Salita di San Gerolamo

Ubicata nel quartiere di Castelletto Salita di San Gerolamo consta di due tratti: il primo quello inferiore che parte da Piazza Portello e sfocia in Piazza Villa, il secondo quello superiore che da quest’ultima attraversa le alture fino alla confluenza fra Salita Accinelli e Salita Emanuele Cavallo.

Qui esisteva la chiesa fondata nel 1405 intitolata al santo a cui è intestata la via.

Salita San Gerolamo. Foto di Leti Gagge.

Nella parte inferiore caratterizzata dalla classica mattonata tipica delle creuze genovesi si può ammirare il ponte canale dell’acquedotto medievale che si dirigeva verso il Castelletto.

Brani originali del Castelletto inglobati nei palazzi.

Nella parte superiore, molto più cementificata (a parte il pezzo finale), sono invece degne di nota un medaglione di Madonna col Bambino e un’antica lastra in pietra nera con un rilievo del trigramna di Cristo.

In Copertina: Salita inferiore di San Gerolamo. Foto di Leti Gagge.

Salita Coccagna

Nel cuore di Ravecca si trova la salita della Coccagna.

Sull’origine del toponimo sono state formulate diverse ipotesi:

secondo alcuni deriverebbe dal nome dell’omonima famiglia che aveva possedimenti in zona; secondo altri dalla tradizione di innalzare alberi della cuccagna durante le feste popolari.

Molto più probabilmente invece la genesi del caruggio sarebbe riconducibile alla voce dialettale cocagna che indica la sommità di un colle.

In effetti Salita della Coccagna rappresenta proprio il punto più in alto del tratto di mura del Barbarossa, detto delle murette, che degrada fino a via Ravasco.

Meritevoli di citazione nel vicolo sono un pregevole Medaglione con Madonna col Bambino, all’angolo con Passo delle Murette una settecentesca edicola sempre di Madonna con Bambino in sconcertante abbandono e, poco più avanti, resti di truogoli in pietra addossati al camminamento di ronda delle mura.

In Copertina: Salita della Coccagna. Foto di Stefano Eloggi.

Le Bagasce dei Poeti

Il 20 settembre 1958 l’entrata in vigore della Legge Merlin che chiude le case di tolleranza, sancisce la fine di un’epoca.

A Genova se ne contavano ben 22 e due strutture, la fondazione di Santa Caterina da Genova e l’Istituto delle figlie dell’Addolorata si attivano per ospitare e confortare le prostitute rimaste senza lavoro.

Prima ancora che per i cantautori genovesi, con le bagasce protagoniste nella poetica di De André o del Cielo in una stanza di Paoli, le prostitute furono fonte di ispirazione per i grandi poeti liguri del Novecento.

Salivano voci e voci canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle, al colle. A l’ombra dei lampioni verdi di bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mescolava e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni…

Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso appoggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiedessero su di una duplice ombra”…

“… A te aggrappata d’intorno/ La febbre de la vita / pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto/ Instornellato de le prostitute / E dal fondi il vento del mar senza posa”.

Così scriveva nei suoi Canti Orfici (1914), Dino Campana (1885-1932).

Caruggi e bagasce. Foto di Gigi Tagliapietra.

Emozioni riprese anche da Camillo Sbarbaro (1888-1967) che racconta le sue sensazioni all’uscita di un bordello:

Esco dalla lussuria/ M’incammino/ pei lastrici sonori nella notte./ Non ho rimorso e turbamento. Sono/ Solo tranquillo immensamente./ Pure qualche cosa è cambiato in me, qualcosa fuori di me/ Che la città mi pare/ sia fatta immensamente vasta e vuota,/ una città di pietra che nessuno/ abiti, dove la Necessità/ sola conduca i carri e suoni l’ore…”.

Lirica tratta dalla raccolta Pianissimo del 1914.

Caproni (1912-1990) invece è meno intimista e, in merito alla lussuriosa vocazione genovese, va dritto al punto:

Genova che non mi lascia/ Mia fidanzata bagascia. [..] Genova di mio fratello/ Cattedrale. Bordello./ Genova di violino/ di topo di casino./ […] Genova di Sottoripa/ Emporio. Sesso. Stipa./ Genova di Porta Soprana. /d’angelo e di puttana./ […] Fenova di Raibetta/ Di Gatta Mora. Infetta”.

