Al civ. n. 2 di Piazza della Meridiana si trova, progettato da Bartolomeo Bianco, il secentesco Palazzo Gio Carlo Brignole. La versione in cui ancora oggi lo possiamo ammirare è quella della ricostruzione ndel 1671 su pertinenze antecedenti. Ai Durazzo che a metà dell’Ottocento acquisirono dalla famiglia Brignole la proprietà dell’edificio si deve la stupefacente decorazione dell’atrio.
Nella parte superiore decorata da Federico Leonardi campeggia lo stemma del casato, in quella inferiore risaltano invece le gesta di illustri genovesi che fecero grande Genova: Guglielmo Embriaco, Simone Boccanegra e Andrea D’Oria le cui storie circondano l’ottocentesco affresco principale, opera di Giuseppe Isola che celebra Ottaviano Fregoso il distruttore della fortezza della Briglia occupata dalle truppe francesi di Luigi XII.
Il linguaggio prescelto che si sviluppa attraverso la postura del protagonista che regge fiero lo stendardo è quello risorgimentale con cui questi “viri” illustri assurgono a simbolo della lotta contro l’oppressione straniera.
“Questa notte ho riunito il Tribunale Militare Straordinario, presieduto dal più alto ufficiale in grado presente nel Presidio, il quale ha emanato sentenza di morte, mediante fucilazione, di otto rei confessi di congiura contro lo Stato in zona di operazioni e di condanna a 20 anni di carcere militare di altri due sovversivi.
“La sentenza è stata eseguita all’alba”
Con queste asciutte e tragiche parole il prefetto Carlo Emanuele Basile annunciava di aver dato seguito al suo precedente comunicato.
I due antifascisti condannati a vent’anni di carcere erano Guido Pinna e Guido Carpi. I condannati alla pena capitale si chiamavano:
Dino Bellucci, professore, di anni 32;
Giovanni Bertora, tipografo, di anni 31;
Giovanni Giacalone, straccovendolo, di anni 53;
Romeo Guglielmetti, tranviere, di anni 34;
Amedeo Lattanzi, giornalaio, di anni 35;
Luigi Marsano, saldatore elettrico, di anni 33;
Guido Mirolli, oste, di anni 49;
Giovanni Veronello, operaio, di anni 57.
“Nelle prime ore del 14 gennaio 1944 il comandante della Legione dei Carabinieri di Genova mi ordinava, per telefono, di recarmi con un plotone di venti carabinieri al forte di San Martino, per eseguire un urgente servizio di ordine pubblico”
Parole del tenente Giuseppe Avezzano Comes, ufficiale incaricato di espletare il compito richiesto, che prosegue:
“Giunto sul posto, trovai la località deserta; senonché, dopo aver atteso per circa un’ora, e mentre mi accingeva a rientrare in caserma, vidi arrivare, con alcune macchine, un folto gruppo di ufficiali tedeschi e fascisti che accompagnavano otto persone in ceppi.
Nel frattempo venivo chiamato da un colonnello della milizia fascista in divisa, il quale qualificandosi per il Console Grimaldi, mi ordinava di procedere all’esecuzione immediata mediante fucilazione di otto “traditori” che il tribunale fascista aveva condannato a morte per vendicare un attentato in Genova del giorno innanzi, in cui era stato ucciso un un ufficiale tedesco.
A tale ordine opponeva un secco rifiuto, insistendo sulla illegittimità sia di chi me lo impartiva, sia del Tribunale che lo aveva emesso. Nonostante l’intervento di altri ufficiali fascisti e tedeschi che mi minacciavano di processo sommario e di fucilazione sul posto insieme agli altri condannati, mantenni fermo il mio atteggiamento di rifiuto; tanto che il Grimaldi dopo avermi accusato di codardia, per mezzo di due tedeschi delle SS mi fece allontanare dai miei uomini e sospingere in una casamatta.
Dalle feritoie della stessa, potrei osservare quello che avvenne dopo: il Grimaldi fece schierare di spalle al muro del cortile del forte gli otto condannati e ordinò lui stesso ai carabinieri di fare fuoco.
Ma tutti i militari rivolsero palesemente le armi in alto, tanto che uno dei giustiziati, il Prof. Bellucci, ebbe a dire ad alta voce: “ragazzi fate presto, mirate dritto al cuore. Se non mi uccidere voi mi uccideranno gli altri”.
