“L’assenza solo apparente di architetture storicamente celebrate ha spesso allontanato la grande massa (formatasi attraverso la frusta retorica monumentalistica) da un’esatta percezione della segreta bellezza della superba, che crediamo risieda nella totalità del suo manufatto urbano, dove ciascun episodio architettonico, sacro o profano, è parte significativa di una lunga, lunghissima narrazione di secoli che è quindi una metafora della stessa idea di città. Genova, infatti, non può che apparire ai nostri occhi come città-paesaggio, laddove la stessa edilizia diviene paesaggio, adattandosi di volta in volta ai movimenti del terreno su cui è sorta, generando per effetto naturale sempre nuove e talora vertiginose prospettive. In altre parole, siamo immersi in una verticalità superba di fronte all’infinità orizzontalità del mare”.
Cit. Fausto Fantoni Minnella. Scrittore e saggista.
Questo incantevole scorcio che sembra quasi un quadro di in maestro impressionista ben rappresenta, a mio parere, i concetti di superba verticalità e sconosciuta bellezza illustrati dallo scrittore.
Qui alle spalle della frequentata Corso Magenta in circonvallazione a monte si scopre un angolo ovattato dove il tempo sembra essersi fermato. Magari giusto un momento per riprendere fiato prima di affrontare la salita di S. Anna che dal Poggio Bachernia si arrampica in Castelletto.
Genova da sempre sospesa tra l’infinito orizzonte marino e la verticale tensione verso il cielo.
La Grande Bellezza…
In copertina: Poggio Bachernia. Foto di Anna Armenise.
Genova. Che cosa significa, per me? Ho avuto la fortuna di nascere in questa etnia, in questo piccolo mondo dove si parla una lingua diversa, che faceva parte di uno stato molto più grande ma con un idioma, una cucina, una cultura autonomi. Questo ti fa sentire così vicino a queste persone che condividono la tua diversità, ti senti a tua volta differente dal resto del mondo, sei membro di una grande famiglia di settecentomila persone che ha usi e costumi tutti suoi. E se arrivi a Milano, ci arrivi come un immigrato dal Sud.
Cit. Fabrizio De André.
In copertina: Via Luccoli. Foto di Pippo Ingrassia.
In quella che un tempo era la popolosa Via della Madre di Dio odierni giardini Baltimora, all’altezza dello svincolo sopraelevata e Corso Quadrio, si staglia un enorme edificio a specchi.
Nell’ammirare il verde paesaggio riflesso nelle sue finestre me lo sono immaginato come un gigantesco televisore a cristalli.
Allora ho fantasticato su come sarebbe stato bello premere un pulsante dell’ipotetico telecomando e d’incanto veder riapparire sullo schermo il grigio ardesia dei millenari quartieri demoliti.
In via delle Grazie al congiungimento con via delle Camelie si passa sotto un archivolto in pietra che un tempo era parte di una loggia.
Ne sono inconfutabile testimonianza, seppur in pessimo stato di conservazione, due colonne in conci bicromi con capitelli cubici intarsiati a grappoli d’uva e cordonati.
Era questa l’antica via – detta appunto delle Grazie – che, svoltando sotto l’archivolto, conduceva al santuario delle Grazie meta dei pellegrinaggi dei marinai che vi chiedevano protezione.
All’angolo si notano ancora i resti di un’edicola in pietra contenente un dipinto raffigurante la Madonna delle Grazie oggi ormai illeggibile.
A fianco dell’archivolto spicca l’insegna della Bottega del Conte un locale assai particolare, oggi quasi un caffè museo, che ospitava in passato una bottega di alimentari.
All’ingresso del piano strada c’è una vasca in marmo dove veniva conservato lo stoccafisso. Scendendo i due piani sotterranei attraverso ambienti i pietra e laterizio si accede infine alle cantine e alle antiche cisterne.
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In copertina: Via delle Grazie. Foto di Francesco Auteri.
