c’era davvero un borgo marinaro con barche, reti e vele fin dentro casa… quando i confini tra terra e mare non erano così ben delineati… quando i gozzi si arrampicavano lungo la creuza… quando Gino Paoli non aveva ancora composto “La Gatta”.
Non come oggi, per quanto affascinante, una cartolina per turisti, un ristoro per studenti che hanno bigiato le lezioni, o un luogo di passeggiate per innamorati.
… quando la curiosa immagine della cartolina ritraeva le case e la spiaggetta attigue a ponente del borgo, tra l’attuale chiesa di S. Antonio e il locale La Baia degli Angeli prima che la zona fosse rivoluzionata con la costruzione di Corso Italia a cavallo del primo decennio del secolo scorso.
Un tempo fino agli anni ’50 del ‘900, come testimoniato dai versi di Camillo Sbarbaro e dai racconti di Remo Borzini e Giancarlo Fusco, questa era una contrada affollata di rinomate case di tolleranza.
Non si sa se l’origine del nome “Carabaghe”ovvero il calarsi le braghe di popolare memoria sia dovuta alla vocazione erotica del quartiere oppure se sia legata all’etimo della vicina Salita del Prione dove, a far calare le braghe, erano invece i predoni. Secondo alcuni storici infatti il toponimo deriverebbe dal latino barbaro “Predoni Castri”, poi “Montata Castri” che stava ad indicare la pericolosità del luogo, in mano ai briganti.
Altri studiosi propendono invece per un’altra versione che nulla avrebbe a che fare con quanto sopra affermato. In cima alla salita era posta una grossa pietra, “Prion”, sulla quale il cintraco, il banditore urlava i suoi proclami alla cittadinanza.
Quasi sicuramente invece l’interpretazione corretta deriva dal cinquecentesco utilizzo di piccole catapulte, denominate “calabrage”, che servivano per lanciare, sul nemico, oltre le mura, sassi di piccole dimensioni. Gli strumenti bellici venivano quindi, data la vicinanza alla Porta, ricoverati nell’attiguo caruggio che perciò ne assunse il nome, mutato nel tempo, in “carabaghe”.
Al di là dei dibattiti sulla genesi della denominazione pochi sanno che in Vico dei Castagna, in fondo a Vico delle Carabaghe, il cantautore Gino Paoli trasse ispirazione, durante un suo incontro passionale, dalle pareti viole di un bordello, per scrivere la celeberrima “Cielo in una stanza” portata in auge da Mina.
Così, dall’amor profano e carnale, è nato quello romantico e poetico di “quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti, ma alberi, alberi infiniti…”
Hermann Hesse spesso, in attesa d’imbarcarsi per i suoi frequenti viaggi in oriente, sostò nella nostra città.
Il grande poeta tedesco, sublime pittore non solo con le parole ma anche con il pennello dei suoi natii panorami montanari, scoprì la Superba e, lo dice lui, se ne innamorò. Comprese la differenza frala limitatezza delle prospettive lacustri, a cui era intimamente legato, e l’infinita, smisurata apertura dell’orizzonte marino, inteso come metafora di nuovi spazi da scrutare e sogni da rincorrere.
La Liguria divieneallegoria del viaggio interiore. Nel suo primo romanzo di un certo successo del 1904, intitolato “Peter Camenzind”, il futuro premio Nobel per la letteratura del 1946, scrive:
“A Genova mi arricchii di un altro grande amore. Era una limpida giornata ventosa, appena dopo mezzogiorno. Avevo appoggiato le braccia ad un largo parapetto: Genova ricca di colori si stendeva alle mie spalle, mentre sotto di me vivevano e si ingrossavano i grandi flutti azzurri del mare. Ilmare. Con il suo cupomugghiare e i suoi desideriincompresil’eterno ed immutabile mi si avventava contro, ed io avvertii in me stringere eterna amicizia, per la vita e per la morte, con quei flutti azzurri e schiumosi. Altrettanto fortemente mi commosse l’ampio orizzonte marino. Nuovamente rividi, comegià nella miafanciullezza, l’odorosa azzurra lontananza che mi aspettava invitante simile ad una porta aperta… Per uno oscuro impulso crebbe dentro di me l’antico e doloroso desiderio di gettarmi fra le braccia di Dio ed affratellare la mia povera esistenza all’infinito ed all’eterno”.
