Meditate gente… meditate…

Recitava lo slogan pubblicitario di  qualche decennio fa di Renzo Arbore a proposito delle proprietà della birra.

Ritornello che si può ben adattare alle vicende della rinfrescante bevanda all’ombra della Lanterna. Se è vero che Magone nel 218 a. C. aveva raso al suolo la città a causa del sapore acetato del suo vino, altrettanto vero è che la birra ha avuto sempre, come testimoniato dal ritrovamento di Pombia, un ruolo rilevante nella cultura degli antichi Liguri.

In epoca moderna poi  Genova è stata una delle principali città in cui, sotto gli influssi asburgici, attecchì il consumo del dissetante fermentato.

Nel 1882 infatti, in pieno regno sabaudo in seguito alla triplice alleanza di cui facevano parte piemontesi, prussiani e austriaci, numerosi funzionari stranieri presero residenza nel centro cittadino.

“Operai all’ingresso della Fabbrica della birra di Busalla”.

Fu così che a Genova fiorirono decine di birrerie spesso con tanto di oste bavarese verace e bionde e allegre “kellerine” a servire schiumanti  boccali. Molti di questi locali erano concentrati nel salotto della città, nell’area che dalla Prefettura degradava lungo Salita S. Caterina e la galleria Mazzini. Fra questi spiccavano in particolare, la Gambrinus e la Lowenbrau che si trovavano in via S. Sebastiano.

“Mia figlia in versione kellerina natalizia”.

Il proprietario di quest’ultima si chiamava Monsch ed era un bavarese purosangue, da lui andavano a ristorarsi sia i funzionari asburgici che quelli italiani nell’encomiabile tentativo di trovare qualche argomento in comune oltre all’alleanza militare. Svolazzava per il locale la celebre Nelly, una prosperosa cameriera che colpirà la fantasia poetica di Camillo Sbarbaro che tra una sosta in un bordello e una in birreria ebbe modo di ricordare nella sua raccolta di versi “Fuochi fatui” anche la bella kellerina.

La Gambrinus arredata con stile tirolese era apprezzata trasversalmente dai ricchi notabili genovesi come dai semplici operai e portuali che amavano risalire i caruggi dal porto per andarsi a rinfrescare il palato con un’invitante birra. Genova in quegli anni godeva di un favorevole situazione economica, dopo l’annessione al Regno d’Italia e la crisi del ’49, culminata con la vergognosa repressione del La Marmora, la politica dei Savoia fu quella di richiamare verso la città capitali foresti  di una certa rilevanza. Allo stesso tempo l’aumento dei flussi migratori verso Nord e Sud America costituì uno straordinario impulso per il porto che conobbe, in quegli anni, un periodo di considerevole sviluppo. Anche la vita mondana della città era in grande fermento: il teatro Carlo Felice richiamava attori e attrici di fama internazionale; Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio trascorrevano notti pantagrueliche nei ristoranti della galleria, frequentati anche da Lina Cavalieri, attrice ritenuta da molti ammiratori la “donna più bella del mondo”. Le feste e i luculliani banchetti organizzati in suo onore fornirono copioso materiale per i giornali dell’epoca.

“Il logo della birra Cervisia con S. Giorgio che uccide il drago”.

 Alla stessa maniera nel ristorante – birreria di Pippo Luce, fra luci e paillettes,  s’innalzavano continui brindisi nei confronti delle belle attrici di passaggio. Il giornalista Anton Giulio Barrili  fondatore de “il Caffaro” e  Stefano Canzio presidente del Consorzio Autonomo del Porto, entrambi ex garibaldini, discutevano di politica con una birra così come faranno poi negli anni a venire grandi poeti liguri come Eugenio Montale e Camillo Sbarbaro.

A metà di Galleria Mazzini si trovava la birreria Zolezi  che offriva musica di classe dal vivo con la particolare proposta, un unicum in tutta Europa, di un apprezzato quartetto composto solo di violoncelliste viennesi.

L’attrazione al di là della musica era il fascino delle bellezze teutoniche molto gradito agli impiegati della Questura (all’epoca presso Palazzo Ducale). Carabinieri e poliziotti in libera uscita si accalcavano per vedere le prosperose bionde ragazze e le scazzottate, complice qualche birra di troppo, erano all’ordine del giorno.

