“Qui la bellezza nasce sul posto”…

Albert Camus s’infatuò di Genova perché, grande ammiratore di Nietzsche, decise di seguirne le orme e ripercorrerne le tappe in Italia. Come non sostare quindi nella città dove il filosofo tedesco, ascoltando la “Carmen”di Bizet aveva maturato il suo distacco da Richard Wagner e, soprattutto, aveva composto il suo capolavoro “Così parlò Zarathustra”?

Tra l’8 e il 15 settembre del 1937 per la prima volta il celebre letterato franco algerino approdò a Genova e, in una delle sue prime raccolte intitolata ”Nozze”, annotò:

”Ma è facile perdere la felicità perché è sempre immeritata. Così per l’Italia. E la sua grazia spesso improvvisa, non sempre è immediata. Perché fin da principio essa prodiga poesia per nascondere meglio la sua verità. I suoi primi sortilegi sono riti di oblio: gli oleandri di Monaco, Genova piena di fiori e di odori di pesce e le sere turchine sulla costa ligure. Poi Pisa finalmente e con lei un’Italia che ha perso il fascino volgare della riviera”.

Quel “volgare” di primo acchito sprezzante, è da intendersi invece nel significato di “verace”, “primitivo”, “spontaneo”.

Lo scrittore, futuro premio Nobel per la Letteratura nel 1957, tornerà  dopo la guerra nel nostro Paese per un ciclo di conferenze programmato a Torino, Milano, Roma e, nell’inverno del 1954, proprio a Genova.

Di quel soggiorno Camus nei suoi taccuini annotava:

”Lunga passeggiata per Genova. Città affascinante e assai simile a quella che ricordavo. I monumenti sontuosi esplodono da uno stretto busto di viuzze brulicanti di vita. Qui la bellezza nasce sul posto, irradia nella vita di ogni giorno. Ad un angolo di strada un cantante improvvisa sugli scandali d’attualità. E’ il giornale cantato. Piccolo chiostro di san Matteo. Il vento schiaccia la pioggia a raffiche sulle grandi foglie del nespolo. Un breve attimo di felicità. Ora bisogna cambiar vita. Sera; partenza per Milano sotto la pioggia”.

“La Morte Felice”. Romanzo d’esordio di Camus pubblicato postumo.

Nel suo primo romanzo, pubblicato postumo, “La morte felice” il poeta ci regala una descrizione che è un acquerello della Superba, al tempo del suo primo viaggio, degli anni Trenta:

“Decise di raggiungere Algeri da Genova. Sul treno che lo portava a Genova attraverso l’Italia del nord ascoltava le mille voci che dentro di lui cantavano verso la felicità. Sentiva ancora la sua debolezza e la sua febbre. Subito man mano che il sole si avanzava nel giorno e si avvicinava al mare, sotto il gran cielo fiammeggiante e ansante che riversava fiumi d’aria e di luce sugli olivi frementi, l’esaltazione che agitava il mondo si univa all’entusiasmo del suo cuore. Il rumore del treno, il cicaleggio puerile che lo circondava nello scompartimento stipato. tutto ciò che rideva e cantava intorno a lui ritmava e accompagnava una specie di danza interiore che lo portò per ore immobile ai confini del mondo e finalmente lo scaricò giubilante e interdetto in una Genova assordante, che scoppiava di salute davanti al suo golfo e al suo cielo in cui fino a sera lottavano il desiderio e la pigrizia. Aveva sete, fame di amare, di godere e di baciare. Gli dei che gli bruciavano dentro lo gettarono in mare, in un angolo del porto dove assaggiò un miscuglio di sale e di catrame e perse l’orientamento a furia di nuotare. Si smarrì poi nelle strade strette e piene di odori della città vecchia, lasciò che i colori urlassero per lui, che il cielo si consumasse sopra alle case sotto il suo peso di sole e che i gatti si riposassero per lui nell’immondizia e nell’afa. Andò sulla strada che domina Genova e lasciò salire verso di lui in una lunga lievitazione, tutto il mare carico di profumi e di luci.

