Un tempo fino agli anni ’50 del ‘900, come testimoniato dai versi di Camillo Sbarbaro e dai racconti di Remo Borzini e Giancarlo Fusco, questa era una contrada affollata di rinomate case di tolleranza.
Non si sa se l’origine del nome “Carabaghe”ovvero il calarsi le braghe di popolare memoria sia dovuta alla vocazione erotica del quartiere oppure se sia legata all’etimo della vicina Salita del Prione dove, a far calare le braghe, erano invece i predoni. Secondo alcuni storici infatti il toponimo deriverebbe dal latino barbaro “Predoni Castri”, poi “Montata Castri” che stava ad indicare la pericolosità del luogo, in mano ai briganti.
Altri studiosi propendono invece per un’altra versione che nulla avrebbe a che fare con quanto sopra affermato. In cima alla salita era posta una grossa pietra, “Prion”, sulla quale il cintraco, il banditore urlava i suoi proclami alla cittadinanza.
Quasi sicuramente invece l’interpretazione corretta deriva dal cinquecentesco utilizzo di piccole catapulte, denominate “calabrage”, che servivano per lanciare, sul nemico, oltre le mura, sassi di piccole dimensioni. Gli strumenti bellici venivano quindi, data la vicinanza alla Porta, ricoverati nell’attiguo caruggio che perciò ne assunse il nome, mutato nel tempo, in “carabaghe”.
Al di là dei dibattiti sulla genesi della denominazione pochi sanno che in Vico dei Castagna, in fondo a Vico delle Carabaghe, il cantautore Gino Paoli trasse ispirazione, durante un suo incontro passionale, dalle pareti viole di un bordello, per scrivere la celeberrima “Cielo in una stanza” portata in auge da Mina.
Così, dall’amor profano e carnale, è nato quello romantico e poetico di “quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti, ma alberi, alberi infiniti…”
Fin da piccolo, essendo la madre genovese, Paul Valéry prese a frequentare Genova in ripetuti soggiorni. La dimora della zia Vittoria Cabella, sita dietro il Coro di S. Luca, divenne punto di partenza per le sue escursioni nel centro storico:« Genova è ricca di monumenti e trascorro i giorni a visitarli. La cattedrale è bella, gotico-moresca con statue del tempo antico, iscrizioni che tento di tradurre con quel poco di latino che è rimasto in me. Ho visitato molti palazzi pieni di quadri. Tra gli altri, il palazzo del celebre Andrea Doria, ammiraglio delle Galere, alleato a volte della Francia, a volte dell’Austria. Ho visto una sala del quattordicesimo secolo con vecchi quadri dell’epica. Mi sono seduto sulla poltrona dove si sono seduti prima Carlo V e in seguito Napoleone», scriveva il giovane in una lettera indirizzata ad un amico nel 1887.
In seguito alla morte del padre Valéry abbandonò presto Montpellier e nel 1892 si trasferì con la famiglia in casa degli zii genovesi che, nel frattempo, avevano traslocato nella nuova abitazione al civico n. 7 di Salita S. Francesco di Castelletto.
“Questa città, tutta visibile e presente a se stessa, rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava acuto il poeta.
Fu un periodo di forte instabilità emotiva per il giovane Paul che, nelle notti tra il 2 e il 6 di ottobre, in una città sferzata da piogge e temporali, visse un’esperienza di dolore e travaglio interiori così potenti, da fargli ritenere inutili sia la poesia che la sua stessa esistenza. Quel momento passò alla storia nei manuali di letteratura come la celebre “Nuit de Genes” in cui la tempesta metereologica trovò corrispondenza con quella interiore, a tal punto, da indurlo all’abbandono della poesia e al silenzio per i successivi vent’anni.
Nei primi giorni d’ottobre del 1895 Valéry visitò nuovamente Genova, di ritorno da un giro in altre città italiane, come Trieste, Venezia e Milano scrisse al suo amico e collega Gide: «Rimango un po’ a Genova, dopo ieri sera…».