Ed eccolo l’incontro concreto con il mare:” A Rapallo lottai per la prima volta contro le onde del mare, e nuotando assaggiai l’acre sapore dell’acqua salata, e provai la potenza dei flutti. Tutto attorno onde azzurre e chiare, scogli color avana, un cielo profondo e tranquillo, e l’eterno, incessante rumoreggiare delle acque.
La vista delle barche che scivolavano al largo sull’acqua, conla loro nera alberatura e le vele bianche, o il piccolo pennacchio di fumo di un piroscafo che passava lontano mi colpiva ogni volta… Oltre alle mie predilette, le irrequiete nuvole, non conosco simbolo dell’ardente brama di errare per ilmondo più bello e più pregnante di quello di una nave, che passa a grande distanza, diventando sempre più piccola sino a scomparire nell’orizzonte aperto”.
Il Bombardino, una delle più diffuse bevande montanare, nacque al rifugio “Mottolino” di Livigno in provincia di Sondrio.
Fin qui nulla di strano se non fosse che ad ideare il cocktail più apprezzato in tutte le mescite dell’arco alpino sia stato un giovane genovese che, dopo aver prestato servizio presso gli alpini, prese in gestione una baita della zona.
Seduto con quattro amici al bar, in una gelida sera come tante, proprio come nella canzone di Gino Paoli, non cambiò il mondo ma inventò un miscuglio di latte, zabaione e whisky bollente con l’auspicio che riscaldasse dal rigido inverno. Il genovese ed i suoi amici fecero assaggiare la calda pozione ad un cliente che esclamò soddisfatto:” Accidenti! è una Bombarda”. Fu così che venne battezzato il nuovo preparato.
Dopo qualche tempo un lavorante del rifugio rivelò a terzi la ricetta del Bombardino contribuendo così alla sua rapida diffusione su tutte le piste da sci del circondario, fino a superare i confini regionali . Al latte venne sostituita la panna montata e al Whisky il Brandy o il Rhum.
Nacquero così le tre varianti con cui ancora oggi è possibile gustarlo:
Calimero con zabaione e caffè espresso; Pirata con zabaione e rhum, Scozzese con Zabaione e Whisky.
Esistono tuttavia delle versioni “free style” in cui i liquori vengono mischiati a piacimento purché collante comune rimanga l’uovo dello zabaione.
Anche sulla neve ci si scalda il cuore con un sorso di Genova!
Fin da piccolo, essendo la madre genovese, Paul Valéry prese a frequentare Genova in ripetuti soggiorni. La dimora della zia Vittoria Cabella, sita dietro il Coro di S. Luca, divenne punto di partenza per le sue escursioni nel centro storico:« Genova è ricca di monumenti e trascorro i giorni a visitarli. La cattedrale è bella, gotico-moresca con statue del tempo antico, iscrizioni che tento di tradurre con quel poco di latino che è rimasto in me. Ho visitato molti palazzi pieni di quadri. Tra gli altri, il palazzo del celebre Andrea Doria, ammiraglio delle Galere, alleato a volte della Francia, a volte dell’Austria. Ho visto una sala del quattordicesimo secolo con vecchi quadri dell’epica. Mi sono seduto sulla poltrona dove si sono seduti prima Carlo V e in seguito Napoleone», scriveva il giovane in una lettera indirizzata ad un amico nel 1887.
In seguito alla morte del padre Valéry abbandonò presto Montpellier e nel 1892 si trasferì con la famiglia in casa degli zii genovesi che, nel frattempo, avevano traslocato nella nuova abitazione al civico n. 7 di Salita S. Francesco di Castelletto.
