Al civico n. 3 di Piazza Palermo proprio accanto alla sede della Pubblica Assistenza della Croce Bianca locale è possibile ammirare un elegante portone in stile neo gotico rinascimentale.
Gli stipiti del signorile ingresso sono intarsiati e il trave è sovrastato da un tripudio di disegni geometrici, riccioli e volute.
Le due nicchie su basamento a colonna culminanti in cuspidi ospitano le statue di altrettanti illustri genovesi: Cristoforo Colombo a sinistra e Andrea D’Oria a destra.
Il primo vestito elegantemente è rappresentato assorto nei suoi pensieri mentre regge in mano il globo. Chissà quale rotta starà studiando?
Il secondo invece dall’aspetto austero è bardato nella sua cotta di rappresentanza. Con una mano stringe una pergamena arrotolata. Forse un’importante missiva o un vantaggioso contratto? Con l’altra impugna fiero l’elsa della sua preziosa spada di prestigioso Defensor della cristianità.
In corrispondenza dell’altare principale della chiesa, sceso un elegante scalone di marmo, si accede infatti al suo mausoleo, costruito fra il 1543 e il 1547 dal grande scultore fiorentino, Giovanni Angelo Montorsoli.
In un ambiente intimo, raccolto ma allo stesso tempo maestoso si trova la tomba a sarcofago decorata con due imponenti angeli che reggono l’effigie del nobile genovese.
Lì accanto, custodita in una teca di vetro, la leggendaria spada di Andrea donatagli da Papa Paolo III nel 1535.
Tale arma costituiva anelato riconoscimento nella cristianità per pochi eletti condottieri che potevano così fregiarsi del prestigioso titolo di Defensor della Santa Croce.
L’ammiraglio la indossò fieramente per 25 anni fino al 1560, anno della sua morte, in tutte le cerimonie ufficiali. Come da disposizione testamentaria volle che fosse posta accanto a se nella cripta di San Matteo nel mausoleo dove venne sepolto insieme alla moglie Peretta e al nipote prediletto Giannettino ucciso durante la congiura dei Fieschi del 1547.
In copertina: la cripta con il mausoleo in San Matteo. Foto di Stefano Eloggi
Al civ. n. 17 di Piazza San Matteo si trova il palazzo donato nel 1528 dalla Repubblica all’ammiraglio per i suoi servigi alla patria.
Ad Andrea D’Oriae ad i suoi eredi fu inoltre riconosciuta l’esenzione perpetua dalle tasse.
L’edificio originario che venne edificato da Lazzaro D’Oria attorno al 1460 ha subito nel corso dei secoli diversi rimaneggiamenti e cambiamenti fino a raggiungere, nella forma attuale, una riuscita fusione tra tardo gotico e primo rinascimento.
Il portale di scuola toscana attribuito a Nicolò da Corte e Gian Giacomo della Porta, secondo altri invece a Michele d’Aria e Giovanni Camplone, è un autentico capolavoro.
Figure zoomorfe e decorazioni a candelabri riempono ogni spazio possibile: testine, animali fantastici, lucertole, teste di montone e leone, pavoni, sirene e ninfe danzanti, uccelli che beccano dai fiori, roditori spuntano dalle cornucopie, pesci mostruosi e grifoni appollaiati sui capitelli.
A questi motivi se ne intrecciano altri floreali come girali e corone di fiori.
Nei sopracapitelli quadrati, a ricordare la fazione politica di appartenenza, due teste di imperatore.
Sopra l’architrave è scolpita l’epigrafe retta da due putti alati che certifica la donazione:
Senat. Cins Andre / Ae De Oria Patriae /Liberatori Mvnvs / Pvbblicvm.
Incisa sulla lapide l’immagine di una sfinge simbolo e sintesi dei quattro elementi che costituiscono il creato.
I fregi ornamentali originali sul prospetto principale sono opera dei maestri antelami Giovanni da Lancio e Matteo da Bissone.
La classica facciata in marmo bianco e nero alternato presenta in alto sulla sinistra due piccole logge una sopra l’altra chiuse da una terrazza decorata con archetti.
All’angolo della prima un pilastro marmoreo è scolpito con guerrieri del casato in nicchie con conchiglie sulle volte.
La seconda loggia invece aperta presenta arcate a tutto sesto, volte a crociera e fregi di archetti.
