S. Orsola

Il caruggio di S. Orsola è tutto quel che rimane in ricordo di un antico oratorio sito nelle vicinanze intitolato ai santi Gregorio e Orsola.

L’edificio religioso che si trovava in Piazza Leccavela fu demolito nel 1810 in seguito alla soppressione degli ordini religiosi sancita dagli editti napoleonici.

Al suo posto, circa quarant’anni più tardi, vennero installati dei lavatoi pubblici che restarono in uso fino al dopoguerra.

Purtroppo, come uso comune, i muri sono imbrattati dai soliti, più che graffiti artists, ignoranti.

In Copertina: Vico S. Orsola. Foto di Stefano Eloggi.

Il Portale di Santa Zita

Le chiese di Santa Zita, di Borgo Incrociati e di Santa Croce in origine erano il luogo di culto della comunità lucchese a Genova.

Nell’antico quartiere medievale di Borgo Pila fino al 1278 infatti, per volere dei mercanti e tessitori toscani, si trovava il tempio intitolato al Volto Santo, simulacro assai venerato a Lucca.

Dopo tale data la chiesa venne dedicata alla martire loro concittadina Zita e diventò punto di riferimento per gli abitanti della zona del Bisagno.

Nel ‘400 poi l’edificio fu gravemente danneggiato da una piena del fiume e, demolito, successivamente ricostruito.

Alla fine del’800 la chiesa, di dimensioni insufficienti per accogliere i fedeli, venne ancora atterrata.

Così nel 1893, grazie alla donazione di un terreno adiacente da parte della Duchessa di Galliera, in quella che a quel tempo era via Minerva, oggi Corso Buenos Aires, venne riedificata nelle attuali forme neo rinascimentali in stile fiorentino.

Della chiesa quattrocentesca rimangono una statua della Madonna di Città, una tela di Valerio Castello con il Miracolo di santa Zita e il portale della vecchia chiesa.

Quest’ultimo è stato collocato nella parte posteriore della chiesa lato via Santa Zita: sul suo architrave reca tre statue (un Crocifisso con ai lati la Madonna e san Giovanni Battista), provenienti da un altare scomparso; sono tutte e tre opera del maestro Giovanni Antonio Paracca (XVI secolo), noto anche come il Valsoldo.

In Copertina: il Portale originario di Santa Zita. Foto dell’autore.

Vico superiore di Santa Sabina.

La zona di Santa Sabina prende il nome dall’antichissima chiesa dei santi Vittore e Sabina fondata nel VI secolo.

Nella piazza infatti sorgeva l’omonima chiesa sconsacrata nel 1931 e poi demolita nel 1939 per fare spazio ad un cinema.

Al posto di quest’ultimo, anch’esso abbattuto, una moderna quanto orripilante (visto il contesto) costruzione di vetro e cemento sede di una filiale della banca Carige.

In Vico superiore di Santa Sabina rimane una malinconica edicola votiva vuota.

La semplice nicchia in stucco infatti è priva sia della statua della Vergine che del relativo cartiglio.

Il tempietto è incorniciato da volute a riccioli con quattro teste di cherubini alati.

In Copertina: Vico superiore di Santa Sabina. Foto di Alessandra Illiberi Anna Stella.

Il Provinciale racconta Genova

In data 13/11/2022 è andata in onda sulla Rai la puntata de “Il Provinciale” condotta dal genovese Federico Quaranta.

Forse proprio perché pensata da un genovese la trasmissione mi è piaciuta ed è riuscita nel suo intento di emozionare il telespettatore.

A differenza infatti dei precedenti tentativi di Alberto Angela e Corrado Augias che mi avevano abbastanza deluso, il Provinciale ha invece colto nel segno.

Al di là delle spettacolari immagini riprese con i droni e accompagnate dalle note di De André, la scelta vincente a mio parere è stata quella di partire dal filo conduttore della verticalità come strumento per decodificare l’essenza della Superba e l’animo dei suoi abitanti.

Raccontare Genova per conoscerla per davvero vuol dire necessariamente fare un viaggio nell’anima verso il Paradiso passando per il Purgatorio dei caruggi.

Quale miglior virgiliana guida può esserci dunque in quest’ardita impresa della poesia?