A questo punto il Grimadi radunò gli altri militari tedeschi e fascisti presenti e procedette lui stesso all’esecuzione. Fece disporre i condannati di fronte, a due alla volta, costringendoli a salire sui corpi dei compagni caduti mentre ancora si sbattevano per terra in agonia.
Il massacro veniva completato con il colpo di grazia, pietosamente esploso per ognuno dei moribondi da un ufficiale medico presente. Ad esecuzione avvenuta, tedeschi e fascisti lasciavano immediatamente la località, allontanandosi con gli stessi mezzi con i quali erano venuti.
Uscivo allora dalla casamatta, disponevo il piantonamento dei patrioti caduti e con il resto dei carabinieri rientravo in caserma”.
Qui il tenente riuscì a distruggere la nota di servizio con i nomi dei Carabinieri insieme a lui al Forte, così da evitare rappresaglie nei loro confronti da parte delle SS.
“Per intervento del Prefetto Basile venni messo agli arresti e allontanato da Genova.
Successivamente fui sottoposto ad inchiesta formale ed infine arrestato dal comando della Feld Gendarmeria tedesca di Albenga, dal quale fui trattenuto in prigione fino alla liberazione, subendo a mia volta torture e sevizie”.
Liberamente tratto dal volume “Una città nella Resistenza!” di Carlo Brizzolari, Valenti editore.
Nel 1984 il sindaco Fulvio Cerofolini gli concesse la cittadinanza onoraria e dal gennaio 2019 gli è stata intitolata l’Officina Deposito della Metropolitana di Genova:
al Tenente dei Carabinieri Giuseppe Avezzano Comes, “Combattente della Libertà”, come recita la frase riportata sulla targa commemorativa collocata all’interno dell’ampio spazio dedicato alle lavorazioni dei treni.
Hanno preso parte alla cerimonia il vice sindaco Stefano Balleari, l’amministratore unico di AMT Marco Beltrami, il comandante provinciale dei Carabinieri Col. Riccardo Sciuto e Massimo Bisca, presidente Anpi Genova.
In copertina: reparto dei Carabinieri che si rifiutò di sparare sugli ostaggi condannati dal tribunale fascista. Foto presa dal volume sopra citato.
La chiesa di Santo Stefano (fuori campo a destra osservando la cartolina) è rimasta sola. Da poco tempo la Porta degli Archi, per far spazio al Ponte Monumentale, è stata traslocata altrove.
Sulla strada intitolata al barone, sindaco e promotore del progetto, convivono vecchie carrozze e moderni, per l’epoca, tram a rotaie.
Mentre un signore passeggia assorto nella lettura del proprio giornale il 123 è diretto a Manin.
Una signora di bianco vestita, nell’attraversare, sfida fiduciosa gli schizzi di fango e sterco che ricoprono il selciato.
Versi tratti dalla raccolta Sonetti di Enea del 1952.
In quest’ode alla città prediletta il tema della giovinezza fiduciosamente amorosa s’incrocia con quello del passato, che a sua volta nelle eleganti rime di Caproni si riallaccia alla pena del futuro.
Nelle piccole cose quotidiane il poeta rivela, come nei sogni, le più profonde risonanze e gli echi di un mondo magico e spettrale, in cui l’armonia si fa dolcemente straziante.
Con la costruzione di Via Casaregis iniziata in principio 900 e completata nei due decenni successivi le case e i magazzini dei pescatori vennero espropriate.
Fu così che nel 1935 sulla sponda destra del Bisagno per accogliere le loro attività, vennero appositamente costruite le nuove case dei pescatori.
Giovanni Benedetto Castiglione noto, per via della sua peculiarità di vestirsi all’orientale e fingersi greco, come il Grechetto realizza nel 1645 il suo capolavoro: la Natività per la chiesa patrizia genovese di San Luca, proprietà degli Spinola.
In questa pala il cui vero titolo è “Adorazione dei pastori” l’artista dimostra di aver assorbito sia i caratteri di rinnovamento legati alla presenza in città di inizio Seicento dei maestri del Barocco Rubens e Van Dyck in particolare, sia gli insegnamenti frutto del precedente soggiorno romano in cui frequenta Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona e studia le prime opere di Poussin.
