Già da tempo ormai Genova aveva mutato la sua vocazione marittima dal periodo in cui era detta la Dominante, a quella finanziaria della Superba ma la sua primaria caratteristica era rimasta ancora intatta:
“… l’abilità nautica di Genova è tenuta in tale reputazione e stima in tutto il mondo che i Genovesi sono detti signori del mare”.
Questo il commento nel 1502 nelle “Cronache del Regno di Luigi Xll” di Jean d’Auton, annalista, religioso e scrittore, al seguito del Re in visita a Genova.
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…. Quando ancora non c’era la Scalinata del Milite…
del Milite Ignoto (attuali Caravelle)… e nemmeno l’austero edificio del Liceo classico Andrea D’Oria… quando l’enorme Piazza antistante non si chiamava già più Piazza delle Armi e non ancora della Vittoria, bensì di Francia… quando,
quando nel breve tragitto tra la Stazione di partenza (più o meno all’altezza dell’attuale Palazzo INPS) e quella delle Mura del Prato di arrivo (bastione dietro il Doria, davanti al Galliera) si viveva un’esperienza mozzafiato… come in Italia e in gran parte del mondo, non si era mai visto…
Storia di una Croce, di una Bandiera…
di un re, di un viaggio… di un Vessillo, il VESSILLO.
Erano così ben integrati e accetti nel tessuto sociale cittadino che, quando portavano in processione lo stendardo del loro Santo (S. Giorgio) nell’omonima chiesa, a loro si univa spontaneamente la popolazione.
Venerati quindi, da tempi remoti, S. Giorgio e la sua croce, il cui utilizzo è già attestato dal 1096 divennero, dopo le imprese dell’Embriaco nel 1099 simbolo ufficiale della nascente Repubblica.
Nel 1190 Riccardo Cuor di Leone, sovrano d’Inghilterra, chiese ai genovesi navi, marinai, ammiragli e scorte per trasportare il suo esercito a Gerusalemme.
Durante la traversata si accorse che musulmani, turchi, spagnoli, francesi e catalani se ne stavano ben alla larga.
Incuriosito ne chiese il motivo all’ammiraglio Lercari comandante della spedizione, il quale probabilmente dette una risposta simile a questa: “Vede Vostra Maestà, indicando la Croce di S. Giorgio, tutti sanno che chi osa attaccar battaglia contro un legno difeso da questa insegna, incorrerà in morte certa” (il corpo dei Balestrieri, di cui erano dotate le galee genovesi, incuteva infatti rispetto e terrore in tutti i mari).
Il re chiese allora, versando un canone annuale, di poter battere nel Mediterraneo e nel Mar Nero la bandiera genovese, in modo che nessuno osasse attaccar briga.
Dopo un paio di secoli, a seguito dei buoni rapporti instauratisi, i genovesi regalarono agli inglesi l’uso della bandiera che, ancora oggi è simbolo dell’Inghilterra, di Londra e della Marina Militare britannica.
Questa è la versione tramandata dalla successiva storiografia cinquecentesca (Annali del 1537 del Giustiniani) a scopi propagandistici alla quale si affianca un’altra curiosa aneddotica storiella.
Tale leggenda narra che agli inglesi, i genovesi abbiano venduto anche le spoglie del Santo (un Moro imbalsamato vestito da crociato) e addirittura il drago (un gigantesco coccodrillo del Nilo, animale che in Europa pochi conoscevano, anch’esso imbalsamato).
Storie suggestive e affascinanti ma purtroppo non dimostrabili.
Spesso il confine tra storia e leggenda è labile ma, in questo caso, è facilmente tracciabile. Ad oggi infatti, non esiste alcuna prova che attesti l’esistenza di questo -è il caso di dirlo- sbandierato canone.
Non solo: è inoltre appurato che gli inglesi, come testimoniato dal celebre arazzo di Bayeux (1070/1080) che rappresenta la battaglia di Hastings del 1066 e dalla cronaca della spedizione di conquista di Guglielmo di Poitiers (“Gesta Guillelmi”), usassero ben prima del 1090 la bandiera con croce rossa in campo bianco denominata a quel tempo di San Pietro e solo successivamente di San Giorgio.
È importante infatti precisare che fino al 1242 coesistevano sia la bandiera del Comune (Croce rossa in campo bianco) di San Giorgio, primitivo vessillo di San Pietro, che il vessillo, citato per la prima volta nel 1198, (gonfalone del santo a cavallo che uccide il drago).
Anzi, fino a tale data, il vessillo di San Giorgio era identificato esclusivamente con il gonfalone mentre lo stendardo rosso crociato era associato solo al Comune.
L’associazione del Vessillo di San Giorgio alla rappresentazione della bandiera è quindi posteriore al 1242.
Come detto in altre occasioni, il Vessillo di S. Giorgio inteso come gonfalone veniva dunque consegnato, dopo solenne processione e cerimonia al capitano della Galea ammiraglia (per poter issare la bandiera dovevano salpare minimo cinque navi in assetto da guerra con a bordo almeno venti balestrieri) al grido di battaglia: “PE ZENA E PE SAN ZORZO”(del quale non vi sono tracce scritte ma che viene tramandato oralmente da secoli), con l’impegno di onorarlo in battaglia e di riportarlo a casa, a qualunque costo.
