Attratti dal clima mite e dalla varietà dei panorami l’Italia fu per i russi quasi una seconda patria: dalle montagne più impervie alle sinuose colline della Toscana, dalle Alpi con i laghi alle riviere distese sul mare. Artisti, scrittori, diplomatici, politici, rivoluzionari infatti, avidi di sole e mare, frequentavano il Mar Ligure, il Tirreno, il golfo di Napoli.
A questo intimo bisogno non si sottrasse nemmeno Nikolaj Vasil’evič Gogol ucraino di nascita ma russo di cultura. Anch’egli travolto da questo romantico sentimento di cui soffriva ogni spirito libero ansioso di visitare e conoscere la cultura, l’arte e la bellezza italiche.
Nelle lettere spedite in patria dalla città eterna, sotto forma di racconto con protagonista sé stesso, così raccontò il suo incontro con l’Italia il cui primo impatto avvenne proprio a Genova:
“Genova è magnifica, moltissime case somigliano piuttosto a palazzi, adorne di quadri dei migliori pittori italiani, però le strade sono così strette che due persone affiancate non riescono a passarci. In compenso, sono lastricate di marmo e molto pulite.”
Il protagonista si sente avvolto da una sensazione molto spirituale, dovuta al profumo molto intenso, che proviene dalle porte aperte delle chiese, l’aroma d’’incenso che emana dalle stesse: “Ricordò che già da anni non era stato in chiesa… entrò silenzioso e s’inginocchiò vicino alle splendide colonne di marmo e pregò a lungo, incosciente lui stesso dell’oggetto delle sue preghiere; pregò di essere accolto dall’Italia, che gli venisse concesso il desiderio di pregare, che l’anima sua era allegra ora e questa sua preghiera davvero era migliore”.
E ancora…
Era difficile descrivere il sentimento che lo colse alla vista della prima città italiana, la magnifica Genova. Si innalzarono su di lui i suoi campanili policromi, le chiese rigate di marmo bianco e nero e tutto il suo anfiteatro turrito che all’improvviso lo circondò da ogni parte, nella sua raddoppiata bellezza, quando il piroscafo giunse al molo. Non aveva mai visto Genova prima di allora. Quel gioco di case, chiese e palazzi dai mille colori nell’aria tersa di un cielo che brillava di un incredibile azzurro, era unico. Sceso sulla riva, si ritrovò all’improvviso nelle buie viuzze lastricate, strette e meravigliose, con in alto un’esile striscia di cielo azzurro. Lo colpì questa vicinanza tra le case, alte, enormi, l’assenza del rumore delle carrozze, le piccole piazzette triangolari e tra di loro, simili a stretti corridoi, le linee sinuose delle vie, riempite dalle botteghe degli argentieri e orafi genovesi. I pittoreschi veli di pizzo delle donne, appena mossi dal tiepido scirocco; le loro camminate decise, il fragoroso vocio nelle vie; le porte aperte delle chiese, l’odore di incenso che ne usciva, tutto ciò fece soffiare su di lui una brezza di cose lontane e passate. […] In poche parole, egli ripartì da Genova con il ricordo di una bellissima sosta: era lì che aveva ricevuto il primo bacio dell’Italia.
In Copertina: Campanili genovesi, le Vigne, Santa Maria in Passione, San Lorenzo.
“Genova è il viluppo topografico più intricato del mondo e anche una seconda visita vi aiuta poco a dipanarlo. Nelle meravigliose strade genovesi curve, tortuose, ripide, vertiginose, misteriose, il visitatore è realmente e totalmente immerso nel tradizionale bozzetto italiano”.
Così annotava Henri James nella sua raccolta di scritti di viaggio dedicati all’Italia, composti fra il 1872 e il 1909.
Henry James nel 1877 soggiornò a Genova dove prese alloggio all’Albergo Croce di Malta. Ce lo ricorda una lapide posta all’angolo tra i portici di Sottoripa e vico Morchi, ai piedi dell’omonima Torre al cui interno si trovava l’hotel che lo ospitò. Scolpiti nel marmo gli altri illustri viaggiatori che, con la loro presenza, nobilitarono la pensione: tra gli altri, Giuseppe Verdi, Stendhal, Mary Shelley, Mark Twain e, appunto, Henry James.
Lo scrittore rimase affascinato dalla singolare morfologia dei caruggi, dalla magnificenza e dagli atri misteriosi dei palazzi e dalla straordinaria vitalità delle persone che vi abitano, prosegue infatti:
“Come ho accennato, Genova è la più tortuosa e incoerente delle città; distesa qua e là sui fianchi e sulle creste dei dodici colli, è segnata da precipizi e burroni che sono irti di quegli innumerevoli palazzi per i quali, fin dalla prima volta che ci siamo stati, abbiamo udito che il luogo è famoso. Questi grandi edifici, con quelle forme variegate e un po’sbiadite, innalzano i loro enormi cornicioni ornamentali ad altezze vertiginose, dove, in un certo modo indescrivibilmente disperato e pieno di desolazione, sorpassandosi l’un l’altro, sembrano riflettere lo sfavillio e lo splendore del caldo Mediterraneo. Giù a pianterreno, nelle vie strette e senza sole, la gente si muove di un moto perpetuo, andando e venendo, oppure fermandosi sugli ingressi cavernosi o sulla soglia dei negozi bui e affollati, parlando, ridendo, chiacchierando, lamentandosi, vivendo la propria vita in quel modo fatto di conversazione che è tipicamente italiano”.