Per la descrizione tecnica non posso far altro che proporre quanto scritto dal sito specializzato www. fosca.unige.it (fonti per la storia della critica dell’arte) che spiega in maniera impeccabile le caratteristiche dell’opera:
“L’impostazione spaziale si rivela infatti con caratteri di novità: i personaggi si addensano sul lato destro della scena su piani lievemente diversi. La Vergine risulta con il Bimbo fulcro di un insieme di linee idealmente provenienti da un arco di cerchio sul quale si dispongono tutti i personaggi, ma leggermente distanziata da questi, quasi in un isolamento evidenziato dalla luce promanata dal giacilio del Bambino. L’articolazione dello spazio è ripresa anche dal gruppo di angeli che si addensano sopra la scena, intrecciando gesti e movimenti come in un gruppo plastico. L’accentuata fisicità di questi ultimi, la naturalistica evidenza del loro sporgersi verso la scena ripropone la ricchezza dell’esperienza romana e forse napoletana. Per la presenza del gruppo d’angeli si può forse pensare anche ad un riferimento alla pala della Circoncisione del Gesù di Genova.
In corrispondenza con la figura della Vergine, la colonna separa il luogo del sacro avvenimento da un fondale rappresentato a squarci. Poussiana è la figura di Giuseppe, del pastore con le mani giunte nella posizione dell’oratio, la luca che illumina il volto del Bimbo, nell’accostamento delle tonalità di veste, manto e velo della Vegine, così pure i gli incarnati dalle tonalità rosso-brune, questi ultimi trovano anche riferimenti nelle scelte rubensiane”.
Fino a fine Ottocento il presepe oggi custodito a Palazzo Reale, noto come Presepe Reale o Presepe Savoia, apparteneva alla chiesa torinese di San Filippo Neri anche se gli esperti non sono certi sia stato realizzato per quella sede.
Alcuni studiosi infatti ritengono che il presepe sia stato commissionato dai Savoia intorno al 1814 al tempo dell’annessione della Repubblica di Genova al Regno di Sardegna.
A partire da inizio ‘900 il presepe, inizialmente ritenuto opera del Maragliano (1664-1739) e di altri maestri intagliatori (Ciurlo e Pittaluga) è passato di mano in mano per poi per fortuna diventare patrimonio comune.
Furono nel 1993 gli esperti Giulio Sommariva e Giuliana Biavati – come spiegato nel sito http://palazzorealegenova.beniculturali.it/il-presepe-del-re/ di palazzo Reale – ad identificare con certezza l’autore nella figura di Giovanni Battista Garaventa (1770-1840), artista di formazione accademica, attivo soprattutto come intagliatore di casse processionali e immagini sacre, come restauratore di antiche sculture e modellatore di apparati decorativi ed effimeri che dà qui prova di saper utilizzare un linguaggio colto e raffinato, di grande efficacia e piacevolezza compositiva.
Dallo stesso sito riporto pari pari, poichè sarebbe presuntuoso aggiungere altro, la puntuale descrizione del capolavoro composto da 85 strepitose statuine lignee di dimensione compresa fra i 40 e i 70 cm, minuziosamente decorate:
“Regale nell’ampiezza ed eccezionale nelle sue componenti: la Sacra Famiglia ne costituisce naturalmente il nucleo centrale, insieme agli angeli, ai tre sontuosi magi, agli armigeri e ai soldati. Ogni statuina è impreziosita da eleganti ed elaborati costumi in seta, cotone, velluto, tela jeans. Gli abiti sono inoltre caratterizzati da passamanerie in argento e filo d’oro, corpetti e armature in cuoio e metallo argentato che fanno d’ogni personaggio un piccolo capolavoro. E il tutto è qualificato da accessori sofisticati: corone e sciabole, lance e scudi in metallo sbalzato, catene e cinture in cuoio, utensili e attrezzi che indicano una committenza di altissimo rango e di cospicue disponibilità economiche. Qualità e mestiere nelle parti scolpite si apprezzano sia nei pastori che nei popolani d’ambo i sessi, con una varietà di intonazioni, un gusto spiccato per il dettaglio di pregio, una forza plastica di impostazione classica che trova riscontri anche nel variopinto serraglio formato, oltre che dal bue e dall’asinello, dai tre magnifici cavalli dei magi, da due esotici cammelli e, poi, come da tradizione, da mucche e pecore, capre e montoni”.