In Copertina: il Gonfalone di San Giorgio.
Storia di un Grifone…
Nel mondo cristiano rappresentava Cristo trionfante sui demoni; metà aquila, metà leone, con orecchie da cavallo il Grifone incarnava la potenza in cielo e la forza in terra.
Storia di una corona, di due Grifoni…
di un Principe, di una Regina, di una croce invincibile e di un rostro…
3) I Grifoni, adottati nel 1248 allorché i nostri avi sconfissero l’arroganza imperiale tedesca e la spavalderia pisana, significano orgoglio coraggio e libertà.
4) La Croce di S. Giorgio a perenne ricordo della conquista di Gerusalemme e relativa liberazione del Santo Sepolcro ad opera dei crociati guidati dal Guglielmo Embriaco.
Storia di un Diavolo…
L’Abate infatti, sempliciotto di modi e favella, cominciò improvvisamente a parlar forbito e a comportarsi in maniera anomala.
Fu stabilito, dopo un breve soggiorno all’ospedale dei pazzi, che fosse trasferito nella sua dimora di campagna nei pressi di Murta, nella speranza che il cambiamento d’aria gli fosse di giovamento.
Il religioso, per tutta risposta, cominciò a parlare in tedesco, francese, greco ed ebraico e ad occuparsi con arguzia,di argomenti politici, religiosi e filosofici.
Sentendo “odor di zolfo” la Curia ritenne opportuno inviare due esperti esorcisti ai quali il Maligno si dichiarò con il nome di Asmodeo.
Il diavolo resistette mesi alle sedute dei sacerdoti prendendosi gioco di loro e, addirittura, mettendoli in grave imbarazzo, svelando alcune loro passate malefatte.
Il Diavolo, forte dei suoi successi, fece una profezia, in perfetto latino, secondo la quale affermava che avrebbe ceduto solo “il giorno che non ha notte” e, sempre più sicuro di se, che si sarebbe arreso solo al “custode delle capre”.
Uno dei presenti si ricordò allora che, nel poco distante Monastero della Chiappetta, abitava un frate savonese, tal padre Becco (becco significa “custode delle capre”).
Asmodeo fu condotto nella chiesa del frate e, dopo una lunga lotta, dovette arrendersi e abbandonare il corpo dello stremato Maggiolo.
Era l’8 settembre 1779, il giorno consacrato alla natività di Maria;
il giorno “quae noctem non habet”, che non conosce la tenebra…
Svelato… il diabolico enigma!
Storia dell’Ospitale dei Crociati
di cavalieri… di due Chiese… e di una leggenda.
Già prima dell’anno mille esisteva una Chiesa detta del S. Sepolcro che ospitava i pellegrini di partenza o di ritorno dalla Terra Santa.
Qui nel 1099 Guglielmo Embriaco consegnò alle autorità, fra il tripudio generale prima di trasferirle in Cattedrale, le ceneri del Battista.
Nel 1180 i cavalieri di S. Giovanni decisero di costruire due chiese, una sopra l’altra, con relativo Ospitale in modo che i malati potessero assistere alla Messa dal loro letto.
La Chiesa Superiore è tutta in pietra nera di Promontorio e ti avvolge in un’atmosfera magica (una delle poche tutta in pietra nera proveniente dalla cava di S. Benigno), quella Inferiore poi, nella sua essenzialità è strepitosa; in particolare la Cappella di S. Margherita dove i Crociati ricevevano la benedizione emana un fascino fiabesco.
Lasciati rapire dall’irreale silenzio e, se porgi l’orecchio, ti pare di sentire ancora lo sferragliare delle spade e delle armature.
La leggenda poi narra la vicenda del miracolo di S. Ugo, al secolo Ugo Canefri, Priore di San Giovanni, uomo pio e valente guerriero che, intenerito dalle lamentele delle donne che, per lavare i panni dovevano percorrere troppa strada per raggiungere i lavelli, con la preghiera fece scaturire una sorgente d’acqua sul posto.
“A Cimma”…
Così comincia la canzone di Fabrizio De André dedicata a questo tipico piatto genovese:
Traduzione: “Ti sveglierai sull’indaco del mattino quando la luce ha un piede in terra e l’altro in mare ti guarderai allo specchio di un tegamino il cielo si guarderà allo specchio della rugiada metterai la scopa dritta in un angolo che se dalla cappa scivola in cucina la strega a forza di contare le paglie che ci sono la cima è già piena e già cucita…
Una pancia di vitello che cucirai (come si faceva per i materassi) .
Attenzione la sacca non deve avere venature o tagli, dopo cucita riempila d’acqua e vedi che non ci siano perdite è importantissimo. Se la pancia di vitello è integra e le cuciture valide, il problema non esiste, mi raccomando è meglio un uovo in meno che uno in più.
La pancia di vitello che cucirai (come si faceva per i materassi) lasciando un’apertura di dieci cm. dev’essere un rettangolo all’incirca di 26 x 18cm (per 5/6 uova) a volte i macellai la cuciono loro.