Nel 1910, dopo 15 lunghi anni, il poeta rientrò in città per salutare la madre ospite, sempre in Castelletto, nella nuova abitazione dei Cabella, di S. Maria della Sanità e, nei suoi appunti, annotò:
«Rivedere Genova -dopo quindici anni- mi dà molte emozioni[…]Ho là molti ricordi della mia infanzia, della mia adolescenza…»… e ancora…
«Genova, città dei gatti. Angoli neri. Si assiste alla sua ininterrotta costruzione dal tredicesimo al ventesimo secolo[…] Sullo sfondo, il monte Fasce, grigiastro e rosato, colore elefante. Carruggi. Qui, moltitudini di bambini giocano attorno a povere prostitute nude, o seminude che si offrono sulla soglia dei loro bassi aperti.[…] Si va nella vita complicata di questi profondi sentieri come si entrerebbe nel mare, nel fondo vero di un oceano stranamente popolato[…] Odori concentrati, odori ghiacciati, droghe, formaggi, caffè abbrustoliti, cacao deliziosi finemente tostati[…] Cucine fragranti. Queste torte gigantesche, farine di ceci, mescolanze, sardine all’olio, uova sode imprigionate nella pasta, torte di spinaci, fritture. Questa cucina è antichissima. Genova è una cava d’ardesia».
Genova cessa di rappresentare per Valéry il ricordo disincantato della gioventù e diviene il “luogo dell’anima”.
Nell’aprile del 1924, tornando da Roma, dopo aver incontrato Mussolini per un colloquio sulla situazione intellettuale in Europa, fece una breve sosta a Genova: «…Contento ed emozionato di ritrovare la mia città Genova. Tutto mi parla qui. Io la preferisco a tutte le Rome».
Ormai illuminato accademico di fama internazionale Valéry tornerà altre volte in città, l’ultima delle quali, nel 1933 ospite dell’Università in Via Balbi dove, come un cattedratico qualunque, terrà la sua “lectio magistralis” senza minimamente fare cenno al suo legame con la Superba.
Valéry, in verità, non ha dimenticato e ci ha lasciato in eredità una delle più appassionate, a mio parere, descrizioni della città:
“Ha una distesa di cupole, di monti calvi,di mare,
di fiumi, di neri fogliami, di tetti rosa.
E quella Lanterna così alta ed elegante,
e meandri popolosi, labirinti affollati,
le cui viuzze salgono, scendono, si intersecano improvvisamente,
sbucano sulla veduta del porto.
Genova, una città piena di sorprese.
Di porte scolpite in marmo, ardesia, casse, formaggi, scale,
biancheria al posto del cielo, cancellate,
bizzarro dialetto dal suono nasale e irritante,
dalle abbreviazioni strane, vocaboli arabi o turchi.
Sull’elegante slargo si affacciano importanti edifici come quello, ad esempio, del civ. 2 della famiglia Interiano Pallavicino. La cinquecentesca e sontuosa dimora progettata da Francesco Casella con affreschi architettonici e allegorie in facciata di Pantaleo e Benedetto Calvi. Nell’atrio e nel giardino che sale verso la collina della Villetta di Negro, oltre a quelli di pregevole fattura realizzati da G.B. Carlone, risaltano anche alcune statue di Filippo Parodi e di altri scultori della rinomata scuola genovese.
Al civ. 4 ecco Palazzo Negrone ingrandito e ristrutturato nel ‘600 sulla base della precedente costruzione del 1560. A fine ‘700 l’architetto Antonio Barabino gli conferì l’attuale aspetto. Nella cappella al suo interno sono custoditi strepitosi affreschi di Giovanni Andrea Ansaldo, uno degli insuperati maestri del Barocco genovese. Nella galleria nobiliarele “Storie di Enea” opera di G.B Carlone, i salotti affrescati da G. Assereto e da Domenico Parodi, un trionfo di energia e colori, purtroppo ammirabili solo in foto perché, in quanto abitazioni private, non visitabili al pubblico.