In realtà il celebre ammiraglio non visse mai in questa casa preferendo stabilirsi nella sua lussuosa dimora di Fassolo.
In copertina: la casa di Andrea D’Oria in San Matteo. Foto di Stefano Eloggi.
A palazzo del Principe sono collocati tre straordinari cicli di arazzi quattro e cinquecenteschi: il primo dedicato alle storie di Alessandro Magno, il secondo ai mesi dell’anno, o meglio, alle divinità ad essi associate, il terzo alla battaglia di Lepanto.
Quest’ultimo ciclo è costituito da sei panni e due tramezzi conservati nella sala del Naufragio del palazzo.
Gli arazzi furono commissionati da Giovanni I Andrea D’Oria, nipote di Andrea, che fu tra i protagonisti del celebre scontro navale.
Ad elaborare i bozzetti preparatori venneri incaricati addirittura Lazzaro Calvi che disegnò le scene centrali e Luca Cambiaso che si occupò delle incorniciature e delle figure allegoriche.
La stesura degli arazzi avvenne a Bruxelles e furono consegnati a Genova nel 1591.
La sequenza degli episodi rappresentati ha inizio con La partenza da Messina della flotta cristiana, nel quale si descrive la partenza delle navi cristiane dal porto siciliano, sotto il comando supremo di Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V.
In basso a sinistra è rappresentata la “Capitana Nova” di Giovanni Andrea I, riconoscibile grazie alla presenza a poppa del fanale a forma di globo celeste, dono della moglie Zenobia.
A sinistra della scena centrale compare l’allegoria della Concordia, caratterizzata dagli attributi iconografici del caduceo e della lira, a destra si scorge invece la Nemesi, identificata dalla presenza di un metro e del freno che le viene offerto da un fanciullo.
Il secondo arazzo illustra la Navigazione lungo le coste calabre, mostrando l’avanzamento della flotta cristiana alla ricerca dello scontro con le navi turche. Il panno immortala il momento in cui la flotta della Sacra Lega costeggiò le coste della Calabria in direzione di Corfù, isola al largo dell’Epiro, caposaldo veneziano. Da lì giunsero poi a Lepanto, nei pressi delle isole Curzolari, anticamente conosciute come Echinadi, dove ebbe luogo lo scontro con l’armata turca. Le figure allegoriche che accompagnano l’episodio sono la Vigilanza, a sinistra, con gli attributi del gallo, della testa di leone e della gru e, sul lato opposto, il Dominio sul mare, caratterizzata da una folta chioma agitata dal vento e dal tridente di Nettuno.
Il terzo panno raffigura lo Schieramento delle flotte. A destra si vede l’armata turca, organizzata in una formazione continua, pensata con l’intento di aggirare le navi nemiche. I cristiani, a sinistra, si divisero invece in quattro corni: al centro si posizionarono le galee di Don Giovanni d’Austria, a sinistra quelle veneziane di Agostino Barbarigo e a destra quelle di Giovanni Andrea I Doria. In seconda fila si scorgono le navi della retroguardia, al comando di Alvaro Bazan. Tra i due schieramenti si vedono le galeazze veneziane, navi dotate di una ragguardevole potenza di fuoco, che si rivelarono decisive per le sorti della battaglia. Le allegorie della Speranza e della Prudenza affiancano la scena centrale, la prima caratterizzata da un giglio e la seconda da tre teste di animali (lupo, leone e cane).
L’arazzo dedicato alla Battaglia vera e propria reca la rappresentazione dello scontro, che si rivelò estremamente sanguinoso. La vittoria della Lega Santa, in una battaglia le cui sorti rimasero a lungo in bilico, fu conquistata grazie alla superiore potenza di fuoco della flotta cristiana. Il panno mostra ai lati della scena centrale la figura della Fortuna, rappresentata in equilibrio su una sfera e accompagnata dall’emblema della cornucopia, e della Fortezza, caratterizzata dalla presenza di uno scheletro, di una corona e di un ramo di quercia.
Il penultimo panno è dedicato alla Vittoria cristiana e la fuga dellesette galee turche. Favorite dal sopraggiungere della notte, sette navi turche, comandate dal corsaro Uluç Alì, riuscirono a sfuggire alla cattura. Giovanni Andrea I, la cui nave si scorge impegnata nel vano sforzo dell’inseguimento, fu aspramente criticato per la sua scelta di interrompere lo schieramento cristiano nel tentativo di realizzare una manovra di aggiramento dei turchi. L’arazzo presenta diversi elementi di trionfo sul nemico, rappresentato in catene nella porzione inferiore del panno.