“Questa città, tutta visibile e presente a se stessa, rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava acuto il poeta.
Fu un periodo di forte instabilità emotiva per il giovane Paul che, nelle notti tra il 2 e il 6 di ottobre, in una città sferzata da piogge e temporali, visse un’esperienza di dolore e travaglio interiori così potenti, da fargli ritenere inutili sia la poesia che la sua stessa esistenza. Quel momento passò alla storia nei manuali di letteratura come la celebre “Nuit de Genes” in cui la tempesta metereologica trovò corrispondenza con quella interiore, a tal punto, da indurlo all’abbandono della poesia e al silenzio per i successivi vent’anni.
Nei primi giorni d’ottobre del 1895 Valéry visitò nuovamente Genova, di ritorno da un giro in altre città italiane, come Trieste, Venezia e Milano scrisse al suo amico e collega Gide: «Rimango un po’ a Genova, dopo ieri sera…».
Nel 1910, dopo 15 lunghi anni, il poeta rientrò in città per salutare la madre ospite, sempre in Castelletto, nella nuova abitazione dei Cabella, di S. Maria della Sanità e, nei suoi appunti, annotò:
«Rivedere Genova -dopo quindici anni- mi dà molte emozioni[…]Ho là molti ricordi della mia infanzia, della mia adolescenza…»… e ancora…
«Genova, città dei gatti. Angoli neri. Si assiste alla sua ininterrotta costruzione dal tredicesimo al ventesimo secolo[…] Sullo sfondo, il monte Fasce, grigiastro e rosato, colore elefante. Carruggi. Qui, moltitudini di bambini giocano attorno a povere prostitute nude, o seminude che si offrono sulla soglia dei loro bassi aperti.[…] Si va nella vita complicata di questi profondi sentieri come si entrerebbe nel mare, nel fondo vero di un oceano stranamente popolato[…] Odori concentrati, odori ghiacciati, droghe, formaggi, caffè abbrustoliti, cacao deliziosi finemente tostati[…] Cucine fragranti. Queste torte gigantesche, farine di ceci, mescolanze, sardine all’olio, uova sode imprigionate nella pasta, torte di spinaci, fritture. Questa cucina è antichissima. Genova è una cava d’ardesia».
Genova cessa di rappresentare per Valéry il ricordo disincantato della gioventù e diviene il “luogo dell’anima”.
Nell’aprile del 1924, tornando da Roma, dopo aver incontrato Mussolini per un colloquio sulla situazione intellettuale in Europa, fece una breve sosta a Genova: «…Contento ed emozionato di ritrovare la mia città Genova. Tutto mi parla qui. Io la preferisco a tutte le Rome».
Ormai illuminato accademico di fama internazionale Valéry tornerà altre volte in città, l’ultima delle quali, nel 1933 ospite dell’Università in Via Balbi dove, come un cattedratico qualunque, terrà la sua “lectio magistralis” senza minimamente fare cenno al suo legame con la Superba.
Valéry, in verità, non ha dimenticato e ci ha lasciato in eredità una delle più appassionate, a mio parere, descrizioni della città:
“Ha una distesa di cupole, di monti calvi,di mare,
di fiumi, di neri fogliami, di tetti rosa.
E quella Lanterna così alta ed elegante,
e meandri popolosi, labirinti affollati,
le cui viuzze salgono, scendono, si intersecano improvvisamente,
sbucano sulla veduta del porto.
Genova, una città piena di sorprese.
Di porte scolpite in marmo, ardesia, casse, formaggi, scale,
biancheria al posto del cielo, cancellate,
bizzarro dialetto dal suono nasale e irritante,
dalle abbreviazioni strane, vocaboli arabi o turchi.