La Cattedrale di San Lorenzo non finisce mai di stupire e regala sempre piccole e grandi sorprese. Visto che siamo in tema natalizio ecco che sullo stipite sinistro del portale centrale nel fregio verticale la terza partendo dal basso delle scene rappresenta una splendida Natività del XIV sec.
Gli altri episodi della vita di Gesù descritti sono: l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività appunto, l’Epifania, la Presentazione al tempio, la Strage degli Innocenti e la Fuga in Egitto.
La ricerca prosegue all’interno della chiesa, dove s’incontra un imponente gruppo marmoreo bianco di artista ignoto con Bambino, Giuseppe, Maria e pastore in atto di omaggio, noto come la Natività di San Lorenzo.
Imperdibile infine anche il Presepe storico con figure lignee napoletane (XVIII sec.) in abiti finemente addobbati dono del Maestro Mario Porcile (regista e direttore artistico di balletto italiano 1921-2013).
In copertina: il presepe napoletano in San Lorenzo. Foto di Marcello Lusana.
Poco prima di morire Lorenzo De Ferrari realizzò nel palazzo Cataldi Carega, o Tobia Pallavicino dal nome del suo primo proprietario, sede oggi della Camera di Commercio di Genova, i suoi più apprezzati capolavori: la cappella adibita a custodire la Madonna Carrega del Puget e la galleria Dorata, ambienti entrambi noti per via della loro stupefacente opulenza.
Nella galleria, in particolare, non c’è un solo centimetro che non sia, con l’aiuto del collega Diego Francesco Carlone, sfarzosamenre decorato dal Maestro.
Tale spazio collocato a chiusura della struttura settecentesca del palazzo, rappresenta infatti lo stato dell’arte del Rococò genovese.
Fu interamente ideata da Lorenzo che impiegò un decennio fra il 1734 e il 1744 per dare forma al suo grandioso progetto di fondere insieme stucchi dorati, specchi ed affreschi, in una sublime commistione di arti e competenze diverse.
La galleria ultima sua opera prima di morire costituisce in un tripudio di vertiginosa bellezza l’eredità, la summa dell’artista.
L’intero ciclo decorativo è ispirato alle storie di Enea; nel medaglione centrale della volta e nei tondi su tela vengono svolti gli episodi più importanti dell’Eneide.
Sull’ovale della volta è raffigurato il Concilio degli dei, con Venere, madre di Enea al cospetto di Giove.
Nelle due grandi lunette sono rappresentati, lo Sbarco di Enea e Enea e Venere, mentre i quattro tondi laterali sono dedicati agli episodi della fuga da Troia, di Enea e Didone, di Venere commissiona a Vulcano le armi di Enea e della sconfitta di Turno.
La Grande Bellezza…
In copertina: la Galleria Dorata di Lorenzo De Ferrari. Foto di Stefano Eloggi.
Provenienti dal convento dei Cappuccini di Sarzana nell’auditorio della chiesa genovese di Santa Caterina di Portoria è esposto un antico e splendido esempio dell’arte presepiale della nostra città.
Accanto a pregevoli sculture settecentesche come quelle del corteo dei magi se ne affiancano altre di origine e fattura più modesta, intagliate dagli stessi cappuccini verso la fine del XIX secolo.
L’idea ispiratrice di questo presepe è il concetto di “luce”. La scena in bianco e nero che rappresenta anche il contrasto fra il bene e il male è illuminata dalla nascita di Gesù avvolto di contro una luce potente; davanti a lui è raccolta tutta l’umanità attraverso alcune figure rappresentative. In primo piano, troviamo i personaggi che si sono già lasciati illuminare, fra cui due persone di diverso colore che si accolgono reciprocamente. Più indietro un gruppo di soldati e la folla, intenta alle attività futili della vita. La figura del mendicante, caratteristica del presepe genovese, contrasta con lo sfarzo del magnifico corteo dei Re magi. I due magi bianchi sono presentati già in adorazione, mentre il mago moro è ancora in cammino con il suo ricco seguito.
Infine ma non ultima un’altra peculiarità rende unico questo presepe: la singolare rappresentazione della natività che non prevede la Sacra Famiglia al completo ma solo il Divin Bambino.