Storia di Crociati… di Balestrieri…

tornei… di dita tagliate e occhi strappati.

I Balestrieri genovesi, protagonisti della conquista di Gerusalemme, costituirono il corpo scelto più temuto del Medio Evo.

I Crociati nostrani, insieme a quelli fiamminghi e provenzali, rimasti a guardia del Tempio, diedero origine al secolare ordine dei Templari.

"Balestrieri genovesi all'assalto delle mura".
“Balestrieri genovesi all’assalto delle mura”.

 

Si esercitavano nella zona del Vastato (o “Guastato”), dove oggi sorge la chiesa dell’Annunziata, partecipavano a veri e propri tornei di selezione banditi in tutta la Repubblica.

Dovevano avere una certa prestanza e soprattutto una notevole mira per utilizzare la “manesca” (nome della balestra genovese) e scagliare i loro dardi fino a quattrocento metri di distanza con precisione assoluta.

"Balestrieri genovesi impegnati nella battaglia di Crécy".
“Balestrieri genovesi impegnati nella battaglia di Crecy del 1346”.

 

La paga era cospicua ma i contratti rinnovati annualmente. Per poter issare lo stendardo di S. Giorgio dovevano salpare almeno cinque galee in assetto da guerra con almeno una “Bandiera” per legno, a bordo.

La “Bandiera” era una formazione di venti balestrieri comandata da un “Conestabile”. I francesi in particolare, ma anche quasi tutti gli altri eserciti europei, li noleggiavano pagando lauti compensi alla Repubblica.

I contingenti potevano raggiungere anche qualche migliaio di individui e, fino all’avvento della polvere da sparo, erano considerati un po’ i “marines” del loro tempo.

Addirittura Federico II, catturatone una formazione nel 1247, fece loro mozzare le dita e orbare gli occhi perché non potessero più nuocere in battaglia.

Il loro utilizzo toccò l’apice durante la Guerra dei Cent’anni a fianco dei francesi e perdurò ancora per gran parte del Cinquecento.

Oggi la Compagnia dei “Balestrieri del Mandraccio” con sede nella Casa del Boia si occupa di mantenerne viva la storia attraverso accurate rievocazioni in costume.

Storia di un cagnolino…

longevo e di un artista riconoscente…

Scolpito sulla colonna destra del portale della Cattedrale di S. Lorenzo, lato dell’omonima via riposa, ad altezza occhi un cagnolino opera di uno degli artisti che, nel ‘500, restaurarono la chiesa.

Pare che i due fossero inseparabili così che, alla morte dell’animale, lo scultore appartenente alla Corporazione degli antelami (maestranze provenienti dal comasco e dal Canton Ticino) volle ricordarlo dormiente per l’eternità.

La gradevole storiella è priva di fondamento e trova palese smentita nelle numerose altre simili rappresentazioni zoomorfe presenti in città.

Ad esempio nel chiostro di S. Andrea dietro la casa di Colombo ve ne è uno identico.

Le figure antropomorfe, fitomorfe e zoomorfe, soprattutto se fantasiose e bizzarre, come spiegato dal Prof. Giacomo Montanari (curatore delle manifestazioni dei Rolli) erano infatti patrimonio consolidato dell’arte già dal XIII secolo.

La leggenda sostiene che accarezzarlo porti fortuna ma il marmo, a forza delle attenzioni che gli hanno riservato i genovesi, ormai è liscio e consumato. Meglio quindi, al fine di  preservarne l’integrità, limitarsi ad ammirarlo. Il cagnolino stesso ve ne sarà grato.