“Ecco Guardala qui, questa città, la mia: | È in riva al Tejo che io cerco Campetto, | Nel Bairro Alto ho trovato Castelletto, | O un Cable Car su in Vico Zaccaria: | Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto | A replicarne un po’ la psiche e il volto“. Versi di Edoardo Sanguineti.

Eccola allora la Genova verticale di funicolari e cremagliere, come descritta nei versi di Caproni in continua tensione fra il monte e il mare, tenuti ostinatamente insieme da quelle millenarie creuze de ma, le mulattiere di mare cantate da De André, memoria perenne di sacrificio, lavoro e fatica.

Quegli stessi sentieri di pietra che raccordati da scale infinite che in Montale diventano metafora di sofferenza e tenacia.

Senza questa presa di coscienza non si possono comprendere né il cinico pragmatismo né l’atavica diffidenza di un popolo che nei millenni, con la sua stessa fiera esistenza, ha sfidato il mondo.

Una città da vivere dunque, da respirare e da scoprire in continuo curioso cammino. Sempre con lo sguardo rivolto all’insù nel ventre più intimo dei suoi caruggi, o fisso all’orizzonte negli sconfinati panorami dei forti che, della regina del mare, sono corona.

Solo così si spiega una città mai doma, patria di comici, poeti, cantanti e navigatori si, ma anche di marinai, pescatori, contadini e mercanti.

Una Genova che nei suoi vicoli angusti, alla faccia della sua presunta inospitalità, da asilo agli ultimi, ai reietti, a tutta quella variegata umanità cantata da Faber e assistita da Don Gallo, scoprendosi invece solidale.

Una città dell’anima incastonata nella pietra fatta di panorami mozzafiato:

dai celeberrimi porticcioli e scogliere sul mare come Nervi o Boccadasse agli arcigni monti come il Beigua con il suo parco patrimonio UNESCO o il Monte Moro con i suoi orizzonti infiniti.

Da S. Ilario si scende al lungomare di Capolungo dove Mauro Pagani, leader della Pfm e collaboratore di De André, afferma: “Speriamo che l’amore per il bello ci travolga”…

Secondo me da sempre a Genova siamo travolti da una mareggiata continua di grande bellezza… ma a volte ce ne dimentichiamo!

“Ecco Guardala qui, questa città, la mia

Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto | A replicarne un po’ la psiche e il volto.

In Copertina: Panorama genovese. Foto di Anna Armenise.

Per vedere la puntata del Provinciale cliccate sul sottostante link:

https://www.raiplay.it/video/2022/11/Il-Provinciale-Genova-13112022-e8084dc5-326f-4501-b7ce-bced80eb954e.html

Frittelle di San Giuseppe

Il 19 marzo si celebra San Giuseppe festa per la quale, in piena quaresima, si permise di derogare al divieto di “peccare di gola”.

Vista l’importanza del santo si decise infatti, nonostante fossero vietati i cibi preparati con grassi animali, di fare un’eccezione per il patrono dei falegnami.

A San Gioxeppe, se ti peu, impi a poela de friscieu!

A san Giuseppe, se puoi, riempi la padella di frittelle!

Così ancora fino a fine ‘800 nel centro storico di Genova e nelle attigue delegazioni, questi artigiani preparavano, cotte nello strutto, le golose frittelle e le offrivano ai passanti: nacquero in questo modo i frisceu co’ zebìbbo (frittelle con l’uvetta)

A tale generosa offerta era però legato un simpatico scherzo. Nel mucchio delle frittelle infatti ne era presente una farcita con l’ovatta. Al malcapitato di turno che l’avesse trovata sarebbe toccato, tra gli sfottò dei presenti offrire da bere a tutti gli astanti.

Sòn lì in ta poela a frizze ‘sti friscêu, e
Sono lì in padella a friggere queste frittelle, e

gallezzan che pan tanti gossetti, e

   galleggiano che sembrano tanti piccoli gozzi,

e piggian ò sêu cô còmme se vêu,

   e prendono il loro colore come si vuole,
s’inscian còmme tanti pollastretti; e

   si gonfiano come tanti pollastrelli; e

ghe n’è de meì, d’ûghetta, de pignêu,

   ce ne sono di mele, d’uvetta, di pinoli e

d’erbe retaggiae còmme fremetti, e

   di erbe ritagliate come nastrini,

e a tutti quanti, zòveni e figgiêu,

   e a tutti, giovani e fanciulli,

ghe piaxan còmme fössan di öxelletti.

   piacciono come fossero degli uccelletti.