Un’altra famosa  birreria si trovava in Piazza Corvetto gestita dal figlio di un deputato prussiano coadiuvato da un  singolare personaggio, un austero cameriere vestito in puro stile asburgico. Altre birrerie si trovavano in largo Zecca, vicino alla stazione Principe e in via Caffaro.

Il fascino e le mescite di quel periodo sono ormai un lontano e sbiadito ricordo, tuttavia esistono ancora in città dei  locali dove si può parzialmente rivivere i bei tempi andati, in particolare vanno citati:

“L’insegna della birreria bavarese”.

 L’HofBrauhaus in via Boccardo dove ci si può immergere nella più calorosa atmosfera bavarese accompagnando la birra che si predilige ad un’ottima cucina che abbina ai classici wurstel e stinchi, piatti ricercati e raffinati.

Non da meno, in un’atmosfera invece british,  sono il Britannia di Vico Casana dove, con un po’ di fantasia, si ha l’impressione di essere dentro ad un pub londinese, oppure nel cuore di Dublino, all’Irish pub di Vico della Croce Bianca in quello che, un tempo, era il quartiere del ghetto ebraico.

Lo stesso dicasi alla Foce per il Tartan pub di chiara impronta scottish solo che, anziché ascoltare le discussioni fra i supporters cattolici dei Celtics e quelli protestanti dei Rangers  di Glasgow, si assiste ai coloriti sfottò fra tifosi genoani e sampdoriani.

Un posto particolare però, nella storia della birra a Genova, spetta al Birrificio di Busalla che da tempo si è conquistato una preziosa nicchia di mercato per la superiore qualità del suo prodotto.

“Foto d’epoca dello stabilimento della Cervisia”.

La Fabbrica, nata nel 1905, si è guadagnata l’inserimento nel prestigioso elenco delle imprese Storiche, unico esempio in Liguria nel campo della produzione di birra artigianale.

“Maltus Faber raccoglie l’eredità, anche nel logo, della birra Cervisia”.

Altrettanta importanza nella memoria imprenditoriale della Superba riveste il marchio Maltus Faber che ha infatti sede all’interno dello stabilimento di Via Fegino n. 3, sito storico per la birra genovese in quanto, all’inizio del ‘900, ospitava il complesso della Fabbrica di Birra Cervisia.

L’antico marchio venne acquisito dal gruppo Dreher che vi istituì anche una rinomata scuola per Mastri Birrai. Successivamente l’etichetta venne ceduta alla Heineken che, in breve tempo, ne cessò la produzione.

Scura, bionda o rossa,

come l’onda a Genova,

l’importante è che la birra sia mossa.

Prosit!

Storia del pandolce…

… dall’Egitto, alla Grecia… fino alla Persia… dalla tavola dell’ammiraglio… fino a quella di San Biagio…
Non se ne abbiano a male gli amici milanesi, ma il pandolce genovese ha una storia molto più antica rispetto al panettone, che si perde nella notte dei secoli… una vera e propria genesi rituale.
Dati gli ingredienti comuni, molti ne fanno risalire l’origine addirittura ai tempi dell’antico Egitto e della Grecia dove era diffuso un dolce simile a base di miele.


