Incastonata sulla parete esterna di sinistra della Cattedrale di S. Lorenzo compare una misteriosa scacchiera.
Questa appartenne a Megollo Lercari che nel 1314, ospite a Trebisonda del Re Alessio II, venne durante una partita a scacchi, da un suo cortigiano insolentito, un tal Andronico.
Megollo diede scacco matto al suo avversario e, come già narrato in apposito post, mise in atto la sua terribile e feroce vendetta:
“Sappi tu e sappiano i Greci tutti che chi offende un genovese deve attendere inesorabile il castigo.
Noi genovesi siamo tutti della stessa tempra, per cui se io fossi morto o preso prima che la mia vendetta fosse compiuta, altri genovesi sarebbero giunti a portarla a termine”.
La scacchiera ricorda lo scacco matto della vendetta lavata con il sangue dal valoroso genovese.
Non tutti però concordano con questa versione. Almeno altre due sono le ipotesi accreditate dagli studiosi: la prima legata e correlata ad altre simbologie presenti in Cattedrale, rimanda ai cavalieri Templari dei quali la scacchiera sarebbe una esoterica testimonianza. La seconda, riferita dal Caffaro nei suoi Annali, racconta di una disputa, nel XII sec. al tempo della nascente rivalità fra Genova Pisa, risolta fra le due contendenti con una partita a scacchi vinta dai genovesi. In ricordo di quella vittoria la scacchiera sarebbe stata così murata in S. Lorenzo.
Nel ‘500, al tempo di Carlo V, A. Doria fece una scelta strategica che avrebbe segnato in positivo le sorti della città.
Optando infatti per l’alleanza con la Spagna ai danni della Francia contribuì al secolo di maggior splendore economico della Superba.
Non solo A. Doria venne nominato Ammiraglio Capo di tutto l’Impero e, più tardi di tutte le forze cristiane, ma anche le maestranze genovesi ottennero numerose e lucrose commesse per l’armamento della flotta spagnola.
Da un lato i genovesi, in particolare gli Spinola, i Doria e i Centurione finanziarono con ingenti prestiti le attività militari dell’Impero, dall’altra ottennero di occuparsi in esclusiva di tutte le attività marittime ai danni degli Aragonesi, i più importanti esperti di mare iberici.
Tanta era l’opulenza della Superba che venne coniato il famoso adagio “L’oro nasce in America, cresce in Spagna e muore a Genova”.
Proprio in quel periodo cominciò a circolare in città una moneta spagnola il Blanco che, per storpiatura onomatopeica planco, palanco, si cristallizzò infine in “palanca” dando così origine al modo, ancor oggi in uso, di indicare i soldi tanto caro a noi zeneizi.
Il 7 ottobre 1571 si scontrano presso Lepanto, nel mar greco, le flotte navali più importanti dell’epoca.
In gioco non c’è solo la supremazia marittima, ma molto di più, la sussistenza stessa dell’Occidente cristiano minacciato dall’Impero ottomano musulmano di Selim II.
A rappresentare l’Occidente si costituisce la Lega Santa a cui aderiscono Venezia, lo Stato Pontificio, l’Impero spagnolo Regno di Napoli e Sicilia compresi, i Ducati di Savoia e Urbino, i Cavalieri di Malta, il Granducato di Toscana e, naturalmente Genova.
Il comando supremo è affidato a Giovanni d’Austria reale di Spagna, al suo fianco lo seguono al centro, il Colonna ammiraglio pontificio, il Venier veneziano, il Giustiniani per i Cavalieri di Malta e lo Spinola per i genovesi.
Di fronte, al centro, le galee del Sultano Ali Pascià, comandante generale della Sublime Porta.
A destra, alla flotta comandata dell’ammiraglio turco Shoraq, i cristiani oppongono quella guidata dal veneziano Barbarigo.
Infine, ma non ultimo, sul fronte sinistro si scontrano quelle guidate da Uluc Alì da una parte e Gianandrea Doria, pronipote di Andrea, dall’altra.
È qui che si decide lo scontro le 53 galee del genovese affrontano le 90 del turco e con manovra di allargamento per evitarne l’accerchiamento, contribuiscono a rompere l’equilibrio e a decidere l’esito finale.
In tutto 204 galee e 84000 uomini (fra marinai, soldati e rematori) della Lega Santa contro 216 imbarcazioni e 88000 infedeli della Sublime Porta.