L’ultimo arazzo della serie raffigura il Ritorno a Corfù. La flotta cristiana, vittoriosa, trainò nel porto veneziano circa centotrenta navi turche prese prigioniere durante la battaglia. In primo piano è rappresentata la Capitana Nova di Giovanni Andrea con una preziosa preda di guerra: la nave ammiraglia turca. A corredo della scena vi sono la Gloria, caratterizzata dalla presenza di un cigno, e la Fama, con i suoi attributi della tromba, della lancia e le ali tempestate di occhi, orecchie e lingue.
Dopo questa dettagliata ed erudita descrizione tratta pari pari (sarebbe stato presuntuoso togliere o aggiungere altro) dal sito doriapamphilj.it, riporto questa divertente storiella citata sulla relativa monografia del Prof. Barbero che la dice lunga sull’essenziale pragmatismo dei genovesi:
“… l’ammiraglio veneziano scrisse alla Serenissima “La Madrepatria è salva”; l’ammiraglio pontificio scrisse al papa “La vera fede ha trionfato”; l’ammiraglio spagnolo scrisse al re Felipe “Vostra maestà ora domina anche il Mediterraneo”; Gio Andrea Doria scrisse al suo amministratore “Smetti di pagare l’assicurazione per i carichi perché sul mare non c’è più pericolo”.
In copertina il primo arazzo che immortala la partenza della flotta da Messina.
Giovanni Andrea I D’Oria parente (cugino di terzo grado) del più celebre Andrea resterà nella storia sia come ammiraglio, avendo ereditato il comando delle galee spagnole a Genova e successivamente il titolo di Capitano generale del Mare della corona di Spagna nel Mediterraneo, per aver partecipato con discusse fortune alla battaglia di Lepanto, sia come mecenate per aver impreziosito la sontuosa dimora del Principe.
Non tutti sanno però che, oltre ad aver incrementato in maniera esponenziale la fortuna ereditata dell’illustre avo fino a diventare il privato cittadino più ricco d’Europa, fu l’audace e irriverente imprenditore che volle una nave bordello ancorata in Darsena.
Da alcuni decenni infatti il frequentato quartiere a luci rosse sotto il Castelletto era stato demolito, proprio al tempo e su iniziativa di Andrea, per far posto a metà ‘500 alla monumentale Strada Nuova detta anche Via Aurea.
Inoltre le prostitute come ricordato dal detto popolare “a l’è cheita na bagascia in maa sensa bagnase” non potevano né avvicinarsi ai moli, né di conseguenza salire a bordo delle navi.
Ma “se Maometto non va alla montagna- come recita un altro abusato proverbio- la montagna va da Maometto” e fu così che Giovanni I Andrea D’Oria ebbe la brillante idea di acquistare una galea battente bandiera spagnola, di ormeggiarla nella darsena e di allestire al suo interno un lussuoso bordello.
Con questo arguto stratagemma la nave risultava quindi essere fuori dalla giurisdizione della Repubblica e di conseguenza esonerata dalla tassazione e dalle regole in vigore sulla terraferma.
L’attività, nonostante i numerosi contenziosi nel tentativo di bloccarla, prosperò per oltre un secolo fino a quando nel 1716 il doge Lorenzo Centurione, per porre fine alla scandalosa situazione acquistò dagli eredi, pagandola una cifra folle, la nave.
A Villa del Principe il loggiato che si affaccia sul giardino è superbamente decorato da Perin del Vaga. Si tratta della celeberrima “loggia degli Eroi”, un cinquecentesco tributo di affreschi ad Ansaldo, Martino, Oberto, Lamba, Pagano… gli illustri avi della Casata.
La loggia degli Eroi era posta originariamente in posizione assai scenografica perché le cinque arcate erano rivolte sul giardino sottostante e direttamente sul mare. La sala costituiva lo snodo logistico che consentiva l’accesso all’appartamento del Principe a ponente e a quello della moglie Peretta Usodimare a Levante.