Sicuramente, visti i rapporti commerciali con quel Paese, i Genovesi potrebbero aver tratto ispirazione dalla Persia (basti pensare a maggiorana, “persa” in genovese) dove il suddito più giovane (in grado di camminare), all’alba di Capodanno, porgeva al Sovrano un grande pane dolce a base di canditi, miele e mele da dividere fra i suoi commensali.
In effetti anche a Genova il pandolce, chiamato anche Pan co-o zebibbo veniva portato in tavola dal più giovane della famiglia e, con gesto beneaugurante, privato del sovrastante ramoscello di alloro.
Fu l’ammiraglio Andrea Doria che, nel ‘500, indisse concorso fra i pasticceri locali, per creare un dolce degno del matrimonio del nipote con Zanobia del Carretto e del prestigio della Repubblica.
Così venne codificato il pandolce genovese nella versione alta, affiancato poi, qualche secolo più tardi, dalla moderna versione bassa.
Molti sorrideranno di questa affermazione ma, a quel tempo, tolto forse Venezia e Bisanzio odierna Istanbul, non erano molte le città in Europa sulle cui tavole si potevano gustare canditi, uvetta e frutta secca.
Secondo la tradizione il Capofamiglia affettava il panduce canticchiando una filastrocca:
“Vitta lunga con sto’ pan!
Prego a tutti tanta salute,
comme ancheu, anche duman,
affettalu chi assettae,
da mangialu in santa paxe,
co- i figgeu grandi e piccin,
co- i parenti e co- i vexin,
tutti i anni che vegnia’,
cumme spero Dio vurria’.”
Alla moglie spettava l’assaggio e poi veniva distribuita una porzione per ciascun invitato, dopo di ché, visionate le letterine dei pargoli, gli stessi, in piedi sulla sedia, recitavano la loro poesia.
Due fette però venivano accuratamente conservate a parte da offrire una, al primo viandante di passaggio, da consumarsi l’altra, il 3 febbraio festa di San Biagio, protettore della gola.
Il Pandolce genovese, a seconda del Paese in cui è consumato, ha assunto altri nomi:
dal nostrano “Pan do bambin” sanremese, al “Londra cake” o “Genoa cake” britannici, fino al “Selkirk bannock”, una versione scozzese molto apprezzata dalla Regina Vittoria.
Quanta cultura in un semplice…. Panduce..

In Copertina: il Pandolce di una super bis nonna Lorenza che non c’è più.

Storia di una tempesta, di un naufragio…

… di una rivalità secolare… la leggenda della genesi di un piatto semplice e gustoso della nostra tradizione.
Nel 1284 di ritorno dalla Meloria alcune navi genovesi, a causa di un’improvvisa tempesta, naufragarono al largo delle isole toscane.
I barili d’olio stipati nella stiva rovesciandosi inzupparono, mischiandosi con l’acqua salmastra, alcuni sacchi di farina di ceci.
L’equipaggio, in attesa dei soccorsi, per recuperare il carico mise l’anomala poltiglia ad asciugare al sole ma, affamato, decise di mangiare le strane “frittelle”.
Così è nata, cuocendola poi ovviamente al forno e non al sole, la farinata che, per schernire gli odiati rivali, i pisani, veniva chiamata “l’oro di Pisa” dato che aveva salvato loro la vita.
Da allora, secondo questa suggestiva quanto fantasiosa leggenda, la gustosa preparazione è entrata di diritto a far parte dei profumati ed essenziali piatti della tradizione culinaria popolare genovese.
In realtà preparazioni a base di farina ceci simili alla farinata sono patrimonio comune da tempo immemore di gran parte delle culture che hanno popolato il mediterraneo: dai greci ai latini fino alle versioni toscane della torta di ceci e Cecìna, nizzarda della Soca, piemontese della bella càuda, francese di Tolona della Cade e nella variante bianca di Savona.
Quest’ultima realizzata con farina di grano per sopperire alla carenza di quella di ceci sulla quale, al tempo di Andrea D’Oria, la Repubblica aveva applicato un cospicuo aumento dei dazi.
Al di là delle leggende e delle relative dispute di campanile sulla paternità la farinata appartiene – è un dato di fatto – alla Liguria ed alle zone ad essa confinanti.
Foto di Fabrizio Perelli.

Storia di un melograno…

… di una leggenda… e di una profezia..

In Piazza Campetto al Civ 2, oggi sede di un grande magazzino, si trova il Palazzo Casareto De Mari, meglio noto come del Melograno.

“Il Melograno”. Foto di Nino Nicolini.

Commissionato dalla famiglia Imperiale all’architetto Bartolomeo Bianco nel 1586 è passato nei secoli nelle mani dei Sauli prima, dei De Mari poi e, dei Casareto infine.
Al suo interno possiamo ammirare, fra le tante opere d’arte in esso custodite, un Pregadio di Bernardo Schiaffino e una statua di Ercole di Filippo Parodi, oltre ad affreschi, purtroppo in gran parte andati perduti, di Domenico Piola.
Intorno all’etimo di questa dimora patrizia sono sorte nei secoli diverse leggende:
La prima narra l’episodio secondo il quale un De Mari avrebbe vinto il palazzo al gioco puntando tutti i suoi averi proprio sulla carta del melograno.
La seconda invece, più intrigante, racconta di un seme di melograno trasportato, quattrocento anni fa, da un vento di tramontana e germogliato sul timpano del portale del palazzo.
La pianta ha superato indenne guerre, rivolte e bombardamenti…
e, ancora oggi, fiorisce e gode di ottima salute.
Per noi Genovesi è intoccabile anche perché la sua sopravvivenza è legata ad una profezia che ha vaticinato, con la scomparsa del melograno, la fine della Superba.