Chiudendo gli occhi stringeva la pietra calda su cui stava seduto e poi li riapriva su questa città in cui l’eccesso di vita urlava in un esaltante cattivo gusto. Nei giorni seguenti gli piaceva anche sedersi sulla scalinata che scende al porto e a mezzogiorno guardava passare sulla banchina le ragazze di ritorno dall’ufficio. Coi sandali ai piedi, i seni liberi nei vestiti leggeri e sgargianti, lasciavano a Mersault (il protagonista del romanzo) la lingua arida e il cuore in subbuglio per un desiderio in cui ritrovava al tempo stesso libertà e giustificazione. Di sera incontrava per strada le stesse donne e le seguiva, con nelle reni la bestia calda del desiderio che si muoveva con selvaggia dolcezza. Per due giorni bruciò in questa inumana esaltazione. Il terzo giorno lasciò Genova per Algeri”.

“Albert Camus”.

Di sicuro aveva valutato, in maniera meno romantica ed elegante rispetto a Dickens, la bellezza delle dame genovesi.

D’altra parte come poteva il filosofo con un passato da portiere di calcio nella squadra del Racing universitario algerino, esperienza dalla quale aveva tratto l’arguta similitudine sportiva – “Ho capito subito che la palla non arriva mai da dove te l’aspetti. Mi è servito più tardi nella vita, soprattutto a Parigi, dove non ci si può fidare di nessuno”- non apprezzare quel sano individualismo genovese tanto ammirato dall’illustre predecessore tedesco?

“Questa intera contrada trabocca, nel suo crescere, di questo magnifico, insaziabile egoismo…” (IV libro della Gaia Scienza) aveva scritto Nietzsche nel 1882.

 

“Lo scrittore nei panni del portiere ai tempi in cui militava nella selezione universitaria del Racing di Algeri”.

Camus scrisse nel 1947 “La Peste”, forse la sua opera più celebre, ma Genova da tempo lo aveva già contagiato.

 

“… Non esiste un altro luogo nel mondo…”

Il grand tour nella nostra penisola era di gran moda presso i nobili anglosassoni a cavallo fra ‘600 e ‘700, un viaggio in Italia era tappa obbligata nel percorso formativo culturale di ogni patrizio che si rispetti.

Nel suo “Diario” il viaggiatore britannico John Evelyn così annotava a proposito della Superba:

“Villa Rosazza Di Negro, detta dello Scoglietto”.
“Cartolina dei giardini alle spalle di Villa Rosazza”.
“Una delle 139 stampe che costituiscono l’opera in due volumi I Palazzi di Genova di Rubens. Pubblicato per la prima volta ad Anversa nel 1622”.

“La città è costruita all’estremità di una collina, il cui dislivello è molto ripido, alto e roccioso: così, se la si guarda dalla Lanterna o dal Molo con lo sguardo rivolto verso le colline circostanti, la città ha la forma di un anfiteatro. Le strade sono così strette e i palazzi così alti uno sopra l’altro, come i posti di un nostro teatro: ma a causa del meraviglioso materiale con cui sono costruiti, per la bellezza e la loro posizione, non si è mai vista una scenografia artificiale altrettanto splendida; non esiste sicuramente un altro luogo nel mondo, ricco di Palazzi così ben disegnati e posizionati; si può facilmente concludere che quel grande volume composto di grandi fogli, che il grande Virtuoso e Pittore Paolo Rubens, ha pubblicato, contiene solamente (i prospetti dei palazzi) una strada e di due o tre chiese. Il primo palazzo degno di nota che andammo a visitare fu quello di Geronimo di Negro, e per raggiungerlo dovemmo attraversare il porto con una barca. Questo Palazzo Di Negro (oggi Villa Rosazza) è ricco di quadri più preziosi e di altre straordinarie collezioni e arredamenti. Ma non v’è nulla che mi deliziasse più del parco, un giardino collinoso, con un boschetto di alberi maestosi, popolato di pecore, pastori e animali selvatici, intagliati nella pietra grigia, da apparire così reali in mezzo alle fontane, rocce e a un laghetto, che gettando il tuo sguardo in una direzione potresti immaginarti immerso in una campagna selvaggia e silenziosa, ai due lati nel cuore di una grande città e alle spalle nel mezzo del mare. E ciò che è più ammirevole è che tutto questo si trova all’interno di un terreno ampio appena un acro, il più delizioso e stupefacente del mondo intero.

