“Tra moglie e marito non mettere il dito”…

La storia narra di un capitano pronto a salpare per un lungo viaggio in oriente. Salito sul ponte di comando venne raggiunto da un’arzilla vecchietta che, nonostante l’età, si era arrampicata sulla scaletta e lo aveva avvicinato, per chiedergli l’elemosina, senza sforzo alcuno.

L’ufficiale, seppur sorpreso, si mostrò generoso verso l’anziana che, per ringraziarlo, svelò il suo vero volto, quello di una maga, e volle metterlo in guardia da un possibile pericolo: “Sulla via del ritorno –disse- all’altezza del canale di Piombino, guardati da una strana nube a forma di arcolaio. Piomberà sulla nave per sommergerla”. “Quella nuvola –proseguì- la vecchina, altri non è che la tua fedifraga moglie, in realtà una strega provetta, che vuole la tua  morte”.

Il capitano rimase sconvolto dal racconto ascoltato ma quando, al momento del rimpatrio, la profezia si avverò, non si fece trovare impreparato. Vedendo la nube formarsi e avvolgere in maniera minacciosa la sua nave, salì coraggiosamente sull’albero più alto e vibrò un preciso fendente con la spada verso la nuvola. Pian piano che la nebbia cominciò a diradarsi l’uomo vide qualcosa brillare sul ponte: era la fede nuziale regalata alla moglie il giorno del loro matrimonio. L’anello era ancora lì al suo posto, ad ornare l’anulare reciso della sua infedele sposa.

Storia di un vaso di basilico… di un Duca…

… di un ambasciatore.

Che la stirpe dei genovesi sia tutta particolare ce lo hanno ricordato in tanti. Solo per citare i più noti, da Dante a Jean Le Meingre (Maresciallo Boucicault), dai primi viaggiatori anglosassoni a Montesquieu.

A questo proposito c’è un racconto che assai si confà all’intima essenza dell’animo orgoglioso, rude e “rustego” dei nostri avi, avvenuto al tempo in cui, purtroppo, la Superba ricadeva sotto la signoria della casata milanese.

Si narra che nel 1476 un tal Francesco Marchese venne inviato in qualità di ambasciatore presso la corte di  Gian Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano. Il rappresentante genovese aveva l’arduo quanto delicato compito di convincere il milanese a non ingrandire la fortezza del Castelletto, presidio dal quale quest’ultimo teneva in pugno, da monte, la città. Il previsto incontro diplomatico venne rimandato di qualche giorno causa improrogabili impegni del duca. I genovesi non la presero bene e pensarono un singolare dono, fuori da ogni protocollo, per rimarcare il loro disappunto.

Marchese gli aveva infatti fatto pervenire un vaso pieno di basilico. Galeazzo meravigliato e colto di sorpresa gliene chiese subito conto.

“La natura dei genovesi, signor duca, è simile al basilico. Maneggiato dolcemente profuma, maneggiato aspramente puzza e genera scorpioni”. Questa fu la lapidaria risposta dell’ambasciatore di San Giorgio.

… Quando c’era il Mercato dei Fiori…

Quando prima che diventasse Piazza delle Americhe in un tripudio di bandiere sventolanti… lo slargo che interseca la fine di Via Tolemaide con Via Tommaso Invrea era la sede del Mercato dei fiori.  Concepito in Piazza Verdi nello stesso stile e nello stesso periodo, quello fascista, del mercato del pesce, venne costruito nel 1934 e demolito negli anni ’80.

Cartolina tratta dall’Archivio Storico della Regione Liguria.