Ad onor del vero, per giustificare la cocente sconfitta turca, ne va riconosciuta l’inferiorità sotto l’aspetto armamentale (artiglieria con potenza di fuoco di gran lunga minore).
Se pare azzardato sostenere che a seguito di questa battaglia non siamo diventati seguaci del Profeta perché, di fatto, l’episodio non ha spostato gli equilibri militari e politici del conflitto, quanto meno è possibile affermare che abbia avuto una significativa valenza simbolica nel comune sentire occidentale.
I vessilli della Capitana di Alì Pascià, bottino di guerra dei toscani, sono esposti nella chiesa di S. Stefano a Pisa.
Quello di Ulic Alì conquistato dal Doria è custodito presso la Villa del Principe a Genova.
Anche gli stendardi conservati nella Cappella dei Ragusani in Santa Maria di Castello, secondo la tradizione, avrebbero la medesima provenienza e sarebbero le famigerate bandiere strappate dai genovesi ai turchi. In realtà di quella di sinistra, senza alcuna insegna, non si sa niente. Di documentato e accertato non vi è nulla. Potrebbe si provenire da Lepanto ma gli studiosi hanno molti dubbi in merito. Di quella di destra, con le mezze lune e le scimitarre bifide, si è invece sicuri che abbia un’altra origine. A seguito infatti di una recente perizia sui tessuti, sarebbe stata datata a cavallo tra ‘500 e ‘600 e, quindi, di epoca di qualche decennio posteriore agli eventi. In ogni caso, non per questo, sono meno significative.
Si tratta comunque di stendardi ottomani autentici conquistati in qualche successiva battaglia.
Trofei gelosamente conservati a gloria perenne.
Orgoglio genovese!
In Copertina: la teca contenente i vessilli ottomani. Foto di Leti Gagge.
di tesori millenari… di un piatto… un catino… una croce… un’arca… anzi due…
Nella cripta della Cattedrale sono raccolti, per volontà del Cardinale Siri e sotto la regia del Prof. Albini una cinquantina di pezzi dal valore storico artistico inestimabile:
Il Sacro Catino, bottino di guerra della prima Crociata dell’Embriaco preso a Cesarea sulla via del ritorno da Gerusalemme, per secoli ritenuto il Sacro Graal fino a quando, in epoca napoleonica i francesi nel trasporto verso il Louvre, lo ruppero.
Nel tentativo di ripararlo i gemmologi si accorsero che, per quanto antico nono sec. d.C., non poteva aver avuto a che fare con l’Ultima Cena.
Il Piatto in Calcedonio anch’esso antichissimo che la tradizione vuole abbia accolto la testa decapitata di San Giovanni Battista e che venne donato al Capitolo di S. Lorenzo da Papa Innocenzo VIII.
La Croce degli Zaccaria, così chiamata per essere stata donata dall’Imperatore orientale greco ai membri della famiglia Zaccaria, come ringraziamento per aver difeso con onore l’Impero dai Turchi.
Gioiello tra i più preziosi di fattura bizantina, laminato d’oro con rubini, smeraldi e diamanti, reliquiario di schegge della Croce, usato nei secoli successivi per benedire il Doge, durante la cerimonia di insediamento.
Rilevanti anche le Arche Processionali fra le quali meritano menzione, quella detta del Barbarossa perché donata dall’imperatore stesso nel 1178 contenente le ceneri del Battista, quella quattrocentesca portata in processione, capolavoro di alta oreficeria tardo gotica e quella tutta d’argento del 1553, opera del De Rocchi in collaborazione con maestranze venete e fiamminghe, del Corpus Domini.
Vi sono custoditi anche preziosi reliquiari a cassetta di pregevolissima fattura come quello bizantino del XII secolo di S. Anna, quello lombardo del XIV di S. Giacomo ed uno, strepitoso, secentesco di scuola fiorentina.
Di notevole interesse la statua dell’Immacolata Concezione opera dello Schiaffino e quella, con relativo ossario di San Lorenzo, del 1828.
Ma le sorprese non finiscono qui, infatti è possibile ammirare anche la bolla con cui il Papa Gelasio II consacrò S. Lorenzo a Cattedrale e i paramenti sacri da questi indossati durante la cerimonia del tempo.