Storia di un monopolio…

… di un Vescovo pignolo… di sciamadde… insomma di fugassa…
La focaccia viene citata per la prima volta intorno all’anno mille anche se, probabilmente, già da tempo era un alimento diffuso della cucina genovese.
“A pestun cua sa”, così si chiamava il composto farinaceo mischiato con il “sa pesta”, nel corso dei secoli sempre più divenne il cibo dei genovesi, al punto che persino i matrimoni venivano scanditi in chiesa dal crocchiare della focaccia, offerta dagli sposi.
Nel ‘500 fu il Vescovo Matteo Rivarola, indispettito dal fatto che distraesse l’attenzione dei fedeli, a proibirla, pena la scomunica.
Nel frattempo Genova prima e il Banco di San Giorgio poi, avevano acquisito il monopolio del sale.

"Antica Sciamadda".
“Antica Sciamadda in Via San Giorgio”.

I grandi magazzini del porto franco non bastavano più a contenere l’indispensabile minerale così iniziarono a proliferare le Sciamadde (“fiammate”) dove, appunto, oltre a preparare farinate e torte salate, si poteva cuocere e vendere anche la fugassa (sale sul fuoco).

Storia della “Gattafura” (la torta pasqualina) …

 
Con questo curioso titolo erano note secoli fa, le torte miste di verdure e formaggio.
Fra queste anche la celeberrima pasqualina così identificata solo a partire dalla seconda metà del ‘800 con il diffondersi delle Cuciniere.
Il primo che ne fece menzione fu nel Quattrocento nel suo “Libro de arte coquinaria” il famoso Maestro Martino de Rubeis, padre della cucina rinascimentale.
 
Con la parola gattafure infatti, citata poi nel ‘500 sia da Bartolomeo Scappi, cuoco di Papa Pio V nel suo trattato, che da Ortensio Lando nel suo catalogo, si indicavano e raggruppavano tutte le torte di verdure di origine ligure già nel XV sec.
 
Annotava così il Lando nel suo “Catalogo delli inventori delle cose che si mangiano et si bevano” del 1550:
 
“a Genova si fanno certe torte dette gattafure perché le gatte volentieri le furano e vaghe ne sono, ma chi è sì svogliato che non le furasse volentieri? A me piacquero più che all’orso il miele”.
 
Evidentemente ai gatti doveva essere piaciuta molto questa torta erbacea a base di bietole, formaggio, uova e… prescinseua, ma anche l’umanista doveva esserne rimasto assai soddisfatto per immedesimarsi nella golosità dell’urside
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Torte Pasqualine appena sfornate

Questa torta salata veniva preparata per la festa pasquale rivestita, secondo la tradizione, di ben trentatré strati (pieghe) di sfoglia, in omaggio agli anni di Cristo.


Ne esistevano almeno un paio di varianti ma l’originale, anche se in molti pensano il contrario, non prevedeva i carciofi, bensì le bietole perché più economiche e facilmente reperibili presso le besagnine, rispetto alle più costose, perché fuori stagione, articiocche (carciofi).
Ancora oggi, nelle ormai rare Sciamadde, cosi come sulle tavole della festa, non può mancare, per resuscitare gli appetiti, la Regina delle torte salate.

Storia del “rovigliolo” (raviolo)…

 … del Paese della Cuccagna… di un poeta goliardico e… di un nostalgico musicista…

Già nel 1100 una pasta che conteneva un “roviglio” (ripieno) era patrimonio comune sulle tavole dei genovesi. Notizie certe sulla sua genesi, basate su fonti storiche, non ne risultano; molte località del Genovesato, di conseguenza, ne rivendicano la paternità.