Pregevole ed imponente edicola barocco secentesca raffigurante il fondatore dei Padri Carmelitani, S. Simone Stock, ordine religioso che, in fuga dalle Crociate, trovò parecchi proseliti nella nostra città, in particolare proprio nel quartiere del Carmine, dove eresse nel 1262 la strepitosa parrocchia di Nostra Signora del Carmine e di S. Agnese.
Al suo interno sono stati rinvenuti, durante attività di restauro, affreschi di Manfredino da Pistoia, collega del più celebre Giotto e allievo del Cimabue.
Ospitava inoltre l’altare e la Confraternita dei Camalli.
“San Giovanni apostolo, particolare degli affreschi duecenteschi”.
Numerose sculture e quadri del Barocco secentesco genovese sono qui racchiuse come dentro a un prezioso scrigno… Nicolò Traverso, G.B. Paggi, G. De Ferrari, G. Assereto, Domenico Piola, G.B. Carlone e Giovanni David hanno lasciato traccia della loro preziosa arte.
Curiosità finale, questa Parrocchia oltre ad ospitare i funerali di Don Gallo, ha battezzato Palmiro Togliatti, padre del Comunismo nostrano.
L’origine del tessuto più commercializzato sul pianeta è qui a Genova.
Infatti già in pieno medioevo la saia di color indaco proteggeva, sotto l’armatura, i nostri Balestrieri.
Il commercio su larga scala iniziò a cavallo tra medioevo ed età moderna quando Genova era snodo di importazione di cotone e esportazione di fustagni e tele.
Il colore utilizzato era l’indaco proveniente dal Bengala e da Giava, meglio noto come Blu de Genes in francese e, tradotto in inglese, appunto Blue Jeans.
La Repubblica affidò la lavorazione di questo tessuto che, inizialmente aveva utilizzi prettamente navali, ai piemontesi di Chieri e ai provenzali di Nîmes.
Per questo motivo il Jeans è anche noto come Denim (De Nîmes… per contrazione “Denim”).
Nel nuovo mondo il Jeans divenne l’indumento principe di cercatori d’oro, di minatori e di vaccari, insomma dei cow boys.
Nell’800 continuò ad essere indossato dai portuali e persino da Garibaldi ed i suoi Mille.
A metà del secolo scorso raggiunse l’apice della popolarità grazie a James Dean, Kerouac e alla Beat Generation.
A testimonianza del legame popolare con la nostra città, un collezionista privato ha raccolto un presepe settecentesco le cui statuine sono vestite con abiti di jeans.
Esistono poi quattordici paramenti sacri cinquecenteschi dipinti su tela blu, provenienti dall’antica Abbazia di San Nicolò del Boschetto ora conservati presso il Museo Diocesano.
di Santi, di Madonne, di galeotti, di pittori e di assassini.
Nel 1133 San Bernardo di Chiaravalle che è a Genova per tentare di riappacificare la città con Pisa vi diffonde il culto della Madonna di cui è devoto.
Genova diventa fra le prime città in Italia a venerare la madre di Gesù. I caruggi, agli angoli dei palazzi, si popolano di edicole (“piccolo tempio” in latino) dedicate ai Santi protettori e a Maria.
Raggiungono la massima diffusione nel ‘700 dopo l’elezione nel 1637 della Madonna a Regina. Ogni corporazione gareggia per avere l’edicola più bella.
E’ un onore essere scelto per la loro cura, manutenzione e illuminazione.
In questo modo la sera Zena, a gratis, è sempre illuminata (altro che Londra o Parigi dicono i viaggiatori del tempo). Molte sono state rubate, altre distrutte dalle intemperie o deturpate dall’incuria: solo che nel centro storico se ne contano ottocentoquarantanove.
Alcune meritano di essere ricordate; “La Madonna del Galeotto” posta sotto il Ponte di Carignano così chiamata perché un giorno un marinaio arrestato ingiustamente si gettò ai suoi piedi per testimoniare la propria innocenza. Le catene si ruppero e il devoto Galeotto fu liberato senza processo;
La settecentesca “Madonna delle Cinque Lampadi” (in ardesia) presso l’omonima piazza, all’angolo con Vico del Filo, talmente bella che veniva illuminata giorno e notte appunto da cinque lanterne.