Il toponimo trae origine dalla famiglia Finamore che aveva parecchie proprietà nel vicolo. Un’altra teoria sostiene invece che il nome derivi dalla posa estatica della Madonna di un’edicola votiva, oggi scomparsa, che un tempo adornava il caruggio. Ma la versione più fascinosa e romantica, anche se priva di fondamento storico, visto l’improbabile scenario logistico, è invece quella che narra del leggendario “intendio”, l’amor platonico fra la nobildonna genovese, Tommasina Spinola e il re di Francia Luigi XII.
Difficile infatti immaginare nella realtà una frequentazione di tali popolari contrade per personaggi di quel lignaggio. Il re sotto mentite spoglie più volte passò, durante i suoi soggiorni genovesi, in quel vicolo per vedere la sua amata. Tommasina, fedelissima moglie, morì di crepacuore nel 1505 a causa di questo casto, profondissimo e impossibile amore, dopo aver appreso la falsa notizia della morte del sovrano. Il re, tornato da nemico a Genova e appresa la triste novella, volle recarsi ancora una volta sotto le finestre dell’amata e lì avrebbe pronunziato la celebre frase “Avrebbe potuto essere l’amor perfetto”.
Il pittore Ludovico Brea inserì il ritratto della poveretta (ritenuta una delle più belle donne del suo tempo) nel suo celebre capolavoro, intitolato il “Paradiso”, conservato ancor oggi nel museo di S. Maria in Castello.
Anticamente percorrendo l’attuale Via Luccoli (dal latino “luculus” bosco sacro) si raggiungeva il tempio intitolato agli dei pagani Acca (luna) e Solis ( sole).
Da qui il nome Acquasola.
A metà del ‘500, munito dall’omonima porta, in seguito al potenziamento della cinta muraria voluta dall’Amm. Andrea Doria, il luogo venne utilizzato per raccogliere i detriti derivati dalla costruzione della Strada Nuova (attuale Via Garibaldi) e, per questo, chiamato “i Muggi”.
In seguito, l’area compresa fra Piazza Corvetto e i bastioni cinquecenteschi, venne utilizzata come parco pubblico fino al 1657, anno di una terribile peste, quando fu convertito in cimitero.
Le catacombe sono ancora presenti più o meno nel tratto compreso fra i laghetti dei cigni (che pare verranno ripristinati) e il complesso di S. Stefano.
Opportunamente abbellito e ampliato, sul finire del ‘700, diventa meta della noblesse ospite in città….
Fra gli altri Gustav Re di Svezia, il Principe di Condè, l’Imperatore d’Austria, i reali britannici e gli Arciduchi milanesi.
Nell’800 il Parco raggiunse il massimo splendore al punto di conquistarsi il nome di un Viale di Mosca.
Nella speranza che, dopo la recente inaugurazione, ritrovi se non gli antichi fasti, almeno il perduto decoro degli anni ’70, quando era meta domenicale delle famiglie…
Il mare regna sovrano nella nostra storia ma, a sorpresa, come l’onda si ritira quando si parla di fiabe.
Ebbene si, a farla da padrone sono i racconti legati alla terra, forse perché tramandati dalle mogli che aspettavano il rientro dei loro mariti e dettati dai tempi dei lavori manuali ed agricoli.
Forse perché i marinai, sparsi in chissà quale oceano e indaffarati in commerci o impegnati in battaglia, non avevano tempo per perdersi in chiacchiere, intenti com’erano a salvare la “pellaccia”.
Genova e la Liguria non hanno una grande tradizione in materia e di secoli di racconti narrati intorno al focolare è rimasto ben poco.
Per fortuna, sul finire dell’800, il “foresto” James Bruyn Andrews si è “preso la briga e di certo il gusto di tramandare ai posteri il racconto giusto” raccogliendo nel suo “Contes ligures” il patrimonio nostrano.
Racconti di streghe, balli e processioni di morti, lupi mannari, sabba diabolici e stregonerie varie.
Una delle più diffuse è la foa delle “troe belle cetronnelle”, variante di quella nota, in altre regioni come ” delle tre melarance”;
In questa favola l’incantesimo al protagonista è svelato da due stregoni rappresentati da Venti Violenti (ne esistono comunque numerose varianti).