… Quando a Priaruggia…

… non c’erano ancora le ricche villette della borghesia… quando il tram scandiva i tempi degli spostamenti, da e verso Genova… quando la spiaggia era dominio indiscusso dei pescatori e ricovero dei gozzi… non come oggi un compromesso fra bagnanti e marinai…

Quando non era chiaro se il toponimo Priaruggia derivasse dal nome del torrente che le scorre attorno o se, al contrario, il rio dovesse il nome alla nobile famiglia dei Pietra Roggia che anticamente aveva possedimenti in zona e vi abitava… o ancora se traesse origine da uno scoglio in pietra rossa, oggi scheggiato dalle libecciate, sito davanti alla baia. Certo è che “Priaruggia” significa pietra da dove scaturisce l’acqua…  e questa di certo non scarseggia…

La Torre dei Maruffo…

Imbucato il budello di Canneto il Lungo all’altezza del civ. n. 23 s’incontrano la Torre e il Palazzo dei Maruffo Fieschi. Due pezzi di Medioevo difficilmente, per via dello stretto caruggio, individuabili. I resti di quest’imponente edificio si estendono anche sul lato di Vico Valoria.

“La Torre Maruffo o dei Maruffi”. Foto di Leti Gagge.
“Primo piano della Torre”. Foto di Leti Gagge.

I Fieschi, conti di Lavagna, erano una delle più nobili e antiche famiglie genovesi il cui prestigio e potere affondava le sue radici al tempo in cui Genova era ancora legata alle ripartizioni imperiali. I Maruffo invece, di origine spezzina, avevano importanti possedimenti a Sestri Levante. Dopo il 1100 si trasferirono nel ponente genovese (Voltri, Rivarolo, Coronata) e si distinsero nelle guerre contro Pisa e Venezia. In virtù del prestigio conquistato, acquisirono proprietà anche nel centro storico. Ne sono testimonianza l’omonima piazzetta (dietro la chiesa di San Giorgio) il palazzo in Canneto e, soprattutto, la poderosa torre eretta nel XIII sec. Persino l’Archivolto Baliano che comunica con Piazza Matteotti, un tempo era chiamato dei Maruffi.

Al piano strada si nota una finestra chiusa da un’inferriata in ferro battuto proprio sul basamento in pietra dell’antica torre alta ben 40 metri. Due arcate ogivali tamponate e un grande pilastro ad angolo delimitano quella che un tempo era una loggia aperta. Sopra di essa sono presenti fregi e archetti in pietra e laterizio. Il primo piano nobile è in laterizio con archi di pietra bicroma, ormai tamponati. Verso l’angolo spunta una colonnina marmorea. Anche verso la torre al secondo piano risalta una colonnina mezza intonacata con un accenno di arco con cordonatura.

“In primo piano la Torre dei Maruffi, sullo sfondo in lontananza, quella degli Embriaco. Ognuna al suo posto sembrano osservarsi con reciproco rispetto”. Foto di Leti Gagge.

La Torre dei Maruffo rappresenta una metafora della città; se vuoi scoprirla, devi alzare lo sguardo. Se non la cerchi non la trovi.

La chiesa del Gesù…

In Piazza Matteotti, accanto al palazzo Ducale, si affaccia la chiesa insieme all’Annunziata, più importante del Barocco europeo, la chiesa del Gesù. Dentro a questo edificio sono racchiusi capolavori secenteschi da far invidia a qualunque museo.

“Il fastigio sopra il portone che attesta le opere di ristrutturazione dei Gesuiti”.
“Statua di Sant’Andrea”.
“Statua di Sant’Ambrogio”.

In realtà il nome completo dell’istituto è chiesa dei Santi Ambrogio e Andrea. In origine venne costruita nel ‘500 d. c. dai vescovi milanesi in fuga dalla loro città minacciata dai longobardi.

“Le cupole interne affrescate in ogni cm. disponibile”.

Il Vescovo Onorato nel 569 trasferì la diocesi lombarda al sicuro fra le mura di Genova stabilendosi sul Brolio, accanto al piano di S. Andrea e intitolando la chiesa al patrono di Milano, S. Ambrogio. Circa un millennio dopo nel 1552, la chiesa passò nelle mani del più influente ordine del tempo, quello dei Gesuiti, la cui potenza e ricchezza erano in continua espansione. Dal 1589 assunse le forme ancora attuali, facciata a parte, che venne ridisegnata nel sec. XIX dopo la demolizione della cortina di protezione del palazzo Ducale (il palazzo ducale comunicava quindi non solo con San Lorenzo, la cattedrale, ma anche con la chiesa del Gesù, il fulcro del potere gesuitico) e la relativa risistemazione della piazza. I disegni del prospetto esterno realizzati da Rubens vennero dall’artista stesso inseriti nel suo celebre trattato sui palazzi di Genova.

