“E’ classificabile tra i veleni corrosivi, tra i fermentativi, e tra i vaporosi; e quanto alla sua sostanza, non dubito d’affermare che sia un sottilissimo Arsenico”.
Con queste parole il settecentesco medico Bartolomeo Alizeri descriveva il morbo nel suo “Della peste, cioè della sua natura, e de’ Rimedi per la preservazione e per la cura” e definiva il flagello principe, la morte nera, uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Di tale tragedia costituisce mirabile testimonianza un ex voto di Domenico Piola conservato nella sacrestia della chiesa di Nostra Signora del Carmine che ritrae San Simone Stock, priore generale dei Carmelitani del XIII secolo, in venerazione davanti alla Madonna.
Nella parte inferiore del quadro si nota un gruppo di monatti all’opera nei pressi dell’erigendo Albergo dei Poveri, intenti a seppellire i cadaveri degli appestati.
La scena immortalata fotografa l’epidemia di “manzoniana memoria” del 1630, cui l’artista stesso era sopravvissuto e che aveva causato 50000 vittime.
Non meno catastrofica fu quella, forse ancor più celebre, del 1656/1657 che secondo alcuni diminuì di due quinti, per altri addirittura dimezzò la popolazione, che annoverava a quel tempo circa 90000 abitanti.
Nella primavera del 1656 si manifestarono i primi casi, in forte aumento nei mesi estivi; l’inverno parve rallentare la diffusione del morbo ma all’inizio dell’anno successivo la peste esplose nuovamente in tutta la sua nefasta virulenza.
Non fu sufficiente, vista l’emergenza, trasformare solo l’ospedale di Pammatone in lazzaretto, ma fu necessario approntarne altri: a quelli realizzati presso la chiesa della Consolazione e nella zona della Foce se ne aggiunsero presto altri a Sampierdarena, Cornigliano e nel resto della regione.
La medicina brancolava nel buio adottando rimedi assai poco scientifici come, ad esempio, l’utilizzo come medicamento di polveri di pietre preziose che spesso – invece che guarire – fungevano da veleno.
Anche le precauzioni erano piuttosto fantasiose: per limitare il contagio si aspergevano di aceto e profumi le missive provenienti da zone ritenute a rischio e, sulla base delle prescrizioni consigliate da Aristotele che riteneva tale cibo immune dal contagio, si raccomandava di consumare pesce.
Cautele più sensate che adottiamo ancora oggi erano invece quelle concernenti veti e blocchi relativi all’arrivo di merci e viaggiatori.
Inoltre gli indumenti dei sospetti contaminati, molto pragmaticamente, venivano come del resto i cadaveri delle vittime, bruciati.
Considerate le scarse condizioni igieniche del tempo non apparivano invece insensate misure quali la bonifica delle fognature e la dotazione di casacche di tela cerata per chi operava a stretto contatto con i contagiati.
La corporazione dei profumieri assumeva di conseguenza in questo contesto grande importanza e prestigio. A costoro era infatti affidato il compito sia di disinfestare i locali occupati dai malati che di predisporre, dotandola di sostanze, spezie, ed essenze odorose, la caratteristica maschera con il “becco” dei medici.
Nel ‘700 la peste parve allentare la presa ma solo per lasciare spazio nel secolo successivo ad un altro non meno spietato nemico: il colera.
Quelle del 1835, 1848/49, 1854, 1866/67 e 1884/1893 furono le epidemie più nefaste per la nostra città.
In copertina Madonna e san Simone Stock, 1657, della chiesa di Nostra Signora del Carmine.