In questa casa notai per la prima volta i pavimenti di stucco rosso, che sono fatti in maniera così resistente e così ben lucidati, che talvolta uno li potrebbe scambiare per pezzi di porfido…

“Statua del Nettuno, opera di Taddeo Carlone”.
“Uno degli sfarzosi arazzi fiamminghi del Palazzo del Principe che illustra le storie di Alessandro Magno”.

Vi sono in questa città innumerevoli altri palazzi di particolare interesse, poiché i nobili sono incredibilmente ricchi, benché come i loro vicini Olandesi, non possiedono proprietà molto grandi su cui estendersi; perciò collezionano quadri e tappezzerie, case di marmo e ricchi mobili.

Una delle citazioni di maggior rilievo di tutto il viaggio riguarda la Villa del Principe Doria, che si estende dalla scogliera fino alla cima di una collina. Il Palazzo è senza dubbio magnificamente edificato, e non meno splendidamente ammobiliato, con ampi tavoli e lettiere di argento massiccio, e altri di agata, onice, cornalina, lapislazzuli, perle, turchesi e altre pietre preziose. A questo palazzo appartengono tre giardini, il primo dei quali si affaccia meravigliosamente sul mare grazie ad una balconata di piloncini di marmo. Vi è inoltre una fontana decorata con aquile e animali marini di Nettuno ed un’altra del Tritone (del Montorsoli), più a monte, tutt’e due del più puro marmo bianco che il mio occhio abbia mai osservato. E in un lato del giardino si trova un Uccelliera come quella descritta da Sir Francis Bacon nel suo saggio “Of Gardens”, in mezzo ad alberi di circa 70 cm. di diametro, oltre a cipressi, mirti, lentischi e altri arbusti (la gabbia era lunga 130 passi, ampia 22 e alta oltre sei metri), che serve come nido e posatoio per ogni tipo di uccello, che qui può trovare aria e spazio a sufficienza sotto una protezione metallica, sostenuta da un’enorme costruzione in ferro battuto, mirabile sia per la fattura sia per il peso che deve sopportare. Gli altri due giardini sono ricchi di alberi d’aranci, limoni e melograni, fontane, grotte e statue. Tra queste spicca un Giove di colossale magnificenza (la statua in stucco raffigurante Andrea Doria in realtà nelle sembianze di Ercole, soprannominata il “Gigante”, fu demolita negli anni ’30 del secolo scorso), ai cui piedi si trova il sepolcro di un cane beneamato (il Gran Roldano), per il cui mantenimento la famiglia riceveva dal re di Spagna e per tutta la durata della vita del fedele animale, 500 corone all’anno”.

“La statua di Giove, detta del Gigante alla cui base era sepolto il Gran Roldano”.

Il viaggiatore inglese era rimasto quindi incantato dal paesaggio, dai marmi, dai palazzi sopraelevati, dai giardini, dalle statue e da tutte le meraviglie possibili e immaginabili ma in una lettera indirizzata ad un suo amico, il Dottor Burnet rivela: “I Genovesi sono la peggiore gente di tutta Italia poiché generalmente i più corrotti nei costumi, in quanto ricettacoli di ogni sorta di vizi”. Una rivisitazione in chiave più moderna della celebre invettiva dantesca “Ahi Genovesi uomini diversi…”.