La scena concepita sulle pareti in tripudio di stucchi e colori raffigura dodici guerrieri, in vesti di antichi Romani (tranne uno, in armatura contemporanea), ben riconoscibili come membri della famiglia D’Oria grazie agli scudi recanti lo stemma del casato, un’aquila nera su campo oro e argento, e sono specificamente identificati come eroi del casato dall’iscrizione che li sovrasta:
“PRAECLARAE FAMILIAE MAGNI VIRI MAXIMI DUCES OPTIMA FECERE PRO PATRIA” (“I grandi uomini dell’illustre famiglia, capi supremi, fecero cose ottime per la patria”).
All’interno delle cinque volticelle che coprono la loggia sono rappresentati, in ottagoni circondati da stucchi finissimi (ispirati alla Domus Aurea di Nerone), esempi classici di patriottismo romano, celebri episodi di sacrificio di sè per amor di patria, di cui sono protagonisti Orazio Coclite, Tito Manlio Torquato, Marco Curzio, Furio Camillo e Muzio Scevola. Le figure dei D’Oria realizzate da Perin del Vaga, al secolo Giovanni Bonaccorsi, risentono in maniera evidente delle influenze medicee michelangiolesche.
Se c’è un luogo comune associato ai genovesi è proprio quello legato alla loro presunta avarizia. Una storia che parte da lontano, da molto lontano probabilmente già al tempo del famoso “Emmo Za Daeto” pronunziato dai legati della Repubblica in faccia all’Imperatore Federico Barbarossa che, pretendendo da costoro tributo, ottenne invece l’orgoglioso rifiuto.
Una caratteristica questa legata alla gestione del denaro che si rafforza a partire dal ‘400 quando, a seguito dell’istituzione del Banco di San Giorgio avvenuta nel 1407, la Superba diviene la regina delle transazioni finanziarie contendendo il primato in questo ambito ai grandi banchieri teutonici e sassoni.
E siccome “a prestâ e palanche à un amigo, ti perdi e palanche e ti perdi l’amigo” i genovesi, ligi all’antico adagio,
(se presti soldi ad un amico, perdi i soldi e perdi l’amico) fanno fortuna prestando “palanche” alle emergenti e ambiziose monarchie francese e spagnola.
Sul finire del secolo Genova, fiutandone il senso degli affari e le potenzialità economiche, accoglie la prima comunità di ebrei sefarditi espulsi dalla Spagna cattolica da Isabella di Castiglia. Da questi i Genovesi apprendono e affinano sia le tecniche commerciali che le pratiche di strozzinaggio. Ed è proprio in questo periodo che, per calmierare e porre freno alla lucrosa gestione dei prestiti, vengono istituiti anche a Genova i banchi di pegno.
A detta degli storici però il vero spartiacque in relazione all’assioma “genovesi quindi avari” che si sostituisce nell’immaginario collettivo al precedente “genuensis ergo mercator” (genovese dunque mercante) risale al 1588 quando i destini della Signora del mare si incrociarono con quelli del grande corsaro inglese Sir Francis Drake.
Da tempo infatti Genova aveva rinunciato alla sua vocazione marittima preferendole quella finanziaria e bancaria: quello che veniva identificato come “Il siglo de los Genoveses” quando i forzieri della città partivano per la Spagna e tornavano onusti di oro delle Americhe, tanto che si diceva: “l’oro nasce nel Nuovo Mondo ma viene sepolto a Genova”, volgeva ormai al tramonto.
Era il periodo in cui le dimore patrizie genovesi erano le più sfarzose d’Europa: una ricchezza comunque mai ostentata fine a se stessa ma semmai consona al rango per doveri di rappresentanza e prestigio sociale, più spesso, accuratamente nascosta e considerata solo un modo redditizio per diversificare gli investimenti.
“o cû e i dinæ no se mostran à nisciun”
(il sedere e i soldi non si mostrano a nessuno).
I genovesi dunque così pronti a viaggiare per il mondo, protagonisti dei commerci e delle scoperte geografiche invece a casa loro sono schivi e diffidenti, per nulla inclini a mostrare le proprie ricchezze e proprietà.
Era scomparso da circa un lustro Andrea Doria quando nel 1585 era scoppiata la guerra tra Spagna e Inghilterra e Filippo II, per sconfiggere la terra di Albione di Sir Francis Drake, decise di allestire l’invincibile “armada” commissionandola, come da consolidata tradizione, ai genovesi.