Al civ. 6 forse la dimora più facilmente identificabile, quella a lesene bianco nere, il Palazzo dei “Marmi” di Giacomo Spinola, oggi sede di una banca, dall’inconfondibile prospetto. Il privilegio di edificare in marmo bianco di Carrara e pietra nera di Promontorio, per uso privato, era accordato solamente alle alle quattro più prestigiose famiglie patrizie genovesi: Grimaldi, Fieschi, Doria e, appunto, Spinola.
Attorno al toponimo di questa piazza nel corso dei secoli sono fiorite diverse leggende.
Secondo alcuni l’origine risalirebbe al fatto che divenne luogo d’incontro fra i soldati che alloggiavano nel vicino Castelletto e le loro leggiadre fanciulle che qui si recavano a lavare i panni. Molto meno romanticamente, secondo altri, si trattava invece di prostitute degli attigui postriboli. Quindi “fons morosus o amorosa”, la fonte dell’amore.
Altro racconto ne farebbe derivare l’origine dal cavaliere teutonico Benedictus Van Rosen. Costui, di passaggio nella nostra città, in attesa d’imbarcarsi per la crociata, decise invece di restare a Genova e di impiantare nella piazza una fabbrica di birra. Per storpiatura dal cognome si sarebbe arrivati a “Marose”.
Infine, a dar credito all’ultima leggenda, l’etimo farebbe capo a “Stea Mou Rousu” (Stefano moro litigioso) che qui aveva un’osteria chiamata “Ostaia de figge du Mou Rousu”.
Per quanto gradevoli e credibili siano queste storie sono, non trovando conferme scritte, niente più che favole o supposizioni. La spiegazione c’è, basta leggerla affissa nelle tre lapidi incastonate all’angolo del palazzo Interiano, accanto alla farmacia, che narrano le vicende della “Fontana Marosa”. La prima risale al 1206, la seconda al 1427, l’ultima al 1609.
Da queste si evince come la piazza, nonostante dal ‘400 fino al 1868 fosse intitolata “Fontane amorose”, debba in realtà il suo nome alla sorgente medievale del 1206 chiamata, per la potenza dei suoi getti, “Fons marosus”. La fontana viene descritta come un imponente monumento a tre arcate, provvista di numerose vasche e abbellita con diverse statue sul fastigio.
Sotto l’attuale pavimentazione stradale esiste ancora la cisterna profonda 17 metri che ne raccoglieva le acque. La monumentale fontana venne demolita nella seconda metà del ‘500 per dare spazio all’accesso a Strada Nuova e a Piazza del Portello. Dal XVI sec. divenne la piazza più elegante e mondana della Superba. Sede di spettacoli teatrali, tornei e giostre cavalleresche che sfruttavano come impareggiabile quinta lo sfarzo dei palazzi affrescati. Ospitò diverse manifestazioni durante il Carnevale e, soprattutto, in occasione delle visite dei potenti del tempo.
Come testimoniato dalla ringhiera, detta “i faeri da posta” che si affaccia sul lato di Via Luccoli, nell’800 costituiva il luogo per la sosta dei cavalli dei corrieri.
Al di là della storia, ognuno faccia proprio il racconto che maggiormente lo soddisfa…
In Copertina: Un torneo in Strada Nuova. Genova Collezione Orso Serra. Il quadro di autore ignoto risale al primi decenni del XVII secolo. Qui, odierna Piazza Fontane Marose, fino al secolo precedente si allestivano per celebrare ricorrenze particolari I tornei.
Nei pressi di S. Giorgio è situata un’antica piazzetta la cui conformazione è stata stravolta dalle opere di fine ‘800 per la realizzazione di Via S. Lorenzo.
I portici che proseguivano fino al molo vecchio sono stati demoliti e sostituiti da quelli ottocenteschi, i relativi magazzini del Porto Franco che occupavano tutto lo spazio (odierna Via Turati) scomparsi.