Versi liberamente tratti da Litania (1956) di G. Caproni.

Sempre Caproni nel 1967 traduce invece i versi di un poeta francese André Frenaud (1943-1982) che nella sua “Il silenzio di Genova” scrive:

“[…] e ancora in giro per gli angusti carrugi, /le prostitute poliglotte le belle poppe/ che sanno la lingua d’ognuno./ tutta la gente che inganna la vita nei quartieri bassi,/ quella che sfida, quella che tace ugualmente ostinata,/ i palazzi con gli alti portoni chiusi, le alberature,/ le gru stagliate, se si sale si vedono,/ e, più in alto, il mare”.

Fonti: Canti Orfici, Dino Campana, Milano 1989; Poesie, Giorgio Caproni, Milano 1976; Poesia e Prosa, Camillo Sbarbaro, Milano 1979.

In Copertina: l’inequivocabile batacchio del portone del civ. n. 5 Palazzo Ivrea noto anche come Squarciafico di Piazza Invrea. Un tempo ospitava un lussuoso bordello, oggi un facoltoso studio notarile.

Piazzetta Barisone

Nei pressi di Via delle Grazie si trova piazzetta Barisone sui cui palazzi sono ancora presenti arcate in cornici di pietra, archetti e tracce residue di una loggia del XIII secolo.

L’origine del toponimo rimanda alla schiatta dei Barisone il cui capostipite, secondo alcuni storici, sarebbe appunto un tal Barisone di Arborea un Principe Sardo, che tolse la Sardegna ai Saraceni.

Barisone sostenuto poi dai Genovesi, nel 1164 fu incoronato da Federico I (Barbarossa) a Pavia Re di Sardegna previo il versamento di quattromila marchi anticipati dai genovesi che in quell’occasione avevano anche ottenuto favorevoli clausole commerciali ai danni dei rivali pisani.

In realtà non regnò mai sull’isola perché non riuscì a garantire, complice anche il voltafaccia del Barbarossa a vantaggio dei pisani, né le vantaggiose condizioni promesse, né a restituire l’ingente prestito ai genovesi.

Fu imprigionato a Genova per otto lunghi anni prima che i suoi concittadini riuscissero a saldare l’oneroso debito nel frattempo aggravato da cospicui interessi.

Quando finalmente gli fu permesso di rimpatriare non riuscì più a ristabilire la precedente situazione di potere perché Pisa e Genova avevano trovato nuovi accordi sulla ripartizione dei Giudicati dell’isola.

Altri storici ritengono invece questa solo una suggestiva tesi che non proverebbe la paternità del cognome.

Di Barisone, Barisione, Barigione infatti già in quel secolo nei documenti antichi genovesi se ne trovano parecchi: soprattutto avvocati, notai e uomini di legge che si tramandavano la professione di padre in figlio, ma si distinsero anche in ambito religioso come prelati di spicco.

Anche sul significato etimologico del nome non vi è accordo; secondo alcuni è una derivazione dall’ ebraico Bar=figlio e Sion=Gerusalemme e, dunque di origine ebraica; per altri invece dal sassone Bar=Orso e Son=Figlio e perciò Figlio dell’ Orso, di matrice nordica.

In Copertina: Piazzetta Barisone. Foto di Stefano Eloggi.

Piazza dietro i Forni

La piazza deve il suo nome ai Forni
Pubblici, un grande edificio per la produzione del pane, voluto nel ‘700 dal Comune di Genova per controllarne la produzione.
La grande struttura situata alle pendici del Castelletto, nel luogo dove poi fu
aperta la Galleria Giuseppe Garibaldi, venne completata durante la dominazione francese.

Al civ. n. 5 si trova una settecentesca monumentale edicola in stucco.

Curiosa poi la presenza, sotto l’archivolto dell’attigua salita Acquidotto, di una scala in ferro battuto murata che serviva in origine per accedere alle vasche di raccolta delle acque.

In Copertina: Piazza dietro i Forni.

Salita dei Molini

Dalla centralissima via Cairoli un tempo Strada Nuovissima parte in direzione del Castelletto, Salita dei Mulini.