Se sòn ben brustulii e ben levae,

   se sono ben cotte e ben lievitate,

sòn sciocchi sciocchi e légi e appetitosi

   sono soffici soffici e leggeri e appetitosi

e in te quattro e quatt’êutto ve i sbaffae;

   e in quattro e quattr’otto ve li sbafate;

ma bezêugna che l’éuio ò segge bòn,

   ma bisogna che l’olio sia buono,

e se sòn cädi ciù ve pan gûstosi,

   e se sono calde vi sembrano più gustose,

còmme a fainâ, i bacilli e ò menestròn.

   come la farinata, i bacilli (legumi simili alle fave) e il minestrone.

                                            Filippo Angelo Castello (1867-1941)

Ricetta:

250 gr. di acqua 4 uova 75 gr. di burro 100 gr. di zucchero 800 gr. di farina una grattata di limone 250 gr. di latte 25 gr. di lievito di birra un cucchiaino di rum 150 gr. di uvetta 1/2 cucchiaino di sale cannella in polvere.

Foto e preparazione dell’autore.

Via del Portello

Entrando in via Garibaldi dal lato di Piazza Fontane Marose il primo vicolo che si incontra sulla destra è via del Portello.

L’elegante caruggio collega via Garibaldi con l’omonima piazza del Portello – appunto – così chiamata per via della presenza di una porta della cinta muraria del XII secolo.

Tale varco venne demolito nel 1855 insieme al vicino Conservatorio delle Interiane a seguito della nuova configurazione urbana che prevedeva significative modifiche alla viabilità.

In via del Portello al civ. n.2 di lato al celebre palazzo Lercari si trova uno dei templi dell’ars dolciaria genovese, ovvero l’antica Pasticceria Domenico Villa, dal 1968 di Profumo, fondata nel 1827.

“L’irresistibile assortimento della pasticceria D. Villa, oggi Profumo, in Via del Portello”. Foto di Leti Gagge.

Oltre che per l’indiscussa qualità dei prodotti offerti il locale merita una visita per ammirarne gli arredi e il pavimento marmoreo ancora originali della seconda metà del XIX secolo.

Un’esperienza a tutto tondo che coinvolge oltre che il gusto e la vista, l’olfatto inebriato dai – è il caso di dirlo – profumi provenienti dal caruggio.

In Copertina: Via del Portello. Foto di Stefano Eloggi.

Vico delle Fasciuole

Il vico delle Fasciuole collega la zona di San Siro con vico Droghieri nel cuore del sestiere della Maddalena.

Curiosa l’origine del toponimo che, a testimonianza della primitiva vocazione agreste della contrada, rimanda al termine fasce con il quale si indicano in Liguria gli appezzamenti di terreno a terrazza.

Il poco noto caruggio si distingue per il prezioso portale del civ. n. 14.

Si tratta del cinquecentesco sovrapporta in pietra nera che adorna il palazzo di Domenico Pallavicino come testimoniato da un’epigrafe ormai illeggibile posta sotto il poggiolo di sinistra dalla quale emergono i nomi di Dominici Pallavicini e Josephi Berbardini.

Sulle colonne medaglioni imperiali, sulla trabeazione motivi floreali, quattro piccoli draghi, due coppe con corona ai lati di uno scudo, impreziosiscono il portale.

In Copertina: Vico delle Fasciuole. Foto di Giovanni Cogorno.

La trippa alla genovese

Diffusa da nord a sud la trippa è un piatto povero comune un po’ a tutte le regioni d’Italia: basti pensare, solo per citare le prime che vengono in mente, alle trippe in brodo del Veneto, alla Busécca dell’Emilia e della Lombardia, alla versione romana o napoletana di Lazio e Campania, al morzeddhu calabrese, o al celeberrimo Lampredotto della Toscana.