Secondo altre fonti invece nella zona sarebbe stata in compagnia di ulteriori quattro immagini sacre illuminate da altrettante lampade e, sarebbe quindi questa l’origine del toponimo;
“L’edicola degli orefici” dedicata a S. Eligio patrono degli orafi commissionata al pittore Pellegro Piola perché fosse, fra tutte, la più sfarzosa. Il Bianco, pittore amico del Piola, quando la vide, comprese quanto l’autore di tale opera gli fosse superiore.
Morso dall’invidia e dalla gelosia, la sera stessa, in Piazza Sarzano, attese il rivale e lo uccise accoltellandolo.
La leggenda narra che il fantasma del Piola, di notte,
Fin dal Trecento la Magistratura dei Conservatori del mare (il più antico organismo preposto a tutte le attività concernenti le acque e la marineria) aveva regolamentato e sancito il diritto al mugugno.
Un privilegio accordato agli imbarcati camoglini, i più bravi su piazza, ai quali venne concesso, oltre ad una migliore paga, il diritto di lamentarsi.
I genovesi infatti, in ambito marinaro, non tolleravano ordini o ingerenze da chicchessia quindi presero a brontolare e borbottare.
Vennero quindi stabiliti due tipi di ingaggio. il primo prevedeva paga elevata e niente mugugno, il secondo paga decurtata e diritto a lamentarsi.
Questa consuetudine venne interrotta e abolita nel ‘500, ai tempi dell’ammiraglio Andrea Doria quando questi propose ai suoi equipaggi migliori condizioni di lavoro (ad esempio riduzione dei turni di voga) e alimentari (carne essiccata a bordo al posto delle solite sbobe) nonché un salario più cospicuo in cambio della rinuncia.
Terminata l’epoca dell’ammiraglio i marinai della Superba continuarono a rinunciare a parte dell’ingaggio pur di mantenere il loro secolare diritto.
La quint’essenza dei genovesi deriva quindi dalla loro pretesa e manifesta superiorità marinara.
Il mugugno è catartico, basta a se stesso, non chiede, non pretende, proprio come l’indole dei zeneizi.
In origine la torre trecentesca, come anche il sottostante palazzo, apparteneva alla famiglia Fieschi. Accorpata al Palazzo Ducale è collegata da un arco al Palazzetto Criminale adibito ai malfattori comuni.
La torre era invece destinata ai prigionieri politici o comunque di riguardo. Nelle sue celle (una di queste “la Grimalda” dà il nome alla costruzione) furono rinchiusi personaggi straordinari:
Il Doge Paolo Da Novi, ribelle contro l’occupazione francese, poi decapitato; il pirata saraceno Dragut, il luogotenente del Barbarossa catturato dal Principe Doria; i cospiratori contro la Repubblica come Vacchero e Raggio; il violinista Paganini, il musicista più famoso del suo tempo, reo di aver molestato una minore; artisti come il Mulier, detto “Il Tempesta”, celebre per le sue tele marittime, accusato, ingiustamente, di uxoricidio; altri pittori che, durante la loro reclusione, hanno decorato i loro alloggi come Sinibaldo Scorsa, Domenico Fiasella, Luciano Borzone e Andrea Ansaldo.
Il mio pensiero però va a Jacopo Ruffini, compagno di Mazzini che, torturato e violentato, piuttosto che tradire i suoi ideali ed elencare i nomi dei membri della Giovine italia, ha preferito il suicidio.
Subito mi accarezza la mente la struggente “Preghiera in gennaio” di De André, dedicata all’amico Tenco.
Con il sangue delle vene recise ha scritto sul muro della cella: “la risposta?… la vendetta dei miei fratelli”.