Storie… e… racconti magici…

e di un folletto dispettoso…
Nella cultura della tradizione popolare genovese in particolare, e ligure in generale, anche se non mancano orchi e diavoli o fate, le streghe (“strie”) sono di gran lunga le più gettonate.
Spesso, nei racconti in cui vengono citate, sono protagoniste in positivo come, ad esempio,nel caso della fiaba “Baffidirame il senza paura”.
In questa favola sarà proprio la strega, cattiva all’inizio, a redimersi e ad indicare, nel proseguio, il da farsi al protagonista per aiutarlo a fuggire.
Nel racconto di “Prezzemolina” invece, a rabbonirsi, è un gatto magico che aiuterà, una volta divenuto suo amico, la bimba caduta prigioniera delle orchesse, a scappare, sciogliendo i malvagi incantesimi.
Sorta di elfi cittadini erano poi chiamati “Cursi”, piccole creature a metà fra i nani e i folletti.
Uno di questi, piuttosto dispettoso, si palesa davanti alla chiesa di S. Barnaba sollevando malizioso le vesti dei religiosi.
Non contento, sempre lo stesso folletto, si sarebbe adoperato fornendo ogni genere di provocazione, nel tentativo di far desistere i novizi dalla loro vocazione.
Interpellato il noto esorcista S. Lorenzo da Brindisi, grazie alle sue potenti preghiere, il folletto fu relegato in un angolo isolato del convento, concedendogli di poter uscire solo tre volte all’anno.
Sulle alture di Voltri invece, nelle grotte utilizzate durante la seconda guerra mondiale come rifugi antiaerei, i vecchi tramandano la presenza di donnine minuscole e piuttosto vendicative.

Storia di leggende… quarta parte…

misteri… e fantasmi…
continua… quarta parte.
Anticamente Via Luccoli (“piccolo bosco”) era la strada che conduceva all’Acquasola sede dei templi pagani del Sole e della Luna.
In quel tempo era purtroppo normale fare sacrifici umani per ingraziarsi le divinità.
Una di queste vittime che, oltre mille anni dopo, gironzola ancora oggi nel vicolo, ignara del proprio triste destino, è il fantasma di un ingenuo fanciullo che sorride ai passanti.
Tra la sera del venerdì santo e l’alba di Pasqua è possibile invece imbattersi in un lugubre carro che, guidato da un misterioso nocchiero e trainato da un superbo palafreno, percorre il tragitto da Porta di S. Fede, attraversa Via delle Fontane e prosegue lungo Corso Carbonara, carico delle anime defunte di morte violenta.
Sempre nei pressi della Porta certe notti si può intravedere lo scellerato spettro del Vacchero colui al quale, a causa del suo tradimento, la Repubblica ha dedicato la celebre colonna infame.
Un’altra sanguinosa leggenda riguarda la Cattedrale di S. Siro nella quale i Vescovi lombardi, in fuga da Milano, traslarono le reliquie del loro patrono S. Ambrogio.
Fra i prelati milanesi si distinse per costumi dissoluti un tal Valentino che, una volta deceduto, nella chiesa ebbe sepoltura.
Ma una notte, fra il terrore dei presenti accorsi sul posto perché turbati dal frastuono delle urla, due spettri furibondi riesumarono la salma del monaco.
Costoro lo resuscitarono e trascinarono fuori dall’edificio religioso.
All’indomani il corpo del malcapitato venne rinvenuto gettato in malo modo nella fossa comune del cimitero.
In Piazza Banchi, nei pressi di S. Pietro della Porta vaga invece, accompagnato da una triste melodia, lo spirito dello Stradella, noto compositore secentesco, protagonista di torbide vicende amorose.
Ai fatti accaduti la sera del 24 aprile 1841 è infine legata l’infelice relazione fra il Conte Camillo Benso di Cavour e la nobildonna genovese Anna Schiaffino Giustiniani.
Costei, depressa perché non corrisposta, la sera sopra citata, durante un importante ricevimento, si gettò nel vuoto dalla finestra del palazzo Lercaro di Via Garibaldi.
Da allora, ogni 24 aprile, in corrispondenza della finestra del folle volo, compare una grande macchia con le sembianze della trentatreenne suicida.

Fine quarta parte… continua…
In Copertina: Via Luccoli di sera. Foto di Leti Gagge.