Al loro posto un parcheggio, il sottopasso e la sopraelevata.
Il toponimo trae origine dalla parola araba “Reba o rayba” che significa mercato o magazzino delle biade.
Fin dal ‘200 la piazza era identificata con il diminutivo di Raibetta perché dedicata allo smercio di legumi e per distinguerla dall’attigua e più importante Raiba, lo spazio assegnato alla compravendita dei cereali.
Nello stesso spiazzo vi era anche “la clapa piscium” ovvero il mercato del pesce.
Qui avveniva un singolare rituale di messa alla berlina che vedeva protagonisti coloro i quali si macchiavano di fallimenti: al malcapitato venivano requisiti tutti i beni restanti in favore dei creditori e doveva, fra l’ilarità dei concittadini chiamati a raccolta, patire l’umiliazione di sbattere tre volte le natiche sulla pietra.
Da qui il nostrano, per dire che si è toccato il fondo, “dar di culo sulla ciappa”.
A Genova capita anche questo, passeggiando nella zona della Maddalena, d’imbattersi all’angolo fra l’omonima piazza e Vico Libarna in un curioso palazzo, soprannominato per via della sua originale forma, dello “Spicchio”.
Di sagoma triangolare termina strettissimo sul lato dello slargo. Venne così progettato sul terrapieno per fare da quinta scenografica al giardino sul retro del palazzo Lazzaro e Giacomo Spinola affacciato in Via Garibaldi ai numeri 8 e 10.
Proprio in corrispondenza infatti del civico n. 10, sul muro del retrostante palazzo dello Spicchio poggia un cinquecentesco ninfeo. Il giardino invece, con l’abbattimento di una grande pianta, è stato ristrutturato, per ospitare un posteggio privato sotterraneo.
Nella zona di Prè, imboccando Vico Inferiore del Roso ci si imbatte in un curioso bassorilievo che rappresenta, fra due scudi abrasi, un monaco inginocchiato con al fianco un pugnale, di fronte a Sant’Antonio, raffigurato vicino ad un grufulante suino.
Il monaco armato simboleggia le lotte sostenute dall’Ordine per erigere e mantenere il loro monastero.
Da tempo immemore infatti, in loco esisteva una chiesa con annesso ospitale per i pellegrini in partenza o di ritorno dalla Terrasanta che aveva ottenuto un singolare privilegio, quello di possedere un branco di maiali.
I suini pascolavano liberamente per le strade del quartiere, cibandosi degli avanzi della popolazione e fu stabilito per decreto del Senato che fosse preservata la loro incolumità e, per distinguerli dagli altri, furono dotati di un rumoroso campanellino.
Il loro numero crebbe a dismisura così si decise che, a godere di tale immunità, fossero al massimo un verro, tre scrofe e venti porcellini; quelli in esubero avrebbero potuto essere catturati ed uccisi da chiunque. I monaci protestarono e ottennero che il Papa intercedesse in loro favore per far revocare tale provvedimento.
Un giorno però, i suini ormai padroni del Borgo, attaccarono un corteo di Senatori ferendone alcuni, decretando di fatto,con questa aggressione, la loro stessa fine.
Intervennero allora i Doria che lasciarono una consistente donazione ai frati in modo che potessero provvedere ai loro bisogni alimentari ed avviare gli ormai indispensabili lavori di ristrutturazione del complesso conventuale.
Inoltre, ogni 13 dicembre, le dame della famiglia patrizia provvedevano ad elargire ai monaci, a titolo personale, cinque scudi d’oro.
L’abate di Sant’Antonio, per sdebitarsi, iniziò la tradizione per cui, ad ogni Natale, un corteo in processione si recava a San Matteo, portando in dono un maiale dell’Abbazia alla nobile casata.
Da qui, forse, l’origine della “Porchetta arrosto” come una delle portate, ormai dimenticate, della tradizione gastronomica natalizia genovese.
Complesso conventuale eretto nel 1305 dai monaci Cistercensi come ci ricorda una lapide, posta all’ingresso del chiostro dedicata al suo fondatore, Bongiunta Valente.