La classica facciata sulla quale spiccano le due statue dei santi del 1894 del Ramognino non rende giustizia su quale sfarzo e opulenza vi si possa trovare all’interno:

“La navata affrescata dai Carlone”.

Cupola e navata principale sono affrescati da Giovanni Carlone e Giovanni Battista Carlone, mirabilmente inserite in un contesto di decori, stucchi e ori abbaglianti. Sull’altare principale campeggiano “La Circoncisione di Gesù”, capolavoro di Rubens, “La Strage degli Innocenti” del Merano e “La Fuga in Egitto” di Domenico Piola.

“La Crocifissione del Vouet”.

Nella navata di destra, nella prima cappella, affreschi del Galeotti e il dipinto “S. Ambrogio caccia l’imperatore Teodosio” di Giovanni Andrea De Ferrari. Le statue delle nicchie sono del Borromeo e di Domenico Casella.

L’affresco della seconda cappella è opera di Lorenzo de Ferrari ed una “Crocifissione” del Vouet. Lunette dell’arco esterno affreschi e statue del Carlone e della sua bottega.

“Il Presepe dell’Orsolino”.

Sotto l’altare Tommaso Orsolino ha scolpito un meraviglioso presepe marmoreo.

“Il Miracolo di Sant’Ignazio (di Loyola fondatore dell’ordine gesuitico) di Rubens”.

Sull’arco della terza cappella “L’Assunzione” di Guido Reni, affreschi del De Ferrari ed altre statue dei De Ferrari.

“L’altare con la Circoncisione di Rubens”.
“L’Assunzione di Guido Reni”.

Dal lato opposto, nella quarta cappella della navata di sinistra “Il Martirio di S. Andrea” del Piaggio e di Andrea Semino, tela cinquecentesca, nella terza cappella gli affreschi del Carlone e “Sant’Ignazio guarisce un ossessa” di Pieter Rubens.

Nella seconda cappella “Il Martirio di San Giovanni Battista” di Bernardo Castello, “Il Battesimo di Cristo” di Domenico Passignano e statue rappresentanti Elisabetta e Zaccaria di Taddeo Carlone. Nella prima cappella affreschi di Lorenzo De Ferrari e il “San Francesco Borgia” di Andrea Pozzo.

Nella cantoria infine oltre all’organo, sono presenti sculture della bottega dei fratelli Santacroce e altre opere di Domenico Fiasella e, nella cappella di testata a sinistra, di Valerio Castello.

“Bagliori e giochi di luce della Circoncisione”.

Non un solo centimetro risulta non stuccato, decorato, dipinto. Un trionfo di luci ed ombre con giochi di chiaroscuri mai visti prima, che trova il suo apogeo nella Circoncisione di Rubens. Il morbido e sensuale dipinto che sembra brillare di bagliori ultraterreni.

“Ne sciurtimmu da u ma”…

Due grandi marinai, esploratori della vita che, ciascuno nel proprio campo, hanno saputo tenere ben saldo il timone fra le avversità e le tempeste. Troppo grandi per non affacciarsi al mondo, si sono fatti onore ovunque con la loro arte. Troppo legati a questa città, madre severa ma pur sempre madre, per non farne punto di riferimento e porto sicuro al ritorno da ogni viaggio. Fabrizio e Renzo, a cui noi tutti genovesi siamo debitori: per le inimitabili poesie del primo e per la rivitalizzazione del Porto Antico, del secondo. Renzo ha ancora grandi sogni e progetti per la sua città e Fabrizio, anche se non c’è più, sicuramente con la sua musica è lì che li accarezza come una fresca brezza di mare. Con il vento in poppa, avanti tutta!