Henri James americano di nascita ma inglese di cultura si lasciò infine andare ad una profonda riflessione forse in antitesi con la sua formazione intellettuale in cui si abbandonava ad una romantica considerazione:
“Camminai per lungo tempo a caso attraverso le tortuose stradine della città, dissi a me stesso, non senza un accento di trionfo privato, che qui almeno c’era qualcosa che era pressoché impossibile modernizzare”.
Il fascino di Genova aveva fatto breccia nell’animo del romanziere.
In Copertina: Salita alla Spianata di Castelletto. Foto di Leti Gagge.
Durante il viaggio intrapreso in Italia nel 1857 Melville raccolse le sue impressioni, sotto forma di appunti, redigendo il “Diario Italiano”.
A Genova l’autore di “Moby Dick” stanziò solamente tre giorni, dall’11 aprile al 14 aprile. La sua descrizione è frettolosa, quanto il soggiorno in città per questo commette anche errori cronologici di registrazione ma la sua sinteticità è efficace e trasmette le impressioni che gli ha suscitato Genova mentre la scruta passeggiando per le strade.
Ne esce un quadro non del tutto lusinghiero dove le erte strade gli ricordano la Scozia e i palazzi tanto decantati lo deludono. In compenso il panorama dalla Lanterna ed i percorsi lungo le mura lo affascinano non poco.
Sabato: “Alle dieci preso il treno per Genova, più di cento miglia. Piacevole per qualche tempo. Attraversata una contrada piacevole. Molto popolosa e intensamente coltivata. Ci avviciniamo agli Appennini, paesaggio stupendo. Strade costruite con grande abilità e alto costo. Numerosi finché arriva il grande tunnel – lungo due miglia – Arrivato a Genova con la pioggia alle tre del pomeriggio. La valigia è caduta dalle spalle di un facchino maldestro ho avuto paura di guardare cos’era successo agli oggetti di Kate.
Sono sceso all’Hotel Feder sul lungomare. Passeggiato per la Strada Nuova. I palazzi son meno belli di quelli di Roma, Firenze e Venezia. Una caratteristica sono i dipinti di architetture invece che della realtà. Ogni sorta di elaborata architettura è rappresentata negli affreschi – Il detto di Machiavelli secondo il quale l’apparenza della virtù può essere vantaggiosa quando la realtà lo sarebbe meno – Strade come quelle di Edimburgo, soltanto più erte e aggrovigliate.
Mi sono arrampicato per una di esse per via del paesaggio – mangiato alla table d’hotel. Bella sala. L’hotel occupa un antico palazzo. A sera a spasso lungo la passeggiata presso il porto. Hotel di molti piani. La torre dell’Hotel Croce di Malta. Vista sulle colline in lontananza”
Domenica: “Fatto colazione al caffè. Cioccolata. Alla passeggiata pubblica sui bastioni. Si guarda all’ingiù. Soldati. Una brigata di uomini tutt’altro che eleganti. Alla Cattedrale. Marmi bianchi e neri in disposizione alternata. Il bassorilievo a “graticola” – bello l’interno. Torre.
Il Palazzo Ducale.Tutti in piazza. Schiere di donne. L’acconciatura genovese. Ondine e fanciulle. Semplice e grazioso. Ricetta per rendere attraente una donna senza particolari doti. Preso l’omnibus (2 soldi) fino all’estremità del porto. Il faro (alto 300 piedi). Ci son salito. Vista superba. La costa verso il sud. Un promontorio. Tutta Genova e le sue fortezze, la loro esterna solitudine. La desolazione, l’aspetto selvaggio delle valli che intercorrono sembrano fare di Genova la capitale e il campo fortificato di Satana; fortificato contro gli Arcangeli. Le nuvole che si addensano sui bastioni sembrano immaginarie. Sono andato sulla parte orientale del porto e ho cominciato il giro della terza linea di fortificazioni.
I bastioni guardano a picco sul mare aperto, arcate lanciate sugli scoscendimenti. Bei paesaggi di parti della città. Su e su. Penitenziario per galeotti. Le grate si aprono sulla vista del mare – sull’infinita libertà. ho continuato sempre il giro. Bloccato. Andato alla passeggiata pubblica. Mi sono arrampicato per un sentiero scosceso fino a una chiesetta (bella vista del mare dal portico). Di là più in alto e sono giunto ai bastioni. Magnifica veduta della valle profonda che sta dall’altra parte – di Genova e del mare. Su e su, sempre più bello, fino a che ho raggiunto la vetta. Ho visto le due vallate intorno e il crinale nel quale si congiungono per formare il sito delle fortezze più alte. grande popolosità di queste vallate. Solitudine di alcune delle fortezze più in alto. i terreni inclusi nella terza linea di fortificazione. Vallette scoscese prive di vegetazione. Polveriere solitarie. Desolato come una valletta dell’altopiano di Scozia. Disceso con grande fatica attraverso un sentiero irregolare e giunto presso il Palazzo Doria. Un greco vicino a me. Di fronte a me delle persone che ridono sguaiatamente. Passeggiata al porto. Mi sono fermato con il greco al caffè-giardino. Bel posto con fontane, archi eccetera. A letto alle otto e mezzo. Per tutto il giorno sembrava che stesse per piovere, ma ha tenuto”.
