di monache agostiniane ed era parte di un più ampio spazio conventuale.
Nel ‘600 fu oggetto di una significativa ristrutturazione in chiave barocca che coinvolse alcuni degli esponenti più importanti fra gli artisti genovesi.
A vago ricordo della bellezza delle decorazioni rimangono le opere di Aurelio Lomi e Domenico Fiasella conservate presso la Soprintendenza e l’Istituto Arecco.
Con la soppressione napoleonica degli ordini religiosi la struttura venne utilizzata come stalla e solo a partire dal 1818, al tempo dei Savoia, recuperò la sua primitiva funzione ospitando le Canonichesse Lateranensi.
Ma le vicissitudini della chiesa non finirono qui poiché nel 1889, a seguito di una nuova soppressione degli ordini religiosi del Regno d’Italia, il complesso venne convertito in caserma per le guardie civiche prima, della Guardia di Finanza poi, dell’Omni (Opera nazionale maternità e infanzia) infine.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale la zona rimase completamente abbandonata fino al parziale recupero, in un più ampio progetto, dell’architetto Ignazio Gardella negli anni ’70.
Dal 2014 il sito archeologico di Santa Maria in Passione ospita nei suoi giardini il parco culturale urbano della Libera Collina di Castello, luogo d’incontro e scambio tra artigiani, artisti, studenti e residenti.
La chiesa sconsacrata e completamente sventrata è stata dotata, nella zona absidale, di una copertura posticcia per preservare dagli agenti atmosferici quel che resta degli antichi decori.
Rimane in piedi a ricordo di una storia da non dimenticare, il campanile ultimo testimone di quanto ho raccontato.
In copertina: Santa Maria in Passione. Foto di Stefano Eloggi.
La chiesa di San Marcellino, sita nell’omonima piazza, guadagna il suo spazio senza tempo fra via del Campo e via Gramsci regalandoci inusitate atmosfere.
Secondo la tradizione infatti una chiesuola, soggetta alla giurisdizione della cattedrale di San Lorenzo, fondata in quella contrada dal clero milanese in fuga dalla loro città invasa dai Longobardi, sarebbe già esistita da tempi remoti.
Nel 1023 il Vescovo Landolfo ne fa per la prima volta menzione scritta citandola fra le pertinenze dell’abbazia di San Siro.
Nel corso dei secoli successivi la chiesa, dopo i restauri voluti da Giovanni Battista Cybo, è rimasta nella sfera d’influenza della famiglia del futuro (con il nome dal 1484 di Innocenzo VIII) Papa.
L’edificio che non presenta né opere d’arte, né arredi di particolare pregio perse la sua originaria intitolazione a vantaggio dell’omonima chiesa costruita in forme moderne nel 1936 in via Bologna nel quartiere di San Teodoro.
Fu Don Luigi Orione a tentare di recuperarne nel 1939 il valore storico e l’antico spirito. L’intento era quello di farne un luogo d’incontro e assistenza per i marinai che sbarcavano nel porto proprio come avvenuto ai pellegrini e ai crociati nel millennio precedente.
Purtroppo l’imminente scoppio del conflitto mondiale vanificò il nobile progetto. L’idea di Don Orione non è andata comunque perduta perché sulle macerie fisiche e morali della guerra il sacerdote gesuita Paolo Lampedosa con l’appoggio appunto dell’Opera Don Orione istituì nella chiesa l’associazione “la Messa del Povero”.
Tale iniziativa si prefiggeva di aiutare poveri, profughi, sfollati e in genere tutti gli emarginati.
Dal 1988 l’associazione nel frattempo mutata in San Marcellino si è trasferita nella vicina via Ponte Calvi proseguendo la millenaria vocazione assistenziale dell’omonima chiesa.
La Grande Bellezza…
In copertina: Chiesa e piazza di San Marcellino. Foto di Stefano Eloggi.
Persino nella moderna Via Fiume, un tempo località Bisagno Sottano, è possibile ammirare preziose testimonianze artistiche del passato.
E’ questo il caso del civ. n. 11r dove una volta aveva sede il celebre ristorante (oggi in Viale Brigata Bisagno 69r) Gran Gotto.
Qui, nella lunetta ricavata dal tamponamento della loggia, è ancora visibile un affresco secentesco raffigurante la Madonna col Bimbo, città, Lanterna e santi protettori della Repubblica.
La Grande Bellezza…
In copertina: la lunetta affrescata di Via Fiume. Foto di Franco Risso.
Incerta è l’origine del toponimo che pare derivi da una forma dialettale arcaica con la quale si delimitava questa zona in pendenza dalla collina di Castello alla chiavica. Quest’ultima scorreva a valle in corrispondenza dell’attuale via dei Giustiniani.
