… “E quando Roma ha voluto regalarsi una comoda via per passeggiare nel suo dominio e legarselo per l’eternità, è arrivato in quei luoghi il console Aurelio. Un console grasso e pieno d’ira che spingeva avanti a colpi di gladio, con la sapienza e la crudeltà che hanno come dote naturale i tracciatori d’imperi, un’altra immensa carovana cicalante di diecimila e più tra schiavi e picchettini e sterratori e camalli, operai e ingegneri, e puttane e bestie da soma e da sell, tutti quanti a ritmare per la parte che gli toccava l’infinita cantilena della strada che avanza. E la strada avanzava diritta, avendo per limite soltanto il lontano fiume Oceano, oltre tutte le montagne, i fiumi, le pianure, oltre tutte le genti e ancora oltre.
E quando arrivò alla valle degli Apui, al console fu fatto notare che affioravano, mal sepolti fra i cavezzi e le mortelle della prataglia, i resti di cinquemila suoi commilitoni e del collega console Marcello. Dolente e furioso alzò lo sguardo al cielo dei suoi dei di vendetta e incontrò quel poggio disperato da dove, a quattro zampe, c’era chi li stava spiando.
Egli fece compiere allora alla sua Via una complicata manovra a serpente che, deviando dal percorso stabilito, invadesse i bozzi dell’acquitrino, bonificando ogni eventuale traccia di invendicata ferita romana. Ci morirono in parecchi tra i suoi, nel tirar su tra la polta malarica un terrapieno che tenesse l’armatura di una via consolare destinata a durare per l’eternità, ma infine ci riuscì tronfio e testardo.
Terminata l’opera, fece rifare i calcoli a suo comodo per collocare proprio nel punto che poteva essere visto dalle tane di quel poggio, un bel cippo militare in pietra bianca di quelle montagne con sopra incise quattro C in maiuscolo monumentale. Mai una strada si era spinta così avanti nel mondo nero dei barbari.
La notte che l’opera fu finita fu posato il cippo, dall’alto del loro recinto ormai definitivamente inchiavardato, quel poco di gente che c’era, vedeva spandere dalla pietra cavata dai suoi monti una luce più candida della luna, una luce che confondeva il cielo e abbagliava ogni possibile cammino nella valle. E quel bagliore se lo indicavano muti a vicenda”.
Non tutti gli Apuani furono deportati. Alcune comunità sopravvissero ancora nel territorio montano, tanto che ancora nel 155 a.C. (ben 25 anni dopo le grandi deportazioni che evidentemente non erano state risolutive) gli Apuani capeggiavano una coalizione di Liguri sconfitta dalle legioni del console Marcello in una guerra che non deve essere stata secondaria. Infatti il console ebbe l’onore del trionfo e i cittadini romani di Luni ringraziarono il generale romano dedicandogli una colonna rituale che celebrava la vittoria sugli Apuani (la stele è stata rinvenuta da scavi archeologici nell’area di Luni).
Racconta Livio “… partì per primo Quinto Marcio per raggiungere il territorio dei Liguri Apuani. Mentre li inseguiva addentrandosi in gole nascoste, che essi avevano sempre usato come nascondigli e rifugi, giunto in una strettoia che i Liguri avevano già precedentemente occupato, finì con l’essere circondato in una posizione sfavorevole. Furono uccisi quattromila soldati (…) il console, appena uscito dal territorio nemico, volendo evitare che apparisse chiaramente di quanto le sue truppe si erano assottigliate, ripartì l’esercito in diverse zone del territorio pacificato. Ma non gli riuscì di impedire che quella sconfitta acquistasse una sua rinomanza, perché i Liguri chiamarono Salto Marcio il luogo in cui lo avevano messo in rotta”. Livio XXXIX,20.
Nel 186 a.C. i Liguri Apuani inflissero una grave sconfitta al console Quinto Marcio Filippo, ed alle sue legioni, dopo averle attirate nelle strette gole della zona. Furono uccisi non meno di 4.000 legionari ed il luogo del disastro fu quindi successivamente chiamato “Saltus Marcius”, forse l’attuale località di Marciaso (che deriverebbe da Martii Caesio), forse le strette gole sopra Seravezza, nel territorio del comune di Stazzema. Tra Pontestazzemese e Cardoso esiste ancora oggi un colle denominato “Colle Marcio”, con un probabile riferimento al “saltus Marcius” (salto nel senso di dislivello e Marcius dal nome del console romano), nome che secondo Tito Livio avrebbe preso la località a seguito della battaglia.
Questo insomma è l’anno di gloria degli Apuani che riescono a battere i Romani grazie ad un’imboscata. Comunque, dopo tante sconfitte, gli Apuani riescono finalmente a prendersi una rivincita prima della tragedia finale. Il coraggio e la fierezza di questo popolo che non scende a compromessi è davvero ammirevole.
I successi dei Liguri Apuani, però, furono di breve durata: tra il 180 a.C. ed il 179 a.C. gli Apuani sopraffatti vennero in gran parte deportati nel Sannio (Macchia di Circello), in due scaglioni ed anni successivi composti, se vogliamo dar credito alle cifre trionfalistiche di Tito Livio, di 40.000 e 7.000 individui per convoglio.
Nonostante la provvisorietà delle loro vittorie gli Apuani, uomini e donne, furono ricordati a lungo come valenti guerrieri dai romani e alcuni storici romani li descrivevano così: “Le donne combattono come gli uomini, spietate e feroci come fiere” e ancora, con riferimento alla sconfitta romana del 186 a.C., “si stancarono prima gli Apui di inseguire, che i romani di fuggire”. Ma i Romani erano destinati a tracciare un solco indelebile nella storia. Di lì a poco avrebbero dato la civiltà al mondo costruendo ponti, acquedotti e strade.
Strade come la via Aurelia l’antica via consolare iniziata, alla metà del III secolo a.C. dal console Gaio Aurelio Cotta, per congiungere Roma a Cerveteri e poi prolungata fino a collegare le nuove colonie militari sul litorale tirrenico.
Quel selciato puntellato di sampietrini sta lì a ricordarci questa meravigliosa storia scritta con il rosso scarlatto del sangue dei suoi eroici protagonisti, i nostrani Asterix ed Obelix che, forse, sarebbe meglio chiamare Albiorix (il dio celto ligure delle montagne) e Obelin.
In Copertina: Striscia di Asterix in lingua genovese.