Una delle versioni più diffuse è quella che ne farebbe risalire l’origine alla famiglia “Ravioli” di Gavi Ligure che, per prima, avrebbe proposto il succulento piatto. Nel ‘200, complice le fiere e i mercati del Piacentino e dell’Astigiano, il raviolo si sarebbe poi diffuso oltre l’Appennino, nel parmense con il nome di “tortello” e in Piemonte con quello di “agnolotto”.

Le prime tracce in ambito letterario risalgono al ‘300  quando  nel suo celeberrimo “Decamerone” il Boccaccio lo cita fra le leccornie nella novella sul Paese della Cuccagna in cui il protagonista Calandrino racconta: “… stava genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di Capponi e rotolano da una montagna di formaggio grattuggiato”. Raviolo in brodo certo, o cotto nel vino ma per me, come per il “Signore del violino”, la versione più appetitosa risulta essere quella condita con il “tuccu” (ragù alla genovese). In una lettera del 1839 di risposta ad un amico, infatti, Paganini ormai prossimo alla morte lontano dalla sua Genova, descrive minuziosamente la ricetta per preparare i ravioli e del “tuccu” con il quale si raccomanda di condirli.

Ecco perché il Raviolo è musica inarrivabile per il nostro palato!

In copertina: ravioli di una nonna di Murta.

Storia di una piantina regale…

… di una salsa… panacea di tutti i mali … di un
condimento ineguagliabile…
Alcune fonti storiche fanno risalire al “Moretum”, descritto da Virgilio, come composto antenato del pesto genovese.
Altre invece, più plausibili, raccontano di parentele con “l’agliata”, salsa prodotta un po’ in tutta la regione, utilizzata dai naviganti in gran quantità per le proprietà taumaturgiche contro infezioni e malattie, frequenti nei lunghi viaggi via mare.
Addirittura, secondo alcuni storici, il basilico (trad: dal greco erba del re), sarebbe giunto a Genova solo nel 1362 importato dal mercante, Leonardo Montaldo.
Il futuro Doge infatti lo avrebbe preso in prestito, intuendone le proprietà organolettiche, dai greci di Bisanzio che lo utilizzavano, proprio come i genovesi con i gerani, come pianta ornamentale sui balconi.
Il pesto, come lo gustiamo noi oggi, ha invece una storia inaspettatamente recente;
il primo che ne fa menzione scritta è Giambattista Ratto che, ad inizio ‘800 nella sua “Cuciniera genovese” snocciola la ricetta includendo, incredibile a dirsi, come formaggio, al posto di pecorino e parmigiano, il Gouda olandese!
Fu Emanuele Rossi nella “Vera Cuciniera genovese”, qualche anno più tardi a presentarne altre varianti e introducendo grana generico e pecorino italiano.
Nel 1910 Emerico Romano Calvetti propone una sintesi delle due precedenti ricette in cui, comunque, aglio e formaggio prevalgono sul basilico e, per fortuna, sparisce il formaggio dei tulipani.

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“Il mortaio e gli ingredienti per il pesto”.


Il pesto è poi diventato patrimonio dei primi piatti genovesi, ognuno con i propri segreti e varianti, spesso aggiustato con fagiolini, patate e fiori di zucca.
In tempo di magra si condivano paste “avvantaggiate”, cioè ottenute mischiando farina bianca e integrale, nelle zone montane, anche di castagne.
Gli ingredienti come tutti sanno sono: basilico di Prà, olio e v della Riviera di Levante 0 comunque ligure, sale grosso di Cervia, pinoli di Pisa, aglio di Vessalico, parmigiano reggiano e pecorino sardo del Gavoi.
Questa è la formula rigidamente codificata dall’omonimo Consorzio.
Il pesto condisce e valorizza qualsiasi prodotto a cui venga abbinato ma, secondo il mio modesto parere, nulla soddisfa di più che l’accoppiamento con i “Mandilli de saea” (fazzoletti di seta), delle sottilissime lasagne, ottenute con un semplice impasto di acqua, farina e un goccio di vino bianco, prive di uova…
Dalla Regina Elisabetta, a Carlo d’Inghilterra, a Frank Sinatra solo per citare i primi nomi che mi sovvengono… nutrito è l’elenco dei suoi devoti estimatori…
Ecco perché il pesto è il condimento dei Re….