Vico superiore di Campo Pisano

All’incrocio tra vico Campo Pisano e vico superiore di Campo Pisano si trovava un tempo un teatro particolarmente caro ai genovesi: il teatrino gestito da Nicola Tanlongo, in arte Ö Feûgo che, insieme al fido aiutante Cincinina allestiva qui spiritosi spettacoli di burattini.

L’attività cessata a causa della guerra riaprì i battenti, purtroppo senza successo, negli anni 80′ del secolo scorso.

Oggi i locali dell’antico locale sono stati trasformati in ristorante.

In Copertina: Vico superiore di Campopisano. Foto di Antonio Corrado.

Vico Veneroso

Vico Veneroso è uno stretto caruggio che fa parte di quel gruppo di vicoli situati sul lato sinistro di Via San Lorenzo scendendo in direzione mare.

Al civ. n. 4 dell’omonima piazza si trova il Palazzo nobiliare di Giovanni Bernardo Veneroso. L’edificio venne distrutto dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale e ricostruito negli anni ’50.

Il caruggio, recentemente riqualificato, deve il nome alla casata dei Veneroso originaria di Ancona secondo alcuni, di Verona secondo altri.

Costoro si stabilirono a Genova nel ‘300 fornendo alla Repubblica diversi senatori e soprattutto due Dogi: Gerolamo di Gio-Bernardo nel 1726 e sui figlio Gio-Giacomo nel 1754.

Con la riforma Doriana degli Alberghi del 1528 furono ascritti nei Lomellini.

In Copertina: Vico Veneroso. Foto di Stefano Eloggi.

Vico dei Parmigiani

In Piazza Fontane Marose a lato di Palazzo Spinola dei Marmi si trova vico dei Parmigiani.

Il caruggio deve al nome al fatto che qui nel Medioevo aveva sede la loggia in cui era permesso alla comunità parmense esercitare i propri commerci.

All’angolo fra vicolo e palazzo Spinola si nota un’edicola di Madonna col Bambino del XVIII secolo.

Sul lato opposto in basso, incastonata nel muro ecco invece una palla di cannone la cui provenienza non è accertata.

Secondo alcuni esperti si tratterebbe di un ricordo del bombardamento del Re Sole del 1684, secondo altri invece di quello del La Marmora del 1849.

In Copertina: Vico dei Parmigiani. Foto di Stefano Eloggi.

Il bassorilievo di Vico degli Adorno

In vico degli Adorno, angolo via Lomellini, si trova un pregevole bassorilievo in pietra nera.

Tale manufatto, risalente al XV secolo, rappresenta la Madonna col Bambino sotto alla quale al centro campeggia il trigramma di Cristo al centrcircoscritto in una ghirlanda retta da due putti.

AI lati due stemmi nobiliari abrasi raffigurati con gusto bucolico fra gli alberi.

Sulla cornice della base è incisa l’epigrafe:

PAX HVIC DOMVI. SEC XV.

In Copertina: il bassorilievo di Vico degli Adorno. Foto dell’autore.

Il misterioso e dimenticato meali!

A Genova ancora per quelli della mia generazione nati inizio anni ’70 la parola meali aveva un significato ben preciso.

Non c’era infatti campetto, oratorio, sagrato, giardinetto o piazzetta dove durante la partita con questo termine venisse identificata la rimessa dal fondo.

Erano gli anni in cui al portiere non era richiesto il saper giocare coi piedi. Per fare bene il suo mestiere, ovvero quello di parare, bastava che sapesse usare con bravura le mani.

A quel tempo dunque la ripresa del gioco dal fondo avveniva con un lancio lungo del pallone che, prima di essere toccato da un compagno, doveva in ogni caso uscire dall’area di rigore.

Così molto spesso ad effettuare tale rinvio non era il portiere, bensì il libero o comunque il giocatore di movimento dotato del calcio più lungo.

Oggi invece è in voga -uso il termine tecnico- la “costruzione dal basso” che prevede l’avvio dell’azione proprio da parte del portiere che passa la palla (che non deve più necessariamente prima di essere toccata da un compagno uscire dall’area grande) ad uno dei due terzini posti ai vertici di quella piccola.

Eppure al di fuori dei confini provinciali la parola meali è sconosciuta. Semplicemente non esiste se non tramandata dalla tradizione orale delle cronache delle partite degli albori. Persino l’Accademia della Crusca interpellata a suo tempo sulla questione della sua genesi non ha saputo fornire una spiegazione definitiva.