Storia di leggende… terza parte…

misteri e fantasmi… terza parte.
Un racconto a me molto caro che si perde nella notte dei tempi narra di una singolare coppia di frequentatori dei caruggi: il Diavolo e il Vento.
Una sera il Diavolo, passando sotto l’Arcivescovato, disse all’amico che sarebbe salito a parlare con il Vescovo e di attenderlo lì sotto.
Nel palazzo della Curia il Diavolo, evidentemente, si trovò proprio a suo agio visto che più non scese.
Ecco perché in Salita all’Arcivescovato soffia sempre forte il Vento; perché questi è ancora lì sotto ad aspettare il Diavolo.
Legato invece ad un fatto storico vero è il racconto che vede come sfondo l’intrigante Piazza di Campo Pisano:
nel 1284 infatti i Genovesi condussero in città, in seguito al trionfo della Meloria, ben novemila nemici pisani.
Molti di questi morirono di stenti e trovarono sepoltura, lontano dal suolo patrio, proprio nel cimitero sottostante l’attuale piazza (da qui il toponimo).
Per questo, dalla Marina lungo tutta la salita che conduce alla piazza, nelle fredde sere invernali, riecheggia un incessante tintinnare di catene e ferraglia trascinate dai prigionieri.
In Piazza Senarega invece, dal palazzo dell’omonima famiglia, si può scorgere a mezzogiorno in punto, una giovane dama affacciarsi dalla finestra e vederla spiccare il volo tenendo in mano un fagotto.
Superato l’attimo di incredulità si può notare come il presunto fagotto sia in realtà il suo capo mozzato opera del suo geloso amante.
Proseguendo poco distante, in Vico delle Mele, è possibile inoltre imbattersi in una misteriosa meretrice, bruna di capelli, di pelle ambrata e dalle prosperose forme che vi farà girar la testa e, magari, sparire il portafoglio.
La leggenda in proposito racconta infatti che, colta in flagrante insieme al suo nobile amante, sparì insieme alla dimora in cui nel vicolo avvenne l’incontro, non lasciando più traccia né di se, né del palazzo.
Per finire un cenno al fatto che, a partire da inizio ‘500 le impiccagioni avvenivano presso il Castellaccio e le odierne Via Cavallo e Via Accinelli che un tempo si chiamavano Salita dell’Agonia e della Morte, erano le uniche strade per arrivarci.
I condannati infatti le percorrevano entrambe: da vivi la prima all’andata, e da cadaveri la seconda al ritorno…
Via vai continuo di anime…..
Fine terza parte… Continua.

Storia delle Casacce…

A Genova con questo termine si indicano le confraternite, di derivazione provenzale, presenti in città fin dal tredicesimo secolo.
I loro membri, vestiti con tuniche a sacco e cappucci, percorrevano i quartieri della Superba in occasione di particolari feste religiose, recitando preghiere e canti sacri.
Col passare dei secoli dalle semplici tuniche si passò a vestiari sfarzosi facendo a gara quanto a ricchezza dei paramenti.
Nel ‘700 le Confraternite erano venti, quattro per ogni quartiere e le loro processioni erano seguitissime e oggetto di contesa (un po’ come il palio di Siena).
I protagonisti erano i “Brassezei” che reggevano crocifissi alti più di cinque metri e pesanti oltre cento chili, appoggiandosi sul crocco (astuccio di cuoio legato in vita), al ritmo e a tempo di musica.
Le Confraternite più ammirate e prestigiose erano intitolate a

"San Giacomo che combatte i Mori del Navone", cassa processionalesettecentesca un tempo conservata nello scomparso Oratorio di San Giacomo delle Fucine, oggi custodito in quello di Sant' Antonio Abate, presso la Marina.
“San Giacomo che sconfigge i Mori del Navone”, cassa processionale settecentesca un tempo conservata nello scomparso Oratorio di San Giacomo delle Fucine, oggi custodito in quello di S. Antonio Abate, presso la Marina.

i Santi Giacomo e Leonardo, San Giacomo delle Fucine e a S. Antonio Abate della Marina.
Queste gareggiavano ogni anno per primeggiare, quanto a originalità, sfarzo e opulenza degli apparati, sulle altre.
Grande rilievo avevano le casse processionali, raffiguranti i personaggi a grandezza naturale, il cui principale artefice fu, manco a dirlo, il Maragliano.
Questi perfezionò l’arte del Navone e del Bissone traslando sulle proprie opere i concetti e le scene dei pittori in voga nel suo tempo (molta influenza su di lui ebbe l’amicizia con il Piola).

"Incontro fra S. Ambrogio e l'imperatore Teodosio". Cassa processionale settecentesca della parrocchia di S. Ambrogio opera del Maragliano.
“Incontro fra S. Ambrogio e l’imperatore Teodosio”.
Cassa processionale settecentesca della parrocchia di S. Ambrogio a Savona opera del Maragliano.

La più nota, conservata in S. Antonio abate della Marina, S. Giacomo che sconfigge i Mori, del Bissone, è di una bellezza sconcertante.
Causa i frequenti disordini pubblici e le violente risse, in epoca napoleonica, le Confraternite vennero abolite.
Ma negli ultimi decenni, vuoi come segno di devozione, vuoi come manifestazione folcloristico culturale, hanno ripreso grande popolarità nella nostra tradizione.