Lunedì. – Cioccolata al caffè. Antico muro della dogana. Ho visitato i palazzi. Stile differente da quelli di Roma. Grandi atrii che precedono i cortili. Ma vedi la guida. Mi hanno mostrato in gran fretta alcuni palazzi, il Palazzo Rosso in particolare. Vento forte. Presto in albergo, risultato dello sforzo di ieri.
A pranzo ho incontrato il Commissario del ” Constitution”. A letto alle otto”.
Martedì – Ho preso il treno alle sei antimeridiane diretto ad Arona sul Lago Maggiore. Ho incontrato il tenente Fauntleroy alla stazione. Piacevole viaggio attraverso un paese nuovo. Alle due del pomeriggio imbarcato ad Arona su un piccolo vapore[…]”.
All’apice del successo, lo scrittore Guy de Maupassant nell’autunno del 1889 intraprese, a bordo del suo panfilo “Bel Ami II”, il suo ultimo viaggio in Italia, una traversata che dalla Francia lo avrebbe condotto in Toscana passando dalla Liguria.
Durante la navigazione sostò a Porto Maurizio, Bordighera, Sanremo, Savona, Genova, Portofino, Rapallo e Santa Margherita.
Della visita alla Superba il ricordo fu contraddittorio: se da un lato la passeggiata, a parte l’opulenza dei palazzi, deluse il poeta, dall’altro rimase piacevolmente sorpreso e incantato dalla città vista dal mare:
“Quando si entra in queste magnifiche residenze signorili, che i discendenti dei grandi cittadini della più fiera delle repubbliche hanno dipinto di colori chiassosi, quando se ne paragona lo stile, i cortili, i giardini, i portici, le gallerie, le superbe decorazioni con l’opulenta barbarie delle belle dimore della Parigi moderna, appartenenti a milionari capaci di incassare soldi ma non di concepire e realizzare una cosa nuova e bella, si comprende che nella nostra società democratizzata, composta da ricchi finanzieri senza gusto e da parvenu privi di tradizioni la distinzione data dall’intelligenza, il senso della bellezza delle forme, quello della perfezione nelle proporzioni e nelle linee sono scomparsi”.
“Genova vista dal mare è una delle cose più belle che si possano vedere al mondo.
La città si innalza in fondo al golfo, come se uscisse dai flutti, ai piedi della montagna. Lungo le due coste che si arrotondano intorno a lei per racchiuderla, proteggerla e accarezzarla, vi sono quindici cittadine, serve e vassalle, che riflettono nell’acqua le case dai colori chiari. A sinistra della loro grande patrona ci sono Cogoleto, Arenzano, Voltri, Pra’,Pegli, Sestri Ponente, San Pier d’Arena; a destra, Sturla, Quarto, Quinto, Nervi, Bogliasco, Sori, Recco, Camogli, ultima macchia bianca sulla punta di Portofino, che chiude il golfo a sud est.
Sopra al suo immenso porto, Genova si stende sui primi mammelloni delle Alpi, che si innalzano dietro, curvi e allungati in una gigantesca muraglia. Sul molo, la torre alta e quadrata del faro, detto ‘la Lanterna’, sembra una candela smisurata”.
“Genova vista dal mare è una delle cose più belle che si possano vedere al mondo”. Dal canto loro, circa cent’anni dopo Ivano Fossati e Fabrizio De André avrebbero interpretato la stessa emozione e meraviglia componendo i versi di “Chi guarda Genova” con l’omonimo ispirato incipit del titolo “Chi guarda Genova sappia che Genova si vede solo dal mare…”.
Quando nel 1841 Alexandre Dumas (padre), all’età di 39 anni, giunse a Genova era già uomo di un certo successo.
E pensare che non aveva ancora scritto i suoi capolavori e nemmeno fatto amicizia con il Generale Giuseppe Garibaldi per il quale nutriva una profonda stima.
L’autore de “I Tre Moschettieri” e “Il Conte di Montecristo”così annotava nei suoi appunti raccolti in “Genova la Superba”:
“Genova viene, per così dire, incontro al viaggiatore … Una città che s’è data da sola il soprannome di “Superba” e che da sei o sette leghe già si scorge all’orizzonte, distesa in fondo al suo golfo con la noncurante maestà d’una regina … Quale fu la causa del lusso quasi incomprensibile di palazzi che il viaggiatore trova sparsi sulla sua strada con la stessa profusione delle villette nei dintorni di Marsiglia? Furono le leggi sumptuarie della Repubblica [di Genova] che proibivano di dar feste, di abbigliarsi di velluti e di broccati e di portar diamanti; tali leggi non si estendevano oltre le mura della Capitale e perciò il lusso di quei turbolenti ed orgogliosi repubblicani si era rifugiato in campagna.
In data 28 maggio 1860, il cinquantottenne Alexandre Dumas, da Genova – dove era giunto dodici giorni prima a bordo della sua goletta “Emma” -, annotava in una pagina di diario che poi avrebbe riportato nel volume Les garibaldiens:
“Avevo appena messo la parola fine alle mie Memorie di Garibaldi; e quando dico “fine” è chiaro che alludo solo alla prima parte. Infatti, con l’andatura che ha preso, il mio eroe promette di fornirmi materia per una lunga serie di volumi! Appena sbarcato, appresi che Garibaldi era salpato alla volta della Sicilia nella notte tra il 5 e il 6 maggio: prima di partire aveva lasciato degli appunti per me all’illustre storico Vecchi, nostro comune amico, e aveva pregato Bertani, Sacchi e Medici di darmi a voce altri particolari che non aveva avuto il tempo di dettare. Ecco perché mi trovo da dodici giorni all’Hotel de France, dove lavoro sedici ore su ventiquattro; il che, del resto, non si discosta molto dalle mie abitudini”.