Secondo alcuni infatti l’etimo della parola meali deriverebbe da una maccheronica onomatopeica traduzione dall’inglese della domanda rivolta all’arbitro “May I?” (posso battere?) oppure dalla storpiatura di “My line” (batto dalla mia linea) et “similia”.

Secondo altri l’origine sarebbe invece riconducibile all’espressione dialettale “Mèa li! (Guarda lì) per indicare dove mettere la palla per battere il rinvio dal fondo.

Facendo ricerche in rete sull’argomento mi sono imbattuto anche nelle suggestive quanto fantasiose ipotesi formulate dal sito Pagina2Cento secondo il quale la parola meali vanterebbe addirittura origini greche. In proposito riporti pari pari:

“… Un amico tifoso dell’Aris Salonicco ha suggerito che “me allì” in greco significa “con l’altra” (femminile). Starebbe per “gioca dal fondo con l’altra palla”: un cambio di attrezzo, insomma, come oggi i portieri fanno spesso. Ma all’epoca dei pionieri? Difficile.

Un altro amico, stavolta tifoso del Paok Salonicco, l’ha presa più sul filosofico: “se ci pensi, calcio d’angolo o rimessa dal fondo dipendono sempre da una decisione dell’arbitro, nonostante i giocatori pretendano sempre di aver ragione. Tutti sostengono di dire la verità al direttore di gara. E quando il fischietto decide, eccoci in presenza di un giudizio preso “me alithia”, che in greco vuol dire con verità. Per il corner era già popolare la parola inglese, ma goal kick no. Meali vuol dire che l’arbitro ha deciso per la rimessa dal fondo e che il suo giudizio è la verità di cui prendere atto”.

Meali deriverebbe da “Me alithia” in forma contratta? Mah… forse. Nessuno degli altri al tavolo aveva una spiegazione migliore. Tutti concordavano però su una cosa: meali aveva sicuramente un’origine ellenica, come (secondo i greci) il 99,99% delle parole nel mondo occidentale.

Avevo solo un ultimo quesito per loro: d’accordo l’origine greca, ma come si spiegherebbe l’uso di meali solo a Genova e nelle sue immediate vicinanze? Con questa domanda, ero sicuro di averli messi nel sacco. Mi hanno risposto in coro: “Semplice. Siete una città di mare e chi domina il mare, dai tempi dell’Iliade, sono i marinai greci. Saremo venuti a giocare da voi e vi avremo insegnato la parola meali”.
Parola che poi, in Grecia, non hanno mai utilizzato”.

Greci o non greci sicuramente il football in Italia, proprio per via degli scambi marittimi con gli inglesi, è nato proprio a Genova nel 1893 con la fondazione del Genoa CFC e quindi è plausibile che la parola meali sia frutto di questa contaminazione inizialmente onomatopeica poi assorbita nella lingua genovese.

Meali! Ovvero “Compagni guardate” avvertimento rivolto dal battitore ai giocatori sulle ali che sta per rilanciare in loro direzione.

Qualunque sia l’origine della parola di cui nella lingua italiana non si ha traccia, per me che da ragazzino facevo il portiere, il rinvio dal fondo, che sia io o il libero a calciare, sarà sempre il meali!

In Copertina: Meali battuto dal portiere durante una partita di campionato inglese di inizio secolo. Immagine tratta da Ulimouomo.com.

Vico della Rosa

Vico della Rosa sito nel quartiere della Maddalena si interseca nel groviglio dei caruggi con Via della Maddalena, col vico Dietro il Coro della Maddalena e con via dei Macelli di Soziglia.

In origine il caruggio si chiamava Vico del Fondaco. Nel 1795, per non confonderlo con l’omonima salita nei pressi di Piazza De Ferrari, mutò il suo nome in Vico della Rosa.

Curioso il fatto che per evitare un possibile equivoco se ne creò invece un altro: infatti di Vico della Rosa ve ne era precedentemente già uno nel quartiere del Molo.

Solo nel 1868 questa seconda omonimia venne risolta ribattezzando il caruggio con il titolo di Vico Cimella.

A completezza di informazione è giusto ricordare anche, spunto per sbrogliare ulteriore fraintendimento, sito fra via Giustiniani e Via San Bernardo, Vico di Santa Rosa.

Quest’ultimo vicolo probabilmente riferito alla Vergine di Lima a cui, fra l’altro, nella chiesa di Santa Maria di Castello è intitolata una cappella impreziosita con una pala di Domenico Piola.

In Copertina: Vico della Rosà. Foto di Antonio Corrado.

Le Tomaxelle

Le tomaxelle sono un piatto tradizionale genovese a lungo dimenticato.

In estrema sintesi si tratta di un involtino di carne farcito con uova, formaggio, spezie, interiora e verdure.