A Genova sono sette i tagli tradizionali della trippa. Cinque si ricavano dall’apparato digerente vero e proprio: cordone o redaggiun (rumine), cuffia (reticolo), centopelle (omaso), gruppu (abomaso) e gola (è l’esofago). Due, invece, sono a questo adiacenti, castagnetta (vagina) e riccetto (tube di Falloppio).

Si tratta di frattaglie, ricavate dal quinto, quarto, ovvero il taglio meno nobile, ma non per questo meno gustoso, del bovino.

Trippa in insalata con olio, limone e pepe. Foto e preparazione di Cristina Campus.

La trippa, la cui tipologia più diffusa e apprezzata è senza dubbio la centopelle, occupa dunque un posto di rilievo nella tradizione popolare nostrana.

La sua presenza sulle nostre tavole è persino certificata almeno dal 1479 quando la sbira, il brodo che se ne ricavava, costituiva l’ultimo pasto destinato ai condannati a morte.

Dentro quello stesso brodo sapido e nutriente i camalli e i manovali in genere vi inzuppavano micche di pane o slerfe di focaccia a colazione.

Un tempo non v’era quartiere, caruggio o mercato rionale in cui non fossero presenti le tripperie.

Nei miei ricordi di bambino nei primi anni ’80 del secolo scorso, addirittura l’intera ala lato via Colombo del Mercato Orientale era a loro dedicata.

Un odore forte, inconfondibile, per taluni stomachevole, emanava da quei corridoi, foriero di sapori decisi e pietanze veraci.

Oggi purtroppo questi negozi sono scomparsi sopraffatti dalla globalizzazione e sconfitti dalla scarsa domanda in un’epoca, la nostra, che corre veloce verso il pronto, presto e veloce. I tempi di cottura prolungati, il mutare dei gusti e l’attenzione agli aspetti salutistici indirizzano adesso il consumatore verso altre scelte.

Cappa, piastrelle, pavimento e paioli della cucina dell’antica tripperia la Casana dal 1890”. Foto di Leti Gagge.

Eppure la trippa ha un alto contenuto di proteine e ferro, ma pochi grassi, non contiene glucidi e fibre, ma molte vitamine del gruppo B. Insomma, nonostante la cattiva reputazione va benissimo anche per chi ha problemi di colesterolo e non fa, se non si esagera nel condimento, ingrassare.

Pian piano così nei banconi delle macellerie le trippe da protagoniste indiscusse sono state relegate al ruolo di comparse.

Quasi tutti i supermercati ne offrono una versione precotta, certo più comoda e pratica da cucinare ma, per renderla più gradevole alla vista, sbiancata con acqua ossigenata.

Prima di elaborarla è bene quindi lavarla con cura onde evitare quel fastidioso retrogusto chimico tipo ammoniaca che rischia di comprometterne il sapore.

Restano eroico presidio l’antica Tripperia la Casana nell’omonimo vicolo sotto Piazza De Ferrari, Tripperia Mario in via Torti e pochi altri avamposti, coraggiosi custodi della tradizione.

Anch’essi, per sopravvivere, si sono comunque adeguati al mercato e la propongono già cucinata e pronta al consumo da asporto.

La trippa si condisce in insalata con olio limone e pepe e qualora ne avanzasse si può anche consumare fritta all’indomani.

Tuttavia la preparazione più diffusa è quella in umido alla “genovese” accomodata con patate e fagiolane, sia con pomodoro che senza, profumata di pepe nero e spolverata di abbondante parmigiano.

Ricetta tratta da La cuciniera genovese, con sottotitolo La Vera Maniera di cucinare alla genovese, di G.B Ratto del 1863”. L’immagine della foto è ovviamente una recente ristampa.

Al fine di gustarla al meglio è consigliabile munirsi di una generosa porzione di pane da intingere nell’irresistibile sugo.

Nell’antica Cucineria del Ratto viene proposta nella versione “trippa all’antica”, accomodata con pinoli e funghi secchi.

La trippa non conosce compromessi o si apprezza o si detesta, non ci sono mezze misure.

Se Giuseppe Verdi è risaputo, ne era ghiotto, Friedrich Nietzsche non è stato certo da meno:

“La cucina genovese è fatta per me. Lo credereste che da 5 mesi ormai ho mangiato trippa quasi ogni giorno? Tra tutte le carni è la più digeribile e la più leggera, e costa meno; mi fa bene anche ogni genere di pescetti, che trovo nei locali popolari. Ma niente risotto e niente maccheroni finora!”