Sotto le finestre dell’Hotel lei, incomparabilmente affascinante, “distesa in fondo al suo golfo con la noncurante maestà di una regina.
“Mi sono perso nel dedalo del centro storico di Genova, lungo i caruggi che sono simili ai vicoli della mia Istanbul più segreta, più nascosta. Ho ritrovato gli stessi odori e gli stessi profumi un po’ aspri e pungenti portati dal mare, che balugina con improvvisi lampi di luce lontano fra le case simili a quelle che si affacciano sul Bosforo o sul Corno d’Oro. Case un po’ scrostate, ma anche palazzi orgogliosi e monumentali, che hanno le stesse persiane verdi, gli stessi grandi portali, imponenti e pomposi, o gli stessi modesti portoni, i cui anditi sono invasi da muffe umide. Case e palazzi che custodiscono storie antiche e accolgono un’umanità che ha attraversato le acque del Mediterraneo, in fuga da paesi bruciati dal sole dove il terrore e la fame sono in agguato. Anche i gatti sono simili a quelli di Istanbul. Indolenti e sornioni, si lasciano accarezzare e poi scompaiono quasi per incanto, persi nelle loro cacce imperscrutabili”.
-prosegue-
“Anche i suoni che ho ascoltato nei vicoli e delle strade di Genova avevano armonie comuni a quelle di Istanbul. Erano quelle delle musiche che scendevano dalle finestre aperte fino sull’acciottolato. Erano canzoni che parlavano di amori lontani e della nostalgia per la propria terra, contrappuntate dalle parole agglutinate delle mille lingue del Mediterraneo. Poi ci sono le parole che Genova condivide da secoli con la Turchia portate e contaminate da marinai e mercanti: mandilli, i grandi fazzoletti che servono anche a coprire il capo delle donne; camallo, il facchino del porto; gabibbo, il forestiero indesiderato; giöxìa, la persiana, l’imposta, la gelosia, nata per tenere nascosta la bellezza delle donne pur permettendo loro di guardare all’esterno.
Ho ritrovato nella cucina genovese i sapori dei cibi che più amo: i minestroni di verdure, densi e spessi, come quelli che preparava mia madre; le acciughe fritte e croccanti come quelle che si gustano nei ristorantini sotto il Ponte di Galata; le torte pasqualine infarcite di verdure dell’orto che ricordano nella loro preparazione in modo impressionante il nostro börek.”
Così Orhan Pamuk, scrittore turco Premio Nobel per la Letteratura nel 2006, ha descritto la Superba paragonandola alla sua natia Istanbul, la città da sempre finestra sull’oriente, confine tra mondo occidentale e mondo arabo.
La porta attraverso la quale nel corso dei secoli cristiani e musulmani si sono a volte tesi la mano, ma più spesso sferrati un pugno.
Ospite a Genova nel maggio 2011 per una conferenza a Palazzo Ducale ha trascorso il suo tempo libero passeggiando, come un turista qualunque, per i vicoli del centro cittadino.
Autore di numerosi libri di successo quali “La Nuova Vita”, “Il Castello Bianco”, “ La Casa del Silenzio”, “Il mio nome è rosso”, “Neve”, “Istanbul” solo per citare i titoli più noti della sua feconda produzione. Si tratta di pubblicazioni, romanzi e saggi che hanno tutti come comune denominatore un amore viscerale e smisurato per la vecchia Bisanzio e la Turchia del passato.
Un mondo ricco di personaggi e suggestioni utilizzati come poetica chiave di lettura per comprendere e spiegare quella del presente e del futuro.
Genova, come Istanbul, capitale del Mediterraneo.
In Copertina: Gatti di Istanbul. Foto di Carolina Sabbatini.
L’anno in cui lo scrittore visitò per la prima volta Genova è il 1814. Arrivò nella città ligure il 31 agosto di quell’anno e venne accolto nella villa della marchesa Teresa Pallavicini tra Quinto e Nervi (oggi Via Giannelli). Stendhal fu suo ospite fino al 18 settembre. Poi partì per Livorno. In una sua lettera, datata 24 settembre 1814, il romanziere infatti raccomanda alla sorella Pauline «d’inviare cinquanta piante di pesche delle migliori specie – le piante acquistate al vivaio di Lione – alla signora marchesa Pallavicini a Genova» per ringraziarla della sua cordialità.
Appena conclusosi il soggiorno presso la marchesa, lo scrittore scrisse altre lettere, raccolte in un volume dal titolo “Journal”. In una di queste, datata 22 settembre 1814 Stendhal fa un elenco molto preciso degli “oggetti d’abbigliamento” che acquistò nella città ligure: «ho fatto fare tre gilet, quattro pantaloni e due o tre paia di scarpe. In più ho acquistato un cappello e libri (le opere complete di Fénelon e De Brosses) per 48 franchi».