Secondo gli esperti il nome tomaxella riconduce dal latino “tomaculum”, salsicciotto, mortadella con chiaro riferimento sia alla forma che alla funzione contenitiva del ripieno di cui è imbottita.

Secondo altri invece l’etimo potrebbe anche derivare da “tomix“, cordame di canapa o di giunco, in riferimento alla legatura dell’involtino stesso.

L’incertezza non concerne solo il nome ma anche la filosofia stessa di questo cibo perché la tomaxella viene da molti considerata emblema del piatto di recupero.

Ipotesi questa poco plausibile visto il non senso di riciclare avanzi per cucinare della costosa carne di vitello. Più probabile invece che il preparato avesse un pedigree tutto suo.

Non si sa con certezza quando le tomaxelle siano nate. Ne esistono due versioni: una più antica cucinata in bianco quando ancora il pomodoro non era noto ed una più recente affogata invece nella salsa.

Curioso poi il fatto che nell’Antica Cuciniera del Ratto del 1863, il testo sacro della cucina nostrana, la ricetta degli involtini genovesi compaia nell’indice delle pietanze con il nome di “Bracioline ripiene” e la parola “tomaxelle” sia tra parentesi.

La ricetta della Cuciniera Genovese del Ratto del 1863.

Un piatto prelibato questo è certo che negli ultimi anni è stato riscoperto e riproposto nei menù delle trattorie locali.

Lo storico Michelangelo Dolcino ne racconta anche la propagandistica funzione durante il drammatico assedio anglo austriaco del 1800 quando Genova, comandata dal generale nizzardo Massena, visse

una delle congiunture più drammatiche della sua esistenza. Le truppe francesi del generale Massena – che doveva essere ribattezzato ‘Ammassa Zena’ (Ammazza Genova) – vi si erano asserragliate, strette dagli Inglesi sul mare e dagli Austriaci per terra. I disagi aumentavano giorno dopo giorno, la fame serpeggiava per tutti, a rivoli sempre più inquietanti… Eppure, quando venne fatto prigioniero un gruppetto d’ufficiali austriaci, fu loro servito un piatto che li costrinse a sbarrare gli occhi: odorose, appetitose ‘Tomaxelle’… Si trattava di un espediente, comune nell’arco della storia, volto a scoraggiare gli assedianti, a mostrar loro che gli assediati erano ben lungi dalla fine per inedia; ma in realtà – almeno allora – non si trattava di una preparazione costosa”.

Le tomaxelle. Foto e preparazione dell’autore.

Ricetta:

Scottate in acqua bollente 100 g di petto e 100 g di magro di vitello, tritateli unendo la mollica di pane inzuppata nel brodo, i pinoli, 50 g di funghi secchi ammollati in acqua, scolati e tritati. Amalgamate il tutto, unite due uova, il formaggio grattugiato, prezzemolo, maggiorana, noce moscata e chiodi di garofano, mescolando bene fino ad ottenere un composto omogeneo. Riempite 8 fettine di vitello battute e assottigliate, arrotolatele e chiudetele con degli stuzzicadenti. Passate le tomaxelle nella farina e poi rosolatele nel burro sfumando con il vino bianco. Completate la cottura per 15 minuti nel sugo di pomodoro. Cuocere a fuoco lento, diluendo il sugo con il brodo vegetale. Sale e pepe a piacere.

In origine il ripieno delle tomaxelle era realizzato con il lesso tritato, interiora (animelle, cervella e poppa), con gli arrosti avanzati, bietole, uova e formaggio grattugiato. Successiva è dunque la presenza dei funghi ammollati e dei pinoli.

Esiste anche, nella variante al pomodoro, la presenza dei piselli come contorno.

In Copertina: Le tomaxelle. Foto e preparazione dell’autore.

Quando le Mura erano sul mare…

Quando sulle mura di Genova frangevano le onde e la città vecchia con tutte le sue vissute rughe si specchiava nel suo mare.

Quando le case dei millenari quartieri della Madre di Dio erano saldamente aggrappate alla scogliera e lo scoglio “campana” era ancora lì al suo posto.
Quando le possenti Mura delle Grazie e della Marina rendevano la Superba inaccessibile dal mare.

Quando appunto c’era ancora il mare oggi interrato dal percorso della circonvallazione e dalle banchine occupate dalle maestranze della cantieristica da diporto.

Quando la visione dell’infinito azzurro orizzonte non era ancora limitata dalla Sopraelevata.

In Copertina: Genova dal mare nel 1880

La Pànera il semifreddo dei genovesi

A proposito di gelati a Genova è impossibile non parlare della pànera, l’autoctona crema genovese a base di panna fresca, caffè arabico in polvere, tuorli d’uovo e zucchero.