La tecnica utilizzata è quella della vivace e sintetica narrazione, basata sulla ripetitività e sulla progressione (grande, più grande, enorme, gigantesco).
Singolare, in alcuni racconti, più che mai espressione del nostro territorio, l’ossessivo susseguirsi di scale sempre più ripide e strette, proprio come gli angusti spazi dei secolari caruggi… Parsimoniosi non solo nelle palanche ma anche nelle parole!
Molti conoscono le gesta del Perasso, il celebre Balilla, pochi l’impresa portata a termine da un altro giovanotto dal cuore impavido, Giovanni Carbone.
Questi, garzone in un’osteria chiamata Croce Bianca (da qui il nome dell’omonimo Vico), prese parte alla sommossa del 6 dicembre 1746 che portò alla cacciata degli Austriaci.
Partecipò, agli ordini del Capitano T. Assereto, alla temeraria azione di riconquista di Porta S. Tommaso, occupata dai nemici.
Il Popolo insorse, uomini, donne e bambini si batterono per le strade per liberare la città dallo straniero invasore (come raffigurato nel quadro del Comotto).
Il Carbone, con azione spregiudicata, recuperò le chiavi della Porta e, fra il tripudio della folla, le consegnò personalmente al Doge con l’ingenua raccomandazione “di stare più attento e di non smarrire più le chiavi della Città”.
L’episodio è narrato nella lapide posta al civico n.29 di Via Gramsci.
In Via degli Orefici, poco distante dalla celebre Edicola con Madonna e S. Eligio, opera del Piola, di cui ho già parlato in passato è possibile ammirare quest’altro capolavoro a cielo aperto: si tratta dell’Adorazione dei Magi, meglio nota come “IL PRESEPE”.
Scultura di Elia e Giovanni Gagini datata circa 1457, maestri antelami, che hanno lasciato altre numerose testimonianze della loro arte in città (in particolare in S. Lorenzo e S. Maria in Castello).
In uno spazio così limitato sono riusciti a rappresentare in modo plastico e magistrale: il suonatore di cornamusa con cane dormiente, pellegrini in preghiera e a cavallo, il pastore con il gregge e il boscaiolo che pota un albero.
Dentro la capanna, il bue e l’asinello, in alto un angelo.
Poi i Magi che offrono i propri doni con uno di loro,in ginocchio, in adorazione del Bambino.
Un cavallo che beve alla fonte mentre gli scudieri accudiscono gli altri due….. Strepitoso!!!
Pellegro Piola, ventiquattro anni non ancora compiuti era già un pittore fatto e finito che godeva in città di alta considerazione.
Membro della dinastia di artisti che, assieme al fratello Domenico, rappresentarono la massima espressione del Barocchetto genovese, la sera del 25 Novembre 1640 mentre rincasava dalla bottega di Salita S. Leonardo sita in Carignano, in Sarzano venne aggredito e ferito a morte durante una rissa dall’amico e collega, il prete artista G. Battista Bianco.
Da quando nel 1637 Genova aveva proclamato la Madonna sua Regina era rifiorita la consuetudine (in vigore già dal ‘200) di adornare i caruggi con dei piccoli templi votivi, le Edicole, che le rendessero omaggio.
Le Corporazioni facevano a gara per esibire le Edicole più belle e sfarzose.
Fu così che quella degli Orefici che era fra le più ricche, commissionò poi a Pellegro un’opera che non avesse eguali:
un’edicola di ardesia che rappresentasse La Madonna con il bambino insieme a S. Eligio, loro patrono.
Terminato il lavoro in città non si parlava d’altro fu così che il Bianco, quando vide il capolavoro di Pellegro, rimase sopraffatto da cotanta bellezza e comprese la propria inferiorità artistica.
Reo confesso raccontò ai magistrati di aver commesso l’orrendo delitto per errore, accecato dall’invidia voleva infatti solo ferirlo, perché temeva che non avrebbe mai più ricevuto commesse finché Pellegro fosse stato in circolazione.
Copia dell’Edicola in questione è ancora oggi visibile in Via degli Orefici al n. 18 realizzata dal pittore Raimondo Sirotti.
Per intervento del Maestro stesso, a quel tempo Direttore dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, l’originale è ivi custodito.
Nelle brumose notti invernali leggenda narra che il fantasma di Pellegro vaghi ancora irrequieto in Sarzano…