La piazza, protetta dai frastuoni e dal traffico quotidiano è un luogo dell’anima dove anche il tempo entra in punta di piedi perché ha paura di disturbare, di interrompere l’incanto.
Sulla lunetta un affresco con Madonna e bambino e S. Bartolomeo con in una mano un libro e nell’altra un coltello, a simboleggiare la supremazia della cultura sulla violenza.
Al suo interno, in pieno degrado, opere di artisti minori della scuola genovese.
In epoca napoleonica la chiesa venne requisita dalle truppe francesi e adibita a stalla, il chiostro a caserma.
Cessata l’indipendenza della Repubblica il complesso è stato sconsacrato, in parte inglobato dalle abitazioni circostanti, in parte utilizzato come teatro e luogo ricreativo.
Alla tradizione più antica, precedentemente raccontata, si aggiunge la variante fantastica dove gli aspetti religiosi assumono una valenza marginale. Come nelle migliori fiabe un giorno il santo, di passaggio per la città di Salem in Libia, incontra una principessa, figlia del re di quel regno, pronta a sacrificare la propria vita per placare le ire di un drago che dimorava in uno stagno poco lontano. Il popolo infatti, stanco di aver sacrificato i propri fanciulli, obbliga il re a rinunciare alla figlia, minacciando la rivolta.
Giorgio interviene prontamente placando la collera della plebe dopodiché affronta il mostro, lo ferisce e lo sottomette come un cagnolino obbediente. Ordina di far legare al collo dell’animale la cintura della principessa che, incredula, ritorna in città con il drago al guinzaglio.
I sudditi sono in festa e, riconoscenti, si convertono in massa assieme a re e principessa al Cristianesimo. Il cavaliere uccide il mostro, lo taglia a pezzi e lo fa trascinare fuori dal paese trainato da quattro paia di buoi. Un’altra variante suggella il gran finale con il matrimonio fra il nostro eroe e la principessa Sabra.
Da qui in poi, in particolare dalle Crociate, San Giorgio diverrà l’alfiere dell’Occidente, simbolo della lotta del bene contro il male. Il suo mito si diffonde in tutta Europa; in suo nome vengono erette molte chiese dall’Egitto a Costantinopoli, in Italia, Spagna, Portogallo, fino alla Germania, l’Inghilterra e il Caucaso.
A Genova, già dal 700, una guarnigione di soldati greco bizantini portava in processione, accompagnata dalla popolazione, il vessillo nella chiesa a questi intitolata.
Ma è al ritorno dalla presa di Antiochia (1098) e dalla conquista di Gerusalemme (1099) che i genovesi dell’Embriaco lo elevano ufficialmente a simbolo della città e della Repubblica. Da allora, per oltre cinquecento anni, le grida di battaglia saranno: “Viva San Zorzo” e “Pe Zena e pe San Zorzo”.
I portali delle dimore delle grandi famiglie si adorneranno delle sue gloriose effigie e saranno testimonianza perenne del prestigio da queste acquisito.
Solo agli ammiragli e ai capitani che lo avevano difeso e onorato in battaglia con orgoglio era concesso infatti esporre i simboli del santo guerriero.
San Giorgio protegge dalla sifilide e dal morso delle vipere, sconfigge lebbra, streghe e peste bubbonica, è il protettore degli armaioli e dei sellai e dell’agricoltura in tempi di siccità.
Oggi è patrono dello scoutismo, dell’Inghilterra, del Portogallo, della Lituania, della Serbia, di Barcellona e della Catalunya, di Mosca e di oltre cento comuni italiani di cui ventuno ne portano il nome.
In Germania fa scaturire acque miracolose, in America dà il nome ad uno stato e, nel Caucaso, ad una repubblica.
La festa a lui dedicata è, a seconda dei paesi in cui si celebra, il 23 o il 24 aprile. La religione islamica lo venera tra i profeti.