Stendhal parla di Genova anche in “Journal d’un voyage en Italie et en Suisse, pendant l’année 1828”: una sorta di “quadernetto propedeutico al viaggio in Italia” di 37 pagine. Si tratta di una vera e propria guida turistica, in cui fornisce particolari descrizioni della città e consigli utili al cugino Romain Colomb che, per rimettersi da una malattia, si stava preparando ad un viaggio in Italia. Colomb partì da Parigi il 14 marzo 1828 ed aveva in tasca il “vademecum” scritto sotto il dettato di Stendhal.
Per quanto riguarda il mezzo di locomozione più efficiente per intraprendere il viaggio, lo scrittore afferma in proposito: «si potrebbe andare a Genova con la diligenza, ma è molto meglio prendere un vetturino, c’è il vantaggio di vedere da vicino quattro o cinque italiani e di conoscerli più a fondo di quanto non si farebbe con cinquanta visite… Durante il viaggio la scelta dell’albergo spetta al vetturino». Arrivati in città, Stendhal consiglia di «prendere una stanza alla pensione Svizzera, vicino ai Banchi (la borsa ha questo nome) e qui bisogna chiedere la camera 26 al quarto piano, dalla quale si vedono il porto e la montagna. Bisogna dire: “Mi dia la camera che un russo ha occupato per 22 mesi”. Costa un franco e venticinque al giorno. Di fronte c’è un ristorante dove si può mangiare scegliendo una lista».
Inoltre il libretto cita anche i monumenti e i palazzi della città ligure degni di visita, ad esempio: «Vedere la cattedrale e il famoso quadro di Giulio Romano; vedere l’Albergo dei Poveri: bassorilievo attribuito a Michelangelo; vedere il palazzo del Re; quattro collezioni di quadri in palazzi della via principale; vedere la sala del ricevimento di Palazzo Serra e la passeggiata d’Acquasola dove la sera si può ammirare uno stupendo tramonto».
Tuttavia l’opera di Stendhal che maggiormente ha contribuito ad una descrizione più precisa e dettagliata della Superba è “Mémoires d’un touriste” pubblicato nel 1838. Qui l’autore spiega, fin dalle prime pagine, il motivo di questo suo nuovo viaggio nell’Italia che ha sempre sognato: un viaggio semplicemente di “piacere” che poté permettersi dopo sette anni passati, come lui stesso dice, “ai ferri”. In questo libro, Stendhal ricorda di essere arrivato nella città ligure alle cinque del mattino a bordo di un imbarcazione: il “Sully “ e di avere espresso subito la volontà di passare un’intera giornata a visitare Genova, prima di proseguire alla volta di Marsiglia.
Stendhal ebbe modo, in quell’occasione, di soggiornare nell’albergo definito da lui ironicamente «il più grande e alla moda presente in città»: La Croce di Malta; qui infatti, come già si aspettava, non trovò nessuna comodità. Nel corso delle diciannove ore che passò a Genova, l’autore riporta di aver cambiato tre volte camera tanto che il cameriere non sapeva più in quale stanza l’illustre ospite si trovasse. Comunque, la prima impressione che lo scrittore provò ad una visita ancora “acerba” della città non fu negativa e può essere ben esemplificata dalle parole che qui riporto tradotte: «la città è mirabilmente situata ad anfiteatro sul mare. Fra la montagna, alta quattro volte Montmartre e il mare non c’è stato spazio che per tre strade orizzontali: una a otto piedi di larghezza ed è quella del grande commercio dove si trova del buon caffè; l’altra, dietro il porto, è riservata ai marinai; la terza, quella più vicina alla montagna e che porta successivamente i nomi di Via Balbi, Via Nuova e Nuovissima, è una delle più belle strade del mondo».
Stendhal rimane letteralmente affascinato dall’architettura di quest’ultima strada, «ardita, piena di vuoti e di colonne che ricorda gli scenari della Scala di Milano». Dopo aver errato un’ora da palazzo a palazzo in questa bella strada, lo scrittore francese racconta di essersi fermato per cercare un caffè; ad una prima impressione, egli esprime tutta la sua incredulità, notando che, nonostante la ricchezza della città, i caffè «sono tutti brutti e poveri». Con l’aiuto di un artigiano genovese trasformatosi in una “guida” improvvisata in quel labirinto di vicoli, Stendhal arriva di fronte alla porta di un «buio, composto di due stanze sudice. Era realmente il caffè alla moda». Lì, dopo aver consumato un caffè e latte, l’autore mette in evidenza la profonda differenza col lusso di Milano e Venezia e ricorda tristemente i versi di Montesquieu sul piacere di lasciare Genova: «mare senza pesci, donne senza bellezza, ecc…». Nonostante la cattiva impressione ricevuta, lo scrittore afferma di essere tornato più volte, durante la giornata, in quel caffè «triste» per bere «una bibita molto particolare chiamata acqua rossa, con cinque o sei ciliegie in fondo al bicchiere e il profumo delizioso dei noccioli…». Questa buonissima bevanda riuscì quantomeno a mitigare il generale giudizio negativo di Stendhal sui caffè genovesi. Durante la mattinata, come primo edificio, lo scrittore visitò il palazzo della Borsa, poi si recò verso la Chiesa di Carignano. Per arrivarvi, Stendhal ricorda come sia stato necessario, in passato, far costruire un ponte che passasse «su una fila di case per cui si cammina a trenta, quaranta piedi al di sopra dei comignoli». La particolarità della visita di Stendhal a Genova è che questi preferì visitare subito i monumenti, senza l’ausilio di libri esplicativi e di leggerne la sera la descrizione sulla guida della città per poi riandare a vedere, la mattina successiva, i monumenti più significativi.