I nostri armatori erano indecisi e titubanti se investire così tanto denaro in un’impresa a tal punto rischiosa da mettere a repentaglio le risorse della Repubblica ma decisero comunque di restare fedeli alla corona degli Asburgo e di finanziare questa operazione. Vennero allestiti 130 vascelli, con relativo armamento di 24.000 uomini, pronti per affrontare le terribili battaglie del 1588.
La sorte avversa culminata in una serie anomala di violentissime tempeste unita all’indiscussa abilità e capacità marinara di Drake infransero i sogni spagnoli e con essi anche le speranze di lucro dei genovesi.
Per la regina del mare, dopo un secolo di ricchezze, agi e splendori, si trattò di un colpo durissimo dal quale non riuscì più completamente a risollevarsi. La Spagna terminerà la sua iperbole di dominio europeo e Genova, fedele alleata, ne seguirà il declino con l’aggravante di non riuscire più né a pretendere, né di conseguenza a riscuotere i crediti maturati e dovuti.
Da qui si fa risalire quindi la diffidenza quando si parla di dinæ nei confronti dei “furesti” e quel senso di malcelata rassegnazione (se non era per gli spagnoli…) che porterà i nostri avi ad essere più che mai accorti nei loro futuri investimenti: quello che per gli altri quindi è tirchieria per i genovesi è parsimonia perché – e la storia ce lo insegna – “maniman” non si sa mai.
Perché se nel campo delle scienze Lavoisier teorizzava “in una reazione chimica nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma” per i genovesi, in quello economico, nulla si butta via, nulla si spreca e tutto si ricicla e risparmia”.
In copertina allegoria dell’avarizia – miniatura dal Trattato sui Sette Vizi Capitali di Cocharelli – Genova, 1330-1340.
Davanti al giardino meridionale, dominato da una statua di Nettuno (eretta al tempo di Giovanni Andrea), chiaro riferimento analogico alla supremazia dell’ammiraglio) proteso verso il mare (immaginatelo senza il porto e la strada sopraelevata, in diretto rapporto col mare quindi), attraccavano le galee della flotta delle aquile dei Doria nel momento in cui l’ammiraglio (prima Andrea, poi Giovanni Andrea) doveva imbarcarsi sulla Capitana (l’ammiraglia) o doveva sbarcarne per tornare a casa.
Oltre all’ormai celebre galeone dei pirati al Porto Antico è ormeggiata la riproduzione della fregata “Argo” di Andrea Doria.
La barca è stata ricostruita seguendo fedelmente i disegni originali del Cinquecento. “Argo” monta issati i due vessilli verdi (il colore della famiglia) ed i due vessilli bianchi fregiati dall’aquila araldica dei Doria. Il tutto è completato da un tendale in prezioso velluto cremisi. L’imbarcazione serviva all’epoca per trasportare i nobili ed i notabili che giungevano via mare fino alla residenza del Palazzo del Principe, la sontuosa villa sul mare da cui l’ammiraglio poteva dominare il porto e il golfo di Genova.
Ma l’ammiraglio aveva sempre, ancorate in Darsena, 12 galee in assetto da guerra (che aumentarono poi fino a 20) al comando della quale v’era la Capitana, la galea più prestigiosa del suo tempo.
Una nave sfarzosa e dalle dimensioni ragguardevoli al servizio del Signore del mare. A quel tempo era stata stabilita insieme all’imperatore Carlo V la spedizione in Africa e, per l’occorrenza, l’ammiraglio aveva dato disposizione per l’allestimento di una nuova flotta e di una degna capitana di tale stuolo.
“Il Signor Principe facea fare una quadrireme, legno non usitato, per vedere se riuscita bene, per servirsene riuscendo molto utilmernte” raccontano i cronisti del tempo e ancora “L’Imperatore è sbarcato in la quadrireme, la quale è la più bella galera che si possa immaginare, e a popa li è preparata una cameretta ove dormirà esso et lo Infante Don Luis di Portugal”.
“La quadrireme è tale che a gran fatica non si potrebbe meglio pingersi et immaginarsi”… un altro storico… “Questo legno era con sì raro artificio et con tanta et si nuova magnificenza fabbricata, et ornato così riccamente, che pareggiava in questo genere le spese superbissime delli antichi imperatori”.