Le sue reliquie sono sparse un po’ ovunque: il cranio nella basilica di S. Giorgio in Velabro a Roma, un braccio a Ferrara, l’altro a Venezia. Altre parti si trovano a Le Mans e a Limoges in Francia e in svariate località della Spagna e, naturalmente, custodite nella chiesa a lui dedicata sul promontorio, a Portofino.
Nel 1637 con l’elezione della Madonna a Regina, il pagano “Viva San Zorzo” cede il passo al più ecumenico “Viva Maria” ma già da tempo i fasti dei crociati genovesi sono un lontano ricordo.
Nel 1969 la Santa Congregazione dei Riti lo declassa da “santo ausiliatore” a “memoria facoltativa”.
Ecco perché mi arrogo la “facoltà” di ricordarlo.
In Copertina: Il Vessillo di San Giorgio fino al 1242, anno dell’assunzione ufficiale dello scudo bianco rosso crociato, identificato come la bandiera di San Giorgio.
I membri della Confraternita di S. Germano si divertivano, sbucando nel buio della sinistra Crosa del Diavolo (odierno Largo S. Giuseppe) a spaventare i passanti.
Indossavano un lenzuolo sotto il quale nascondevano una lanterna illuminata e calzavano lunghi trampoli.
In realtà, più che di un’associazione religiosa, si trattava di un gruppo di cospiratori e affaristi politici che, durante i loro incontri, non tolleravano intrusi e avevano ideato questo stratagemma per spaventare i curiosi.
Nei rigogliosi giardini dietro a palazzo Tursi, si aggira invece un elegante e fascinoso spettro di dama bianca.
Chi lo ha visto svanire nel loggiato sostiene essere una signora molto simile a quelle che Rubens e Van Dyck, a loro tempo, amavano ritrarre nei loro dipinti.
Poco distante, nel caruggio sottostante Palazzo Rosso, in Vico Brignole, al tramonto si possono udire i singhiozzi e i lamenti di una enigmatica figura di donna con il volto velato.
Un altro sito molto gettonato per le apparizioni sovrannaturali è la zona dell‘Acquasola che, oltre ad essere stata luogo di culto pagano, nel 1657 in seguito alla peste, è divenuta cimitero di circa ottantamila nostri concittadini.
Nel centro storico bighellona anche lo spettro di un lussurioso tedesco in cerca di piacere che, nonostante le raccomandazioni dei suoi commilitoni di non inoltrarsi nel pericoloso labirinto dei caruggi, non ha obbedito al consiglio ed è stato trucidato dai partigiani.
Dal 1943 dunque, le “Graziose” confermano l’apparizione del fantasma di un uomo in uniforme militare.
L’ho lasciato per ultimo perché ne hanno parlato anche le televisioni nazionali e le emittenti private ed è sicuramente il fantasma più famoso di Genova: la vecchina di Vico Librai.
L’anziana signora gironzola nei pressi di Porta Soprana chiedendo informazioni sulla strada da percorrere per raggiungere la propria abitazione in Vico Librai.
Il vico, a cavallo degli anni ’60 e ’70 è andato distrutto insieme a tutto il quartiere della Madre di Dio in seguito alla vergognosa e spregiudicata politica di rinnovamento urbanistico decisa a quel tempo.
A rendere ancora più affascinante la vicenda di questa nonnina è il ritrovamento, all’interno di un locale dove era entrata per chiedere informazioni, di un borsellino contenente monete del regno, immaginette sacre e un antico rosario.
Tutti oggetti risalenti all’800.
In Copertina:Ritratto di nobildonna genovese, realizzato da Antoon van Dyck all’incirca tra il 1625 e il 1627 a Genova.
di marmo lasciassero il loro ottocentesco tracciato alla moderna sopraelevata… sopra eleganti signori in tuba e marsina mostravano orgogliosi alle loro dame il panorama portuale…
sotto laboriosi camalli rifornivano efficienti magazzini ed esercizi commerciali inerenti le attività marittime.