La Chiesa di Carignano colpisce lo scrittore, egli riconosce di essere davanti ad un «capolavoro di gravità e nobiltà» ma, nonostante tutto, la giudica come un chiesa non molto affascinante anche se costruita in una posizione stupenda: «un monticello che interrompe la curva dell’anfiteatro di Genova verso il mare». Per “dovere di viaggiatore”, Stendhal salì sulla cupola di tale chiesa, nella cui navata poté ammirare il San Sebastiano di Puget di pulito e vigoroso stile. Dopo questa sua visita, lo scrittore racconta di essersi recato, per burocratici problemi di passaporto, nel palazzo sede del municipio, «una vasta costruzione di marmo bianco male adoperato», con una facciata del 1760, «epoca in cui la povera architettura era maltrattata in Italia come in Francia». Vistato il passaporto, Stendhal andò a visitare tre gallerie di quadri famosi in Via Balbi.
Qui vide dei Van Dyck magnifici il cui aspetto “dolcemente imperioso” lo affascinò moltissimo. Dopo un breve tour all’interno dei palazzi di Via Balbi, lo scrittore andò ad ammirare la colossale statua del famoso giardino Doria e di lì è salito alla Villetta, nel delizioso giardino del Marchese Di Negro che lo accolse molto volentieri nella sua dimora. Così ricorda Stendhal: «mi ha ricevuto con estrema gentilezza e mi ha fatto assaggiare dell’uva della Villetta…». Verso sera il romanziere racconta di essere entrato nella «cattedrale bianca e nera costruita in bande orizzontali». Qui vide «il quadro di Giulio Romano, di cui i genovesi ammirano soprattutto la testa rifatta a Parigi da Girondet». A testimonianza dell’opulenza delle chiese genovesi paragona o confonde S. Stefano, dove è custodito il capolavoro del Romano, con S. Lorenzo, la cattedrale.
Prima di partire, Stendhal si recò al Carlo Felice per assistere ad una rappresentazione teatrale.”. Qui, durante lo spettacolo venne a conoscenza che «Genova possiede un gabinetto letterario dove si leggono i giornali; cosa davvero sorprendente».
Il racconto della sua visita a Genova termina con una considerazione molto acuta sull’essenza dei genovesi: «credevo che i genovesi amassero soltanto il denaro; amano anche, mi dicono, la loro indipendenza. Ciò che mi ha fatto nascere questa riflessione politica, è che sono stati costretti a dare il nome di Carlo Felice al bel teatro che si sono costruiti. Hanno comperato e demolito molte case per costruire una piazza davanti al teatro e una strada che continua la bella strada dai tre nomi: Balbi, Nuova e Nuovissima».
L’opportunità per Goldoni di raggiungere Genova derivò dal fatto che la compagnia detta di “San Samuele”, con la quale il commediografo stesso stava collaborando, doveva lanciare proprio nel capoluogo ligure, nella primavera del 1736, ben sei nuovi attori e poi trasferirsi a passare l’estate lavorando a Firenze.
Nelle “Memoires” Goldoni scrive: “… Si trattava di andare a vedere due tra le più belle città d’Italia… E avevo le spese pagate (…). Il viaggio fu felice, sempre bel tempo; traversando quell’alta montagna che si chiama la Bocchetta (…). Traversato il ricchissimo e deliziosissimo villaggio di Sampierdarena, scorgemmo Genova dalla parte del mare. Che incantevole e meraviglioso spettacolo! È un anfiteatro semicircolare, che da una parte forma il vasto bacino del porto, e dall’altra si alza gradatamente sul pendio della montagna, con immense costruzioni che da lontano sembrano poste le une sopra le altre e terminano con terrazze, con balaustrate, o con giardini che fanno da tetto alle varie abitazioni. Davanti a queste file di palazzi, di dimore nobiliari e borghesi, gli uni incrostati di marmi, gli altri decorati di pitture, si vedono i due moli che formano l’imboccatura del porto; opera degna dei romani, perché i genovesi, nonostante la violenza e la profondità del mare, vinsero la natura che si opponeva al loro stabilimento. Scendendo dalla parte della Lanterna per raggiungere la porta di San Tommaso vedemmo l’immenso Palazzo Doria, dove tre principi sovrani furono ospitati contemporaneamente; poi andammo alla locanda di Santa Marta, aspettando l’alloggio che ci era destinato”.
A questa descrizione della Genova geografica di allora, Goldoni fa seguire una parentesi che non si può trascurare, almeno nella parte sostanziale, relativa alla genesi di un gioco ancora oggi molto diffuso:
”che in Italia è chiamata lotto di Genova, e a Parigi la lotteria reale di Francia, non era ancora stata introdotta a Venezia. C’erano però dei ricevitori clandestini che accettavano giuocate per Genova e io avevo in tasca una ricevuta per una giuocata che avevo fatto a Venezia. Questa lotteria è stata inventata a Genova, la prima idea fu fornita dal caso. I genovesi tirano a sorte due volte l’anno i cinque senatori che devono sostituire gli uscenti. A Genova si conoscono tutti i nomi che sono nell’urna e che possono essere tirati fuori: i cittadini cominciarono a dire tra loro: “Scommetto che nella prossima estrazione uscirà il tale”; e un altro diceva: “Io scommetto per il talaltro”; e la scommessa era pari (…). Oggi questa lotteria di Genova è diventata pressoché universale (…). È una bella rendita per il governo, un’occupazione per gli sfaccendati, e una speranza per i disgraziati. Quanto a me, questa volta mi parve piacevolissima, ci guadagnai un ambo di cento pistole che mi fece assai contento”. Le “cento pistole” vinte da Goldoni vanno intese in senso numismatico e tradotte in “cento scudi” del suo tempo, naturalmente d’oro e quindi di valore significativo.
