Certo due cose non mi sono, come credo alla maggior parte dei miei concittadini, piaciute: più che l’inopportuna inflessione romana, l’assenza se non della lingua, per lo meno della cantilena nostrana la prima; la citazione fra tante specialità genovesi (anche cantate da Faber penso alla Cima e al pesto) della carbonara, la seconda.
Si può anche discutere sul finale già che siamo in tema romano “alla volemose bene” e ai diversi pesi in termini di importanza attribuiti ai vari episodi della vita dell’artista.
Molto ad esempio è stato dedicato all’esperienza sarda e al rapimento, nulla al periodo infantile piemontese e poco a quello inerente agli ambienti anarchici rappresentati in maniera marginale dalla figura del poeta Riccardo Mannerini.
Genova proprio come una madre discreta appare, seppur di una bellezza disarmante, un po’ in disparte.
Il protagonista a livello di mimica, secondo il mio modesto parere, è stato all’altezza e così gli altri attori. Detto questo, nel complesso vado “in direzione ostinata e contraria”, il fumettone non mi è dispiaciuto.
Avendo letto diverse biografie, mi riferisco in particolare a quelle di Milesi e Viva e il suo unico romanzo scritto a quattro mani con Gennari “Un destino Ridicolo”, ho trovato corrispondenza con quanto era di mia conoscenza.
Credo che la delusione di molti sia dovuta al fatto che si aspettavano un panegirico sul De Andre’ artista e invece è stato un racconto del Fabrizio uomo. Con le sue debolezze, contraddizioni, sofferenze. Insomma la sua umana fragilità così bene espressa nella sua canzone manifesto e autobiografica “Amico Fragile”.
Il rapporto intimo con la divinità che alberga in ogni uomo e non nelle chiese e l’anarchia sperimentata come soluzione a domande che risposta non hanno.
La scrittura di parole e musica come catarsi, come unica via di salvezza. La scelta di schierarsi con gli ultimi e di interrompere il banale refrain “Cuore e Amore” per proporre qualcosa di più colto elevato ma, al contempo, fruibile a tutti.
Perché Fabrizio sceglie si il linguaggio ma anche il suo interlocutore, l’anima e quella non ha censo né titoli.
All’insicurezza e alla timidezza dell’artista fanno da contraltare la carnalità delle sue frequentazioni nei caruggi, l’amicizia intellettuale con Tenco e quella goliardica con Villaggio.
Il Fabrizio figlio di un padre ingombrante e fratello di un altro De André non meno competitivo. La paura di non farcela, di non essere all’altezza.
Il matrimonio borghese con la prima moglie Puny, il rapporto di padre assente nei confronti di Cristiano prima e di Luvi poi, perché immerso nella ricerca, prima che della perfezione, di sé stesso.
Il fumo l’alcool come anestetici di un’anima troppo sensibile per annegare nelle convenzioni borghesi. Convenzioni infrante dall’amore maturo e spontaneo con Dori.
L’esperienza devastante del rapimento in Barbagia. La straordinaria promessa al padre in punto di morte per me, forse il momento più alto, in cui Fabrizio uomo si supera cercando di esaudire prima che il padre la propria coscienza. Perché in fondo tutti noi non aneliamo altro che scendere dalle braccia del padre e correre per il mondo per poi tornarci fra quelle braccia e dire “Hai visto papà?”.
Papà ha visto eccome perché parole sue “Regalandoti una chitarra ho fatto il più grande investimento della mia vita”.
De André che dipinge con le note e scolpisce con le parole. Un artista che non lascia nulla al caso e che leviga i versi alla ricerca perenne dell’irraggiungibile perfezione, come fa il mare con i sassi sulla spiaggia.
Il tendere alla perfezione questa la vera cifra di Fabrizio.
Ecco forse il De André artista meritava più risalto ma senza l’uomo così umano e fragile non ci sarebbe stato il più grande poeta del Novecento e questo – spero – insieme all’ineguagliabile bellezza della Superba, l’abbiano capito anche i sei milioni d’italiani che hanno seguito la fiction.
Genova 16 febbraio 2018