In Copertina: stampa ottocentesca delle Casacce.

Storia di un Borgo di pescatori…

di una dolorosa emigrazione… di un porto argentino e… di una squadra genovese…
Non doveva apparire molto diversa l’immagine che i pescatori genovesi si portarono nel cuore allorquando, nei primi decenni dell’800, abbandonarono il loro quartiere natio, imbarcandosi alla volta di Buenos Aires in cerca di fortuna.

"I colori pastello della Boca"
“I colori pastello della Boca”

Fu così che sbarcati in Sudamerica si diedero da fare e costruirono in breve tempo, a immagine, somiglianza e ricordo di quello originario, il Porto della Boca (da Boccadasse… a Boca…).
I genovesi oltre ai colori e agli odori della propria terra portarono seco la necessità di praticare il football.

"Los Xeneizes"
“Los Xeneizes”

Fu così che nel 1905 sei amici, di cui quattro genovesi, fondarono quella che sarebbe diventata la squadra più titolata del pianeta; il Boca Juniors.
Nel 1907 il giovane Baglietto, primo presidente, insieme ai suoi amici intento a osservare nostalgicamente il mare, decise che

"Il porto della Boca nello specchio adibito ai pescatori".
“Il porto della Boca nello specchio adibito ai pescatori”.

il Boca avrebbe adottato i colori della prima nave che fosse giunta in porto.
La prima fu un’imbarcazione svedese.

Per questo il giallo e il blu divennero i colori sociali, associati al titolo “xeneizes” impresso sulla maglietta.
Giusto per non dimenticare mai le proprie origini.
A titolo di curiosità anche l’altra grande squadra argentina fondata già nel 1901 il River Plate, il cui primo presidente fu Salvarezza, nacque alla Boca e fu fondata dai genovesi.

"Casacca del River".
“Casacca del River”.
Costui, osservando sulla banchina delle casse di legno chiaro, bollate trasversalmente di rosso con la dicitura “River Plate” in attesa di essere imbarcate (traduzione inglese di Rio de la Plata”), ne trasse ispirazione per la scelta della divisa bianca con banda trasversale rossa del Club.

Storia di una Chiesa particolare…

 profondamente genovese…
In Piazza Banchi attigua all’antica Porta di S. Pietro fin dal 862 esisteva, appena fuori le mura, l’omonima chiesa.
Nel 1398, a causa di un vasto incendio, rimase al suo posto un cumulo di tristi macerie fino a quando, alla fine del secolo successivo, venne demolita per permettere la costruzione del palazzo nobiliare di Giannotto Lomellini, Doge della città.
In seguito ad un voto compiuto nel 1583 dal nobile durante la peste, la lussuosa dimora venne abbattuta.
Soltanto le costruzioni a livello della strada rimasero intatte.
Si decise così di ricostruire la chiesa e, caso unico al mondo, si stabilì di tassare i commercianti che, in questo modo, poterono ottenere la concessione delle botteghe sottostanti.
Rispetto a quella originaria l’architetto Bernardo Cantone spostò la facciata rivolgendola non più a mare, bensì sulla Piazza e aggiunse sia la coreografica balaustra marmorea che lo scalone di accesso.
Terminata nel 1590 la chiesa di S. Pietro prese il nome della Porta, in ricordo della vicinanza all’arco dell’antica porta.
Testimone secolare di liti, omicidi (celebre teatro dell’assassinio del musico Stradella), rivolte, contrattazioni, scambi, commerci S. Pietro in Banchi ,come identificata dalla maggioranza, è la chiesa che meglio rispecchia l’approccio tutto genovese, come direbbe De André, “al sacro e al profano”.
L’edificio dovette subire anche l’onta dei bombardamenti di Re Sole nel 1684 e, soprattutto, quelli alleati del 1942.
Ristrutturata per l’ennesima volta si mostra come ancora oggi la vediamo, nonostante i disarmonici squilibri, in tutta la sua scenografica presenza.

“Chiesa di Piazza Banchi”. Foto di Leti Gagge.