Ma a Genova la vita del commediografo cambiò davvero. Prosegue infatti nelle “Memoires”:
“A Genova ebbi una fortuna assai più considerevole, e che fece l’incanto della mia vita: sposai una giovane savia, garbata, graziosa, che mi compensò dei tanti brutti scherzi fattimi dalle donne, e che mi riconciliò con il bel sesso. Sì, caro lettore, mi sono sposato, ed ecco come. Il direttore ed io avevamo alloggio in una casa attigua al teatro. Avevo visto alle finestre dirimpetto alle mie una giovane che mi pareva bellina e avevo voglia di conoscerla. Un giorno che era sola la salutai teneramente; lei mi fece una riverenza e scomparve subito, né più si lasciò vedere. Eccomi punto dalla curiosità e nell’amor proprio cerco di sapere chi sta di casa dirimpetto al mio alloggio: è il signor Connio, notaio del collegio di Genova, uno dei quattro deputati al Banco di San Giorgio (…)”. Goldoni cerca di sapere che tipo è il suo futuro suocero. Va a cercarlo al Banco di San Giorgio e lo trova… occupatissimo. Fa la coda e finalmente riesce a parlargli. L’accoglienza di Conio è molto cordiale, al punto che lo invita a uscire con lui e gli propone di andare insieme a prendere un caffè. Appreso che Goldoni si occupa di teatro, gli chiede che parti sostiene recitando e, naturalmente, viene così corretto: “Gli dissi chi ero e che cosa facevo; lui si scusò, gli piaceva il teatro, ci andava spesso, aveva visto i miei lavori, era felice di aver fatto la mia conoscenza, e così io di aver fatto la sua.
Eccoci amici; lui veniva da me, io andavo da lui; vedevo la signorina Connio, ogni giorno di più mi pareva piena di grazie e di virtù. In capo a un mese domandai al Connio la mano di sua figlia”. Non ci furono difficoltà. Anzi il Connio stesso dichiarò che non temeva un rifiuto da parte della ragazza e si disse favorevole alle nozze. Però chiese tempo e, ottenutolo, cercò informazioni sul conto del Goldoni, chiedendole per iscritto soddisfazione senza che fosse seguita da un dispiacere?
La prima notte di matrimonio ecco che mi piglia la febbre, e il vaiuolo che già avevo avuto a Rimini da ragazzo viene ad attaccarmi per la secondo volta. Pazienza! Per fortuna non era pericoloso, e non divenni più brutto di quello che già ero. La mia sposina pianse molto al mio capezzale; era la mia consolazione e tale è sempre stata. Finalmente partimmo, la mia sposa ed io, per Venezia ai primi di settembre. Cielo! Quante lacrime sparse, che crudele separazione per mia moglie! Doveva lasciare di colpo padre, madre, fratelli, sorelle, zii e zie…Ma se ne andava con suo marito”. Si potrebbero chiudere qui la “genovesità” di Carlo Goldoni, ma Genova presenzia in altre citazioni nei suoi “Memoires”. Ad esempio la “parte seconda” dell’opera finisce proprio con un ritorno dei coniugi Goldoni nel capoluogo ligure, perché lo preferirono a Torino quale ultima tappa italiana di un viaggio in Francia.
Correva l’anno 1762 e Carlo ne aveva ormai cinquantacinque. Così lui descrive e commenta la partenza da Genova: “Passammo otto giorni allegrissimi nella patria di mia moglie, ma le lacrime e i singhiozzi non finivan più al momento della partenza; la separazione era tanto più dolorosa in quanto i parenti disperavano di rivederci. Promettevo di ritornare in capo a due anni; non ci credevano. Finalmente, tra addii, abbracci, pianti e grida ci imbarcammo sulla feluca del corriere di Francia, e facemmo vela per Antibes, costeggiando quella che gli italiani chiamano riviera di Genova”.
Giuseppe Verdi scelse Genova non solo per il clima, il mare o la bellezza in generale della città, ma soprattutto per la riservatezza dei suoi abitanti che, pur ammirandolo come venerabile Maestro, non furono mai invadenti della sua sfera privata.
I primi tempi, durante il soggiorno genovese, prendeva alloggio all’Hotel Croce di Malta, nella zona di Caricamento.
La Croce di Malta, il principale albergo dell’epoca, si trovava a Caricamento, in Vico dei Morchi: viene ricordato così nelle parole di Henry James, uno dei suoi illustri ospiti: “un palazzo gigantesco ai limiti del porto formicolante e non troppo pulito, un edificio immenso, solo il piano terra avrebbe contenuto dodici caravanserragli americani”.