La salita costeggia il Conservatorio di Musica ricavato in quello che un tempo era l’antico monastero di N.S. delle Grazie e a fianco l’edificio che nell’ottocento ospitò il Liceo D’Oria.
Salita Mascherona era nota anche perché vi si trovavano un paio di frequentati teatri: il Edmondo Rossoni all’interno di un oratorio dismesso e, al civ. n. 9, il più celebre Podestà, noto anche come Teatro del Popolo, in voga fino al 1922.
In copertina: via di Mascherona. Foto di Leti Gagge.
L’ormai sbiadita lastra rammenta infatti la storia di Lorenzo De Negri giovane partigiano nato a Crocefieschi nel 1926 che, membro della brigata SAP “Bellocci”, morì qui in combattimento durante le concitate fasi della liberazione della città.
Come purtroppo tanti suoi coetanei, anche Lorenzo non ebbe dunque la possibilità di vedere Genova libera e a lui – come agli altri caduti – va il nostro pensiero e ringraziamento.
Recita l’epigrafe:
“CON IL SACRIFICIO DELLA SUA FIORENTE GIOVINEZZA QUI LORENZO DE NEGRI UNO DEI TANTI SUGGELLÒ CON IL SUO SANGUE L’IDEALE SUPREMO DI LIBERTÀ E GIUSTIZIA 21-8-1926 — 24-4-1945“.
In copertina: La lapide al civ. n. 6 delle Mura delle Cappuccine.
A Genova quando si parla di sugo e carne alla genovese s’intende il “Tuccu” con cui condire taglierini e ravioli.
A Napoli invece con la dicitura “alla genovese” si ci riferisce ad un condimento bianco a base di cipolle e carne di manzo o vitello con il quale si preparano gli ziti della tradizione napoletana.
Assai curiosa e dibattuta ne è la genesi: secondo alcuni “la genovese” sarebbe stata importata nella città partenopea da mercanti della Superba nel XIV o XV secolo al tempo della dominazione aragonese. Per altri la nascita sarebbe da relazionarsi invece al cognome “Genovese” (molto diffuso in Campania) o al soprannome “O Genovese” del suo presunto inventore.
Liberamente tratto dal sito “Storie di Napoli.it” riporto:
“La fonte più antica sulla Genovese risale al 1285, anno della prima pubblicazione de il “Liber de coquina“. Questo testo di cucina napoletana, scritto in latino volgare e dedicato a Carlo II d’Angiò da un anonimo cortigiano, cita “De Tria Ianuensis” (Della Tria Genovese). Con il termine tria sembrerebbe che all’epoca si intendesse la pasta. Per la prima volta con questa ricetta si parla di un sugo preparato con le cipolle e con la carne.
Altri invece parlano di un cuoco del XV secolo famosissimo a Napoli con il nomignolo di “O’ Genovese” come inventore di questo piatto.
Un’altra teoria sulle origini della Genovese si fonda sul fatto che a Napoli, nella zona portuale, esisteva una strada chiamata via dei Genovesi, perché pullulava di osterie e taverne gestite da ex marinai genovesi. Uno dei piatti che vi si poteva assaporare era una vivanda a base di carne che ancora oggi esiste a Genova. Si tratta di un pezzo di carne tagliato a grossi pezzi insieme a carota, sedano e cipolla detta “u Tuccu“. Si racconta, ma qui sforiamo nella leggenda, che tra i genovesi arrivati a Napoli a bordo del vascello “Superba” nel XVIII secolo, tra di loro, ci fosse un marinaio particolarmente abile in cucina che si inventò questa pietanza.
Infine nella prima versione del trattato “La Cucina Teorica Pratica”, pubblicato a Napoli nel 1837 a opera di Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, della ricetta della Genovese risultano svariate vivande, tra le quali nessuna purtroppo assomiglia a un condimento per la pasta. Nella seconda variante del trattato, del 1839, quando si parla di lasagne alla Genovese si nota un netto cambiamento. Da questo momento la Genovese ha assunto definitivamente la sua versione attuale, più napoletana che genovese”.
La preparazione è molto semplice ma il risultato è straordinario: si fa cuocere a fuoco lento per almeno due ore (più cuoce comunque meglio è) il girello (rotondino, megatello, lacerto, coscia rotonda a seconda delle regioni) in un classico soffritto di carote e sedano e, soprattutto, di abbondante cipolla, avendo cura di bagnarlo con brodo e vino bianco o rosso per non farlo restringere e asciugare troppo.
A testimonianza della probabile comune origine la carne della genovese alla napoletana, proprio come per il tocco genovese classico, si può aggiungere al sugo per condire la pasta insieme a pecorino o parmigiano, oppure si può gustare da sola come fosse un secondo.
In copertina: Ziti alla genovese. Foto tratta da chezuppa.com