“Umbre de muri, muri de mainé”…

“… Ruine si, ma servitù non mai”

Nel 1706 in una raccolta intitolata “Perfetta Poesia Italiana” apparvero i versi di uno sconosciuto poeta genovese, tal Giovanni Battista Pastorini. Lo scrittore compose un appassionato quanto addolorato sonetto in onore della sua città, ancora scossa e ferita dalle recenti vicende belliche. L’autore infatti, sull’onda emotiva del nefasto bombardamento del 1684 ad opera del Re Sole, annotò:

“Genova mia, se con asciutto ciglio

Lacero e guasto il tuo bel corpo io miro

Non è poca pietà d’ingrato figlio

Ma ribello mi sembra ogni sospiro.

La maestà di tue ruine ammiro,

trofei della costanza e del consiglio;

ovunque io volgo il passo o l’guardo io giro,

incontro il tuo valor nel tuo periglio.

Più val d’ogni vittoria un bel soffrire,

e contro ai fieri alta vittoria fai

con il vederti distrutta, e nol sentire.

Anzi girar la libertà mirai,

e baciar lieta ogni ruina e dire:

ruine si, ma servitù non mai”.

“Ritratto di Re Sole Luigi XIV”.

In quell’occasione Genova mostrò fiera e tenace tutto il suo orgoglio. Sola e abbandonata da tutti, lei piccola Repubblica, seppe opporsi alla tracotanza del più potente regno terreno. “Frangar non Flectar” (“Mi spezzerò ma non mi piegherò”) meritandosi in quel frangente, più che mai, l’appellativo di Superba.

 

“Baccicin vattene a ca”…

Poco più di un secolo fa, all’inizio del ‘900, accanto al teatro “Garibaldi” v’era un piccolo caffè frequentato da un tale a tutti noto con il nome di “Baccicin de l’aegua”. Ovviamente si trattava di un soprannome ironico visto l’inesistente rapporto che il nostro eroe aveva con l’acqua alla quale preferiva senza dubbio alcuno il nettare di Bacco. Baccicin soleva spesso dire: “Se io fossi il conte Raggio, metterei i recipienti del vino sul tetto del palazzo, al posto delle cisterne dell’acqua. Pensate che bello, aprire il rubinetto del lavandino e veder venir giù del Barbera”.

Baccicin sovente brillo si appostava all’angolo dei vicoli di Via Garibaldi dove teneva comizi e sproloqui su qualsiasi argomento fino a che non veniva costretto dai vigili a sloggiare. “Se fuise u cunte Raggio non me mandiesci via..” rispondeva risentito al cantunè di turno e nell’allontanarsi barcollante verso la Maddalena canticchiava:

“O Baccicin vattene a ca, to moè  a t’aspeta.

Baccicin vattene a ca.

E a t’ha leasciou u lumme in ta scaa..”.

Il suo sogno era diventare ricco, ormai l’avete capito, come il conte Raggio per riempire di vino i recipienti del suo palazzo e per questo giocava al lotto tutto quello che, tra guadagni ed elemosine, riusciva ad arraffare qua e là. Non sapendo leggere chiedeva ai passanti di comunicargli la sequenza dei tre numeri estratti. Fu così che un giorno gli amici gli giocarono un brutto scherzo. Riuscirono ad impadronirsi del cappello del malcapitato dove era nascosta la ricevuta dei numeri giocati ed inscenarono un tiro mancino molto ben orchestrato alle sue spalle al quale presero parte diversi personaggi..

Uno sconosciuto con in bella vista il giornale “Il Balilla” interrogato dal Baccicin lesse, guarda caso, i numeri giocati dal poveretto che, superato il momento di incredulità, strappò dalle mani del tizio il giornale e corse euforico giù per il caruggio, irrompendo nel piccolo caffè dove tutti, a conoscenza dello scherzo, lo attendevano.