“Il Principe Andrea Dorio ha fatto una galera per la cesarea Maiestà; quale dicono essere longa quindice palme et larga quatro più delle altr. Dove che nelle altre usano tre rafforzati (tre fila di rematori) per banco in questa ne usano quatro: E de qui preso il nome Quadrireme. In prora vanno tre gagliardi, che così dicono stendardi, con Bandere de damasco cremesin; longhe palmi ventitrè l’una, posti tutti in oro. In quello de mezo una stella tutta d’oro col campo pieno de razi et freze atorno, con littere che dicono, “Vias tuas Domine dimostra mihi (Signore mostrami le tue vie”.
Nelle altre dui la impressa de sua Maestà; con facelle de foco, con parole che dicono Ignis ante ipsum precedet (il fuoco lo precede).
Ne la bandiera della Gabbia qual pendeva fino al mare un Angelo molto grande con littere intorno che dicono Misit deus angelus suum ut custodiat te in omnibus viis tuis (Dio pose un suo angelo a custode delle tue vie).
Ne la bandiera de la Antena (pennone) uno Scuto, una celata (elmo), una spada con parole intorno Apprehende arma et scutum et exurge in adiutorium mihi (Afferra lo scudo e le armi e corri in mio aiuto).
Tre stendardi, dui de largheza de sette pezze, l’altro de otto longo palme vinticinque; l’altro trenta.
Nel grande il Crucifixo con freze (frecce) d’oro senza parole. Neli altri dui le armi de sua Maestà et staranno innanzi la popa dreto le qual anderà una bandiera de damasco biancho longa vintisei palmi; in mezo una pietra de littere Arcum conteret et confriget ; arma et scuta comburet igni (l’arco si consuma e si spezza; brucia le armi e gli scudi col fuoco), et per lo campo chiave calici et croce de sancto Andrea. Dale bande duoi altre bandiere con littere intagliate Et plus ultra con l’impressa stemma di sua Maiestà.
Poi si ferno vintiquatro bandiere de damascho con campo gialo messo in oro con le arme de sua Maiestà: con le frezi rosse ne li cantoni de argento con le impresse de la sua Maiestà.
La Camera viene tutta intaliata de lavori bellissimi de legname messi in azuro et or, et de più altri paramenti di tela d’oro e d’argento.
Le pope viene medesimamente intagliata de uno Cendale de Veluto cremisino fodrato de brocato riccio sopra riccio; et un altro di scarlato pe ogni dì.
La Ciurma vestita di seta con camise lavorate di seta. L’arteglieria che è portata da ogni parte serà molto grossa e minuta.; gli huomini che ce andaranno si pensa che saranno ben vestiti et ben armati con questa et quatordece altre galere andava in Barzellona ove se intende che serà sua Maiestà. Et sono opinioni che voglia venir in Italia un’altra volta: pur il più crede che no, et che il Principe piglierà li sette mila spagnoli che sono in ordine per questa impresa: et l’armata de Spagna et de Portugallo et verrà in Sardegna. El signor Marchese con le altre galere et nave che son qui, imbarcarà li quatro milia italiani et sette milia Todeschi che sono in Lombardia, et andràno a napoli e de lì in Sicilia per pigliare cinque milia spagnoli che sono lì: et le galere passeranno in Sardegna”.
Nel 1538 Andrea Doria, in occasione dell’arrivo a Genova sia dell’Imperatore Carlo V che del Papa Paolo III organizzò un’imponente parata navale davanti al porto con lo scopo di dimostrare, se mai ce ne fosse stato il bisogno, tutta la sua potenza.
L’incontro aveva l’obiettivo di preparare una crociata contro gli Ottomani: un anticipo di quella alleanza che porterà alla vittoria di Lepanto nel 1571. La flotta genovese, seconda per numero di galee a quella turca e veneziana ma non per efficienza e qualità, avrà un ruolo decisivo nelle guerre combattute dalla Spagna nel Mediterraneo durante il XVI secolo.
In copertina: Il convegno del 1538 tra l’Imperatore Carlo V, il papa Paolo III e Andrea Doria di fronte a Genova, in un dipinto fiammingo. Sulla galea che ospita i tre personaggi, in primo piano a destra, sono raffigurati i simboli papale [l’Eucarestia], imperiale [l’aquila] e di Andrea Doria [il rostro]. L’ammiraglio indica con la mano ai due capi della Cristianità la rotta verso levante. Immagine tratta da giuntafilippo.it.