Kainua…

il nome più antico della Superba…
Al nome Genua che compare per la prima volta nel 148 a.C, si sostituisce gradualmente il latino medioevale Ianua.
Di qui le varie interpretazioni che hanno portato all’idea che Genova, dal latino “Ianua” (porta, accesso), significasse appunto “Porta” sul mare e sui monti (compare così Giano bifronte).
Per altri invece dal greco “Xenos” (straniero), luogo di scambi fra vari popoli.
Per taluni dalla radice celtica “ghe” ovvero mascella, riferito alla particolare forma dell’arco portuale.
Appare invece ormai acclarato, grazie ai ritrovamenti di anfore e reperti vari nella zona del sottopasso e dell’Acquario, che l’emporio dei Liguri sia sorto in virtù del prevalere della comunità etrusca che avrebbe contribuito alla fondazione di una nuova città con funzioni commerciali in relazione alla Provenza e a Marsiglia.
Su molti di questi reperti, come certificato dalla Professoressa Melli, sovrintendente ai beni culturali in quel periodo (anni ’90), appare la destinazione di “KAINUA”, che in etrusco significa proprio “Città nuova”… (dal greco kainòs/kainòn che significa “nuovo”) e dalla desinenza “ua” associata ai toponimi delle città etrusche in genere .

Kainua, da non confondersi con l’omonima località (Marzabotto) nei pressi di Bologna.

GE… NOVA città nuova alla stessa maniera della NEA… POLIS di Napoli.

A scuola continuano, almeno quei pochi che lo fanno, nonostante i glottologi siano ormai concordi nel validare quest’ultima ipotesi, a raccontare le precedenti vulgate.

Nella foto “Genova a metà del XV sec.”.

Ben visibile la Torre dei Greci, a dx dell’ingresso del porto, sul Molo Vecchio. Fu innalzata nel 1324 e dotata di lanterna a olio nel 1326 (stesso anno de la Lanterna).
Incisione in legno realizzata nel 1493 dalla bottega di Michael Wolgemut e successivamente colorata a mano.
Per il “Liber Chronicarum” (Cronache di Norimberga) di Hartmann Schedel, stampato a Norimberga il 12 luglio 1493 da Anton Krobergerl.

“La versione colorata per il Liber Chronicarum”.

Storia degli Ebrei e del ghetto a Genova…

La prima comunità ebraica, il cui nucleo era composto da circa trecento sefarditi, si costituì nell’anno 1493 quando molti di loro furono espulsi dalla Spagna tornata nell’orbita cattolica.
Provenienti da Barcellona dove si erano imbarcati alla volta dell’Africa e dell’Oriente, approdarono nel nostro porto.
Gli fu concesso di sostare nella nostra città dove trovarono impiego come personale di servizio presso le grandi famiglie genovesi, per un periodo non superiore all’anno.
All’inizio del ‘500 il governatore francese impose loro, per poterli riconoscere, la coccarda gialla.
I più apprezzati furono medici, commercianti e prestatori di pegno che, presto, ottennero ampie proroghe al proprio soggiorno.
Nel 1656 Genova, colpita dalla peste, vide la propria popolazione dimezzarsi (da 180 a 90 mila abitanti).
Per incentivare la ripresa economica la Superba ne favorì l’insediamento destinando loro il ghetto che comprendeva la zona di Via del Campo, Untoria, Croce Bianca e Piazzetta Fregoso.
Il quartiere venne cintato da cancelli e decorato con numerose edicole votive e crocifissi per ricordare loro l’inferiorità e la necessità del pentimento.
Le chiavi del ghetto erano custodite dai Massari che vigilavano affinché fosse interdetto ogni rapporto, al di là di quello commerciale, con i locali.
Gli fu concesso diritto di sepoltura (presso la Cava) e il permesso di costruzione della Sinagoga.
Dovevano però, in occasione di particolari funzioni, al fine di espiare le proprie colpe, presenziare alle messe presso le Chiese delle Vigne o di S. Siro.
Il ghetto venne poi spostato in Vico Malatti presso il quartiere del Molo e nel 1674 trasferito definitivamente in Piazza dei tessitori (zona sopra Piazza delle Erbe).
Negli annali, a parte sfottò e lanci di ortaggi, non sono annotati fatti di particolare violenza o intolleranza a riguardo.
Il ghetto venne abolito, a seguito delle nuove idee illuministe nel 1752, ma i diritti civili vennero pienamente riconosciuti agli Ebrei solo nel 1848 sotto il regno Sabaudo di Carlo Alberto.
 
In copertina “Il cambiavalute” quadro di Rembrandt.