Nel 1859, in una delle sue frequenti passeggiate con la moglie Giuseppina Strepponi, si spinse fino al Mandraccio, zona del porto antico, dove fece amicizia con l’ing. Giuseppe De Amicis, cugino del più celebre Edmondo, l’autore di “Cuore”, al quale confidò il suo desiderio di procurarsi una dimora stabile in città.
Cosa che, finalmente, avvenne nel 1866 quando il compositore si trasferì in affitto in Via San Giacomo in Carignano.
Insieme al noto direttore d’orchestra, il ravennate Angelo Mariani e grazie all’amicizia con la Marchesa Sauli Pallavicini, Verdi era riuscito ad esaudire il suo sogno di prendere casa nella Superba.
Andò ad abitare al piano nobile di Villa Sauli in Carignano mentre Mariani si sistemò nell’ammezzato. Divisero l’onere dell’affitto: 400 lire per Mariani e 3000 per Verdi.
In una lettera, infatti, indirizzata al conte Oprandino Arrivabene, datata 16 marzo 1867, così scriveva: “Ricevo ora la tua lettera e ti ringrazio. Parto per S. Agata, ma ritornerò qui per allestire un appartamento che non ho comprato ma affittato in Carignano, Palazzo Sauli Pallavicino. L’appartamento è magnifico e la vista stupenda e conto passarvi una cinquantina d’inverni”.
Da un’altra missiva datata 26 novembre 1874, diretta sempre allo stesso conte, si deduce che il Maestro in tale data aveva già lasciato l’appartamento di Villa Sauli in Carignano: “non so se tu sappia, che io non sto più in Carignano, ma nel Palazzo del Principe Doria, per cui manda in avvenire a questo indirizzo la tue lettere”.
Inizialmente occupò l’ammezzato in alto, ma nel 1877 i coniugi Verdi scesero ad occupare il piano nobile della principesca dimora.
Il musicista usciva di casa per fare i suoi acquisti quotidiani. Non mancano gli aneddoti in proposito. Un giorno si recò a comprare dei pesci in “Chiappa”, il vivace mercato del pesce che era situato nei pressi di piazza Cavour, e si sentì dire dal pescivendolo: “Maestro, questa sera nell’Aida farò il comprimario nella parte del re”. Verdi gli rispose ironico: “Però guadagna molto di più qui che sul trono del Carlo Felice”.
Verdi fu invitato alla prima rappresentazione del Falstaff a Genova, ed egli accettò con lettera del 6 aprile 1893, specificando però che non voleva andare nel “palco reale”, perché non voleva essere considerato come ospite d’onore ma come artista fra gli artisti.
Falstaff si chiamano anche le brioche predilette, ripiene alla pasta di nocciola, che il Maestro era solito gustare presso la Pasticceria Klainguti in Campetto. Ancora oggi dietro al bancone del locale campeggia orgoglioso il suo biglietto autografo. “Cari Klainguti, grazie dei Falstaff. Buonissimi… molto migliori del mio!”
Il grande affetto che unì l’illustre compositore alla nostra città traspare anche nelle sue disposizioni testamentarie. Il testamento olografo, datato 20 maggio 1900 conteneva un allegato in cui disponeva 50000 lire ad enti genovesi, così suddivisi: 20000 agli Asili Infantili di Genova; 10000 a favore dell’Istituto dei ciechi; 10000 a favore dell’Istituto Liberti per rachitici; 10000 a favore dell’Istituto di via Fassicomo.
Nel 1914 lo scrittore polacco Joseph Conrad capitò a Genova rimanendone profondamente colpito. A tal punto da ambientarvi lui, uno dei più importanti autori legati al mare, un romanzo rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1925, intitolato “Suspense”.
Conrad infatti fra il 1878 e il 1894 aveva a lungo navigato sui velieri britannici e avuto occasione di frequentare il nostro mare e la riviera di levante. Così descrisse nel romanzo il panorama del porto della Superba.
“Un cupo bagliore porpureo arrossava le facciate marmoree dei palazzi inerpicati sulle falde delle montagne sassose i cui crudi contorni si profilavano alti e spettrali nel cielo che si andava oscurando.
Il sole invernale tramontava sul golfo di Genova. Oltre la costa a oriente il cielo era come vetro scuro… Le vele di alcune feluche alla fonda apparivano rosee e allegre, immobili nell’oscurità crescente. Tutte puntavano verso la Superba. All’interno del molo, che era lungo, e terminava con una tozza torre quadrata, l’acqua del porto si era fatta nera. Un veliero più grande volgeva la prua al disco rosso del sole”.
Il centro storico, la zona di caruggi intorno all’Annunziata e i quartieri del Molo Vecchio, dove un tempo sorgeva la Torre dei Greci, diventano protagonisti del racconto. Forse davvero il protagonista immaginando una misteriosa torre quadra nella zona di levante del porto ottocentesco, o conosceva la precedente esistenza della sorella della Lanterna o, molto più probabilmente, si riferiva al Lanternino del Mandraccio.
“A uno slargo al quale convergeva una selva fitta di vicoli si fermò e guardandosi intorno si chiese se tutti quegli imponenti palazzi erano disabitati o se invece era lo spessore dei muri ad impedire che vi trapelasse il pur minimo segno di vita; non poteva credere, infatti, che a quell’ora gli abitanti fossero tutti sprofondati nel sonno”.
Il vecchio lupo di mare proseguì il suo percorso nell’intricato dedalo medievale meravigliandosi della silenziosa magnificenza delle dimore patrizie.