Cit. Friedrich Nietsche (1844-1900) filosofo tedesco.

Piazzetta Tavarone

Nelle adiacenze di Piazza San Matteo si trova piazzetta Tavarone.

Qui si può notare il retro di un palazzo accorpato alla proprietà di palazzo Lamba Doria.

Sono ancora visibili brani di affreschi che decoravano i prospetti dell’edificio su tutti i lati (affacciati anche su vico Isola e vico San Matteo).

La graziosa piazzetta deve il suo nome alla famiglia di artisti il cui più celebre esponente fu quel Lazzaro che, discepolo di Luca Cambiaso, decorò l’Escorial di Madrid e diversi nobili palazzi genovesi.

Fra i tanti capolavori del maestro i due più noti e cari ai suoi concittadini sono “L’ultima Cena” collocata nella cattedrale di San Lorenzo e l’inconfondibile San Giorgio che uccide il drago che decora il prospetto a mare dell’omonimo palazzo.

In Copertina: Piazzetta Tavarone. Foto di Antonio Corrado.

Chiamatela Panélla…

La castagna ha rappresentato per secoli la principale fonte di sostentamento dei Liguri dell’entroterra.

I boschi del nostro Appennino ne sono infatti, nelle annate buone, generosi dispensatori.

Ed è così che le castagne oltre ad essere consumate in ogni modo, accompagnate al miele, bollite (balletti), cotte nel latte, arrostite (rostie) sulla stufa o essiccate all’aria, in marmellata, trasformate in farina costituiscono la componente per eccellenza delle paste “avvantaggiate” quando il grano era un lusso ad appannaggio di pochi ed andava oculatamente dosato.

Ma la preparazione più diffusa e gustosa rimane quella del, come lo chiamano in Toscana, castagnaccio, di cui una primitiva ricetta fu già annotata nel ‘500 da un padre agostianiano.

Secondo quanto tramandato nel Commentario delle più notabili et mostruose cose d’Italia e di altri luoghi, di Ortensio Landi (Venetia, 1553) pare che l’inventore del castagnaccio sia stato un lucchese tale “Pilade da Lucca”, che fu “il primo che facesse castagnazzi e di questo ne riportò loda”.
Nel 1644 anche l’esperto culinario, il marchese Vincenzo Tanara nel suo “L’Economa del cittadino in villa “, si dilungò nel disquisire dei “castagnazzi”.

Descrivendone varianti oggi impensabili, che prevedevano l’aggiunta di grana grattugiato o di cacio grasso e tenero, l’agronomo bolognese testimonia come il castagnaccio fosse inizialmente una vivanda più che dolce, salata.

La panella pronta per essere infornata. Foto e preparazione dell’autore.

Il composto cosi ottenuto dalla miscelazione di acqua (in alcune ricette latte), olio di oliva e farina di castagne fu arricchito nel ‘800 da pinoli e uvetta con lo zucchero in sostituzione del miele.

Si cucina, oltre che in Toscana, anche in Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia, Umbria, Lazio e nel sud, in Campania.

A seconda della regione mutano i nomi, alcuni ingredienti e relativi dosaggi ma la sostanza del piatto non cambia.

Fette di castagnaccio. Foto dell’autore.

In Liguria il castagnaccio si chiama Panélla (a Genova anche torta castagnina o castagnàsso) come la preparazione delle frittelle di ceci siciliane con la quale non va però confusa.

Il castagnaccio ligure – la panélla appunto -differisce dalla versione toscana per l’utilizzo di semi di finocchio e per l’aggiunta di scorza di mandarino o limone.

Comune a tutte le interpretazioni invece è la presenza degli aghi di rosmarino interi o tritati che, secondo la tradizione popolare, fungerebbero da vera e propria pozione amorosa.

Offerto all’uomo o alla donna di cui si è invaghiti si avrebbe dunque la certezza di essere ricambiati.

In Copertina: Panella. Il Campanile delle Vigne vigila sul castagnaccio ligure. Foto dell’autore.