L’oste e gli avventori lessero e confermarono l’estrazione sulla ruota di Genova. Baccicin era al settimo cielo e si precipitò al botteghino del lotto per riscuotere la sua agognata vincita. Lo scherzo era sfuggito di mano e chi l’aveva ordito già si era pentito quando vide il titolare della ricevitoria uscire trafelato mentre si tamponava il naso sanguinante. Ai presenti implorò, mentre si udivano i rumori della vetrina infranta e i tonfi di sedie e tavoli sfasciati, di fermarlo perché “u l’è mattu, acciapelu..”. Un vigile accorso per sedare la questione subì un calcione nelle parti “nobili” di un furibondo Baccicin al quale nulla potè impedire l’arresto con tanto di permanenza in Torre (Grimaldina) prima e in Pretura, poi.

La vicenda finì sulla bocca di tutti e persino il Balilla pubblicò una parodia del mancato vincitore. Oltre al danno anche la beffa da “macchietta” a “zimbello”.

Passarono gli anni e con essi anche la prima guerra mondiale e Baccicin, incurvato dagli anni e afflosciato dalle delusioni era ormai l’amara caricatura di se stesso. Continuò, fino all’ultimo dei suoi giorni a chiedere l’elemosina, bofonchiando una nenia incomprensibile, nella zona antistante il palazzo della Meridiana.

Quella nenia recitava: “O Baccicin, vattene a ca, o Baccicin vattene a ca…”

“O Capitano! Mio Capitano!”… seconda parte…

Nell’atrio del castello sono esposte numerose lastre e lapidi scolpite recuperate nel centro storico dal capitano stesso, con l’intento di preservarle da incuria e indifferenza. Le acquistò per pochi soldi in tempi in cui, queste opere d’arte o storiche, venivano ritenute cianfrusaglia d’impiccio.

Grazie alla lungimiranza di questo straordinario uomo di mare sono state salvate importanti opere quali, ad esempio, il sovrapporta e il portale in  marmo di San Giorgio che uccide il drago, in origine ornamento e vanto del civ. n. 11 di Vico Mele. Il capitano lo acquistò nel 1890 dal Marchese Negrone. Segue un secondo sovrapporta con l’Agnus Dei e due scudi ai lati.

“Dettaglio del sovrapporta di san Giorgio che uccide il drago”.

Sullo stesso muro sono affissi:

“Interni del Castello”.

altri Agnus Dei in marmo bianco con lo stendardo del Battista, un bassorilievo con il leone di San Marco e tre stemmi nobiliari.

Un frammento della parte di destra di un altro sovrapporta allegorico, questa volta in pietra nera di Promontorio, che rappresenta un guerriero romano con nella mano destra una cornucopia e in quella sinistra uno scudo con stemma abraso. Ai suoi piedi elmo e clava. Il paesaggio descrive un uccellino sopra un albero, un pastorello che suona il flauto, alcune pecore con relativo cane da guardia. Sullo sfondo mun castelletto con quattro torri. La cornice destra è scolpita a candelabra.

Due rosoni in chiave di volta in pietra di promontorio.

“Panorama portuale”. Foto di Leti Gagge.

Un Chrismon in una raggiera, il frammento di un’Annunciazione con una ghirlanda e la lettera M. Uno stemma della famiglia Grimaldi, il frammento di un bassorilievo con il Battista.

“L’Ultima Cena”.
“Sant’Antonio Abate e, sotto, San Francesco riceve le stimmate”.

Una lastra di pietra nera con l’Ultima Cena, purtroppo danneggiata, della quale è stata fatta una copia esposta nel corridoio al secondo piano. Particolare la presenza allusiva al tradimento di numerosi coltelli apparecchiati sulla tavola.

“San Pietro Martire”.

Un tondo con Sant’Antonio Abate e uno con San Pietro Martire.

Una lastra con il rilievo di San Francesco che riceve le stimmate, San Giovanni Battista e un Cristo crocifisso che appare in cielo.

“L’Annunziata”.