Dietro la chiesa di San Giorgio la piazzetta dei Maruffo rivendica il suo spazio lottando per un briciolo di sole.
I Maruffo o Maruffi erano originari dello spezzino e avevano importanti possedimenti a Sestri Levante.
Dopo il 1100 si trasferirono nel ponente genovese (Voltri, Rivarolo, Coronata) e si distinsero nelle guerre contro Pisa e Venezia.
In virtù del prestigio conquistato, acquisirono proprietà anche nel centro storico. Ne sono ulteriore testimonianza il palazzo nobiliare in Canneto e, soprattutto, la poderosa torre eretta nel XIII sec. Persino l’Archivolto Baliano che comunica con Piazza Matteotti, un tempo era chiamato dei Maruffi.
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In copertina: Piazzetta dei Maruffo. Foto di Stefano Eloggi.
Sul lato sinistro della cattedrale si apre proprio davanti all’omonimo portale la minuscola quanto graziosa piazzetta di San Giovanni il Vecchio.
L’entrata in chiesa da questo lato è chiusa da una modesta cancellata che impedisce di godere appieno dei curiosi fregi che adornano l’ingresso.
Secondo la tradizione cristiana la parte sinistra dell’edificio rappresentava la componente oscurata del creato. Si spiegherebbero così le creature mostruose che lo decorano.
Sulla porta di accesso al Battistero invece si può ammirare, quasi dimenticato dai pedoni assorti nel loro vorticoso andirivieni in via San Lorenzo, il cinquecentesco rilievo con il Battesimo di Gesù.
Il prezioso manufatto è attribuito al magistrale scalpello di Niccolò da Corte.
In copertina: Piazzetta di San Giovanni il Vecchio. Foto di Giovanni Caciagli.
Nel 1618, con la ristrutturazione e l’ampliamento dell’Annunziata si rese necessario abbatterlo. L’oratorio venne così definitivamente trasferito in Via delle Fontane 36a/r dove si trova tuttora.
Stretto fra i palazzi adiacenti resiste infatti quel che resta della versione secentesca finanziata dalla nobile e ricca famiglia dei Lomellini.
L’edificio dal 1829 venne identificato anche, dal nome della Confraternita che vi aveva sede, come Oratorio delle Cinque Piaghe.
Tale congregazione si occupava di assistere gli infermi.
Dietro un anonimo e trascurato prospetto si nasconde un sito di ragguardevoli dimensioni, seppur depredato della quadreria in epoca napoleonica, ricco di stucchi e statue.
Primo piano dei resti del dipinto.
Sulla facciata una grande edicola vuota che, s’intuisce, conteneva un tempo un dipinto a fresco oggi scomparso.
Sbirciando nel cortiletto protetto da un cancello si incontrano il dipinto a fresco sulla lunetta della porta, della Madonna Assunta e una statua mutila del braccio destro, di San Tommaso.
Nella zona di Pre’ dietro al vico di Santa Fede che prende il nome dall’omonima chiesa si apre inaspettato un piccolo spiazzo intitolato a Metelino.
L’antica chiesa, nella sua conformazione originale, un tempo era orientata proprio verso la piazzetta.
Guardano il cielo infatti si vede ancora spuntare il campanile inglobato nell’edificio che ospita le aule universitarie.
Metelino o Mitilene, l’antica Lesbo, è l’isola maggiore delle Sporadi nella quale i genovesi a seguito del Trattato del Ninfeo del 1261 ebbero vantaggiose concessioni commerciali e giurisdizione consolare.
Fino al XVI sec. le nobili famiglie dei Cattaneo prima e dei Gattilusio poi vi esercitarono il potere – con il benestare degli imperatori bizantini – come signoria personale.
La principale risorsa dell’isola era l’allume di rocca dal cui traffico i genovesi traevano grandi ricchezze.
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In copertina: Piazzetta Metelino. Foto di Stefano Eloggi.