Preparazione: tagliare la carne a pezzetti e farla rosolare nel burro.
In una terrina mettere le uova, sbatterle (non troppo) aggiungere: la carne, la cervella ridotta a pezzetti, il formaggio grana, i pinoli, la carota a pezzetti, la lattuga, i piselli, la maggiorana (la pèrsa lègia) e l’aglio, il sale il pepe, amalgamare il tutto (se sei solito farlo assaggia).
Importante riempire la cima sino a tre quarti non di più, anzi qualcosa in meno, sennò scoppia.
Cucire la parte aperta, lavarla sotto il rubinetto e metterla in un piatto.
Mettere la cima a cuocere in una pentola (molto capiente) con acqua e sapori, (carota, sedano, cipolla) a freddo, ogni tanto girarla, appena prende il bollore spegnere e lasciare riposare cinque minuti poi riaccendere e falla cuocere a fuoco lento, (dev’esserci sempre il bollore) per almeno un’ora e mezzo o due, controllala spesso e girala, attenzione a non romperla, se vedessi che esce dalle cuciture del ripieno, niente panico, toglila dall’acqua prendi un canovaccio avvolgila e legala, poi la rimetti a cuocere.
Quando è cotta dopo almeno un’ora e tre quarti la punzecchi con un ago.
La togli dall’acqua con cautela, (vedrai sarà un pallone oblungo) la adagi su di un tagliere sul lavandino metti sopra un altro tagliere o un piatto piano (meglio un tagliere) e sopra metti dei pesi.
Io metto una pentola con acqua, oppure una pentola con dentro un mortaio di marmo, la cima si deve compattare, dentro non deve esserci più aria in modo da poterla tagliare a fette senza che si sbricioli), devi “caricare” la cima in modo che si riduca di molto e praticamente butti fuori i liquidi (pochi) e si appiattisca, per poterla poi tagliare.
Falla il giorno prima, magari alla mattina, la lasci in carico due o tre ore, il tempo necessario, poi la avvolgi in un tovagliolo bianco bagnato e strizzato e la riponi in frigo.
Ecco fatto la cima è pronta da gustare. Spero di esser stata chiara, questo è il metodo che faccio io e che fa mia madre e poi mia nonna.
Se la fai così per filo e per segno, vedrai che ti verrà bene…
Ricetta e procedimenti di un’anziana cuoca genovese che non c’è più.
Curiosità in tavola
"A Cimma"...
"A me le torte di Zena"...
"Cacao Meravigliao..."
"Intu mezu du ma... gh'è 'n pesciu tundu..."
"Mangi la sbira... e poi muori"...
"Quattro amici al bar"...
"Se piace al Padrino..."
"U vin giancu de Cônâ"...
"Voglia di gelato"...
A fugàssa
Chiamatela Panélla...
Ciupin
Coniglio alla ligure
Focaccette e focaccia di patate
Frittelle di San Giuseppe
Fritto Misto alla Genovese
Fru fru
Gli Sgabei
I Barbagiuai
I Biscotti del Lagaccio...
I Cavulin
I Corzetti...
I Gattafin
I Muscoli
I Natalin
I Panigacci
I Pesci saê
Il Bagnùn de Ancioe
Il Canestrello prezioso quanto una moneta
Il carciofo di Napoleone
Il mio nome è Magro... Cappon Magro...
Il pesce alla ligure
Il Pesto di Pentema l'antenato di quello genovese
L'Asinello l'aperitivo corochinato.
La frittata di Rossetti
La Genovese partenopea
La leggenda della pizza di Andrea...
La Mostardella
La Pànera il semifreddo dei genovesi
La Prescinsêua...
La trippa alla genovese
Le acciughe...
Le Genovesi di Erice
Le lattughe ripiene
Le Sciamadde
Le Tomaxelle
Lo Sciachetrà...
Mandilli de saea...
O Baxeichito
O Læte doçe. (Il Latte dolce).
Per Buglione e per i pansoti...
Quaresimali e Cavagnetti
Röba pinn-a
Storia del "rovigliolo" (raviolo)...
Storia del pandolce...
Storia della "Gattafura" (la torta pasqualina) ...
Storia della focaccia recchelina...
Storia di un assedio...
Storia di un monopolio...
Storia di una piantina regale...
Storia di una tempesta, di un naufragio...
Tortino di acciughe alla maniera di Vernazza
U Tuccu
Storia dei Guardiani della Città…
La prima raffigura Guglielmo Embriaco, il conquistatore di Gerusalemme, con una grande Croce di S. Giorgio sul petto e la spada avvolta nell’alloro.
Ai piedi è posto un elmo saraceno a ricordare le sue imprese in Terrasanta.
La seconda rappresenta invece un anziano Andrea D’Oria, l’ammiraglio padre della Patria, nell’atto di lisciarsi pensieroso la barba, con un mano, e pronto a brandire la spada, con l’altra.
Fra le gambe un delfino a simboleggiare il suo rapporto privilegiato con il mare.
A me piace pensare che ci proteggano…