Dagli archivi della Repubblica si evince che I biscotti del Lagaccio nacquero nel 1593 in un antico forno nelle vicinanze del bacino artificiale omonimo creato qualche decennio prima per volere di Andrea Doria. L’ammiraglio infatti necessitava di molto acqua per irrigare i giardini, i frutteti e le fontane della sua principesca dimora.
Nel secolo successivo in zona la Repubblica vi impiantò una polveriera per la fabbricazione, appunto, di polvere da sparo. Processo che necessitava anch’esso di copioso approvvigionamento idrico.
Sia il popoloso futuro quartiere che il gustoso biscotto nel ‘600 presero il nome dal toponimo dispregiativo che assunse, per via delle sue torbide e pericolose acque nelle quali affogarono diverse persone, il lago, definito appunto “U Lagasso”, il Lagaccio.
I bescheutti do Lagasso in origine erano delle semplici fette di pane, molto simili alle gallette del marinaio, biscottate bis- cotte, appunto cotte due volte, per facilitarne il processo di deumidificazione, caratteristica fondamentale richiesta dai marinai per meglio conservarle durante i viaggi in mare.
Con l’aggiunta di aromi o liquore all’anice (da qui anche gli anicini), burro e zucchero questi biscotti hanno trovato nel secolo scorso adeguata collocazione nell’ambito della tradizionale pasticceria secca mentre nel basso Piemonte si sono diffusi nella variante più leggera di biscotti della salute, più adatti alla prima colazione.
Ancora oggi i biscotti del Lagaccio costituiscono un prodotto tipico confezionato da diverse aziende alimentari locali molto apprezzato dai consumatori.
Non so se il primo in assoluto, ma certamente è stato uno dei primi viaggiatori anglosassoni a documentare il suo viaggio a Genova. Fynes Moryson giunse a Genova a fine ‘500 partendo da Livorno a bordo di una feluca che aveva costeggiato il litorale. Una volta doppiato il monte di Portofino l’imbarcazione, sbattuta come un fuscello sulle rocce della costa, s’imbattè in una violenta tempesta inducendo i passeggeri ad affidarsi alla clemenza divina. Il britannico invece, evidentemente esperto nuotatore, si tuffò in mare riuscendo a mettersi in salvo sugli scogli. Da qui la compagnia nuovamente ricostituitasi si mise in viaggio verso Genova, in silenzio, facendo attenzione anche al proprio calpestio, intimorita dal fatto di aver incontrato un villaggio distrutto e bruciato di recente dai turchi.
“All’entrata di Genova scorgemmo due palazzi signorili, uno di Giorgio d’Auria, l’altro di un signore chiamato Cebà. Mentre ci si avviava dentro la città e prima di entrarne alle porte v’è il sontuoso palazzo di Andrea d’Auria. L’edificio stesso, il giardino, le scale digradanti al mare, la sala dei banchetti, e diverse pinacoteche sono di magnificenza regale. Non lungi da lì, a una parete c’è una statua eretta ad Andrea Doria, l’ora defunto ammiraglio della flotta ispana… In persona io vidi il palazzo di Gian Battista d’Auria la cui dimora era assai maestosa e il giardino non solo assai piacevole ma adorno di statue e di fontane. Genova s’è fortificata verso il mare con ogni e verso terra sia attraverso la natura che l’arte essendo l’accesso alla città uno solo e impervio. Le strade sono strette, i palazzi eretti magnificamente, con marmo e le altre costruzioni di pietra libera, a cinque o sei piani e le finestre sono vetrate cosa rarissima in Italia. Le vie sono lastricate con silice e le case dei sobborghi sono quasi belle come quelle cittadine. Verso le isole della Corsica e della Sardegna nel mare genovese si pescano coralli… Ora proprio in pieno dicembre i mercati erano pieni di fiori estivi, erbe e frutti. Si dice proverbialmente di questa città: “Montagne senza legni, mare senza pesci, Huomini senza fede, Donne senza vergogna, Mori Bianchi, Genova Superba”…
“Gli uomini genovesi, nel loro festeggiare, danzare e in una libera conversazione e le donne nei loro abbigliamenti si avvicinano più ai francesi che agli italiani”.