Locandina della Confeercenti che racconta la genesi della Pànera.

Secondo la tradizione il noto semifreddo sarebbe nato ad inizio ‘800 per errore di un garzone di una nobile famiglia che avrebbe accidentalmente mischiato la panna con il caffè. Panna nera dunque che per contrazione in genovese divenne Pànera.

Coppetta solo di Pànera. Foto di Stefano Eloggi.

In molti, a cominciare da “Amedeo”, la premiata gelateria di Boccadasse dal 1927 , dalla “Cremeria di Buonafede” e dalla storica Pasticceria Preti del 1851 ne rivendicano la paternità.

Sia “Amedeo” che “Preti” sostengono di essere stati i primi a realizzarne l’antica ricetta e a diffondere la pànera nelle gelaterie del territorio.

La Latteria Igienica Gelateria Amedeo di Boccadasse. Foto tratta dal sito anticagelateriamedeo.com

Se Preti poi si è specializzato nella pasticceria tradizionale di certo Amedeo e Buonafede, anche se io preferisco la versione di quest’ultima, continuano a produrre un’ottima pànera.

È noto inoltre che attorno al 1770 il nostro conterraneo Giovanni Bosio, emigrato in America in cerca di fortuna, la trovò proprio aprendo a New York la prima gelateria italiana artigianale. Fu così che iniziò a proporre un’antica preparazione semifredda ligure diffusa fra le famiglie nobili della sua città natale (è presente nelle liste della spesa presso l’archivio Spinola) ideata per soddisfare i capricci estivi dei propri pargoli che non gradivano il caffèlatte caldo, preferendo invece la casalinga versione di quella che sarebbe stata chiamata pànera.

In realtà proprio perché non si hanno prove certe ed il racconto si basa sulla tradizione orale nessuno può, ad oggi, fregiarsi di tale primogenitura descritta appunto con il fantasioso espediente del garzone pasticcione.

La Cremeria di Bonafede deve il nome al suo fondatore Giacomo Parodi nato a Genova nel 1848 noto ad inizio ‘900 appunto con il soprannome “Buonafede” per via del fatto che, quando si approvvigionava di latte nelle valli dell’entroterra, dichiarava in “buonafede” alle guardie del dazio che non lo avrebbe annacquato.

Una delle sue figlie Dora andò poi sposa a Nicola Carrea che, grazie al suo ambizioso spirito imprenditoriale, ampliò insieme ai parenti l’attività lattiera integrandola con quella gelatiera.

Pare che in origine presso le latterie Carrea la pànera fosse un semplice ma molto richiesto e apprezzato caffè con la panna montata sopra.

La sua ricetta ufficiale intesa invece come semifreddo compare per la prima volta sotto il titolo di “panna gelato” solo nel 1865 nella “Vera Cuciniera Genovese” di Emanuele Rossi.

La ricetta della “Vera Cuciniera” del 1865 di E. Rossi.

Nel 1911 la famiglia Carrea aprì in via Orefici 59r (18 metri quadri) la prima di quelle che poi nel 1913 sarebbero state ben nove latterie. Delle restanti otto oggi ne resta attiva solo una sita in via Luccoli 12r (13 metri quadri).

Attualmente sono gestite entrambe dalla famiglia di Romeo Ghiotto discendente in linea materna del fondatore che ha rilevato nel 1970 il locale in marmo di via degli Orefici dal prozio Giovanni e nel 1992 la Cremeria Buonafede di via Luccoli dal cugino Nicolò.

La Cremeria di Buonafede appartenente al prestigioso albo delle botteghe storiche genovesi. Foto di Leti Gagge.
La Cremeria di Buonafede in Via Orefici. Foto di Stefano Eloggi.

La produzione avviene ancora oggi in un piccolo laboratorio di 45 metri quadri in piazza delle Vigne, nei fondi di un palazzo storico vincolato dalla Sovrintendenza ai beni artistici e dalle Belle arti, Palazzo Grillo.

Ottima da sola, goduriosamemte peccaminosa è la pànera insieme alla panna montata di loro produzione. Quest’ultima proposta anche in goloso abbinamento ai krapfen anch’essi da loro realizzati.

Ultima curiosità Genova ha una sorella dal nome, in due lingue diverse, identico che è Napoli (dall’etrusco Kainua Genova, dal greco Neapolis Napoli, entrambe significano “città nuova”) dove – guarda caso– esiste una preparazione molto simile, chiamata “Coviglia”.

In Copertina: Foto di Silvia Silva.