Il nome della strada rimanda alla presenza in loco dei mulini del grano ad uso dei vicini forni militari.

Qui infatti il Comune nel 700 aveva stabilito, in virtù dell’abbondante presenza di acqua
derivata dal vicino acquedotto, il loro stanziamento.

In Copertina: Salita dei Molini. Foto di Roberto Crisci.


Piazzetta dei Luxoro

Alle spalle di Canneto il Curto si incontrano le due piccole piazzette medievali della Stampa e dei Luxoro che hanno in comune altrettante cinquecentesche logge.

Il cognome Luxoro deriva dalla località di provenienza Lusuolo, feudo dei Malaspina in Lunigiana, al confine tra Liguria e Toscana.

Stefano fu consigliere della Repubblica nel 1368; Antonio anziano nel 1369 e 1382. Furono ascritti nei Calvi nel 1528 con la riforma degli Alberghi.

La loggia dei Luxoro è composta di due arcate in pietra a tutto sesto con al centro una colonna romana in granito molto simile a quella della Stampa.

Il capitello con i quattro leoni. Foto di Leti Gagge.

Il capitello del XII secolo raffigura quattro leoni che si inseguono tenendosi per la coda.

Orribile la chiusura con imponenti porte in ferro a protezione di magazzini e garage.

In Copertina: la loggia dei Luxoro ripresa sa Vico Fornetti. Foto di Leti Gagge.

Vico Carabaghe

Non si sa se l’origine del nome “Carabaghe”  ovvero il calarsi le braghe di popolare memoria sia dovuta alla vocazione erotica del quartiere oppure se sia legata all’etimo della vicina Salita del Prione dove, a far calare le braghe, erano invece i predoni. Secondo alcuni storici infatti il toponimo del prione deriverebbe dal latino barbaro “Predoni Castri”, poi “Montata Castri” che stava ad indicare la pericolosità del luogo, in mano ai briganti.

Quasi sicuramente invece l’interpretazione corretta del toponimo del vicolo deriva dal cinquecentesco utilizzo di piccole catapulte, denominate appunto “calabrage”, che servivano per lanciare sul nemico, oltre le mura, sassi di piccole dimensioni.

Gli strumenti bellici venivano quindi, data la vicinanza a Porta Soprana, ricoverati nell’attiguo caruggio che perciò ne assunse il nome, mutato nel tempo, in “carabaghe”.

In Copertina: Vico Carabaghe. Foto di Maria Beatrice.

Vico Sottile

Nelle mappe antiche vico Sottile era indicato con il nome di Vico del Fondaco.

L’intestazione fu cambiata con la riforma del catasto del 1798 per non confonderlo con l’omonima salita che da piazza San Matteo porta a piazza De Ferrari.

I funzionari preposti decisero così con scarsa fantasia di scegliere il nuovo toponimo in relazione alle ristrette dimensioni del caruggio.

Vico Sottile infatti non sarà stretto come Vico delle Monachette o Vico della Luna che detengono il primato in materia, ma le sue ridotte misure ne giustificano comunque l’intitolazione.

Il vicolo collega via dei Macelli di Soziglia con via Luccoli.

In Copertina: Vico Sottile. Foto di Giovanni Cogorno.

Vico dell’Arancio

Un tempo gli alberi di agrumi non erano patrimonio solo delle riviere.

La presenza di piante di arance e limoni, a confermare l’origine agreste di alcune contrade cittadine, era infatti documentata anche nel centro storico.

Terreni coltivati a orto o adibiti a giardino come il caso di vico dell’Arancio il cui toponimo rimanda a questa antica vocazione antecedente l’estensione delle aree urbanizzate.

Piccolo gioiello in tale senso resta il giardino, anche agrumeto, di Santa Maria di Castello.

Il giardino del chiostro di Santa Maria di Castello. Foto di Stefano Eloggi.

Nel catasto del 1798 il vico dell’Arancio era indicato nella forma dialettale di Vico del Citrone (çetrón, ovvero limone in lingua genovese).

In un atto del 1572 in cui si delibera il rifacimento della pavimentazione di Via Luccoli si legge: “dal carrogio de Cetroni a Santa Caterina”.

In Copertina: Vico dell’Arancio.

Foto Leti Gagge