Un altro tondo con l’Annunziata e una misteriosa lapide il cui testo recita:

“Alabarde e scudi appese alle pareti”. Foto di Leti Gagge.

“Hic Adservatvr Reliqvia Protomar / tiris Sancti Stephani Donata P (…) / F. Gondisalvm Mantanvm Ordinis / Predicatorvm, 8c Lazarvm Ambro / sivm Gvidvm Leonardi Benefacto / Res Societati Casse S.ti Stephani, / Vt Ex Instromento Donationis  / (…) ato a Notario Joanne Fra / (…) ario Anno 1728. Die 21. 7Bris.

Probabilmente questa epigrafe si trovava accanto all’urna contenente le ceneri di Santo Stefano.

E poi altri bassorilievi, lapidi, tavelle, rosoni, cornici marmoree.

In alto campeggia una testa di una Venere di Milo in gesso.

Nella loggia sopra il portale con San Giorgio sono posti quattro modelli in gesso di busti di donne idealizzate dai poeti: Beatrice, Ginevra, Laura ed Eleonora. I calchi sono dello scultore Santo Varni e acquistati dal capitano nel 1888.

Nella piccola loggia al secondo piano è custodita la famosa statua del “Colombo giovinetto” pregevole immagine del 1870 dello scultore Giulio Monteverde.

La statua è rivolta verso il mare e alla base riporta l’epigrafe:

“Colombo giovinetto, scultura di Giulio Monteverde”. Foto di Leti Gagge.

“Al Sol che Tramontava sull’Infinito Mondo / Chiedeva Colombo Giovinetto Ancora / Quali Altre Terre, Quali Altri Popoli / Avrebbe Baciato ai suoi Primi Albori.

“Ancora panorama sul porto”. Foto di Leti Gagge.

Copie della statua si trovano presso Bistagno (Al) patria dello scultore, alla Cristopher High School di New York, al Museo Hermitage di San Pietroburgo e alla Galleria d’Arte Moderna a Nervi.

Il Capitano D’Albertis fu fervente sostenitore della cultura scientifica e fra i fondatori dello Yacht Club Italiano nel 1879. Grande ammiratore di Colombo ne ripercorse nel 1882 la rotta a bordo del leggendario “Corsaro” utilizzando la stessa strumentazione in dotazione all’illustre concittadino 390 anni prima. In omaggio al grande esploratore inaugurò il castello proprio nel 1892 in occasione del quarto centenario della scoperta dell’America.

Alla maniera dei suoi gloriosi predecessori, dal castello come fosse la tolda di una nave, il Capitano D’Albertis scrutava il mare come Cristoforo Colombo e dominava la città come Andrea Doria.O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato,
la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambìto premio è conquistato,
vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta,
occhi seguono l’invitto scafo, la nave arcigna e intrepida;
ma o cuore! Cuore! Cuore!
O gocce rosse di sangue,
là sul ponte dove giace il Capitano,
caduto, gelido, morto.

O Capitano! Mio Capitano! Risorgi, odi le campane;
risorgo – per te è issata la bandiera – per te squillano le trombe,
per te fiori e ghirlande ornate di nastri – per te le coste affollate,
te invoca la massa ondeggiante, a te volgono i volti ansiosi;
ecco Capitano! O amato padre!
Questo braccio sotto il tuo capo!
E’ solo un sogno che sul ponte
sei caduto, gelido, morto.

Non risponde il mio Capitano, le sue labbra sono pallide e immobili,
non sente il padre il mio braccio, non ha più energia né volontà,
la nave è all’ancora sana e salva, il suo viaggio concluso, finito,
la nave vittoriosa è tornata dal viaggio tremendo, la meta è raggiunta;
esultate coste, suonate campane!
Mentre io con funebre passo
Percorro il ponte dove giace il mio Capitano,
caduto, gelido, morto.

“O Capitano! Mio capitano! ” i versi resi celebri dal film “Carpe Diem”, composti da Walt Whitman nel 1865 in occasione della scomparsa del Presidente Lincoln, a Genova sono dedicati al nostro Capitano.