L’anno in cui lo scrittore visitò per la prima volta Genova è il 1814. Arrivò nella città ligure il 31 agosto di quell’anno e venne accolto nella villa della marchesa Teresa Pallavicini tra Quinto e Nervi (oggi Via Giannelli). Stendhal fu suo ospite fino al 18 settembre. Poi partì per Livorno. In una sua lettera, datata 24 settembre 1814, il romanziere infatti raccomanda alla sorella Pauline «d’inviare cinquanta piante di pesche delle migliori specie – le piante acquistate al vivaio di Lione – alla signora marchesa Pallavicini a Genova» per ringraziarla della sua cordialità.
Appena conclusosi il soggiorno presso la marchesa, lo scrittore scrisse altre lettere, raccolte in un volume dal titolo “Journal”. In una di queste, datata 22 settembre 1814 Stendhal fa un elenco molto preciso degli “oggetti d’abbigliamento” che acquistò nella città ligure: «ho fatto fare tre gilet, quattro pantaloni e due o tre paia di scarpe. In più ho acquistato un cappello e libri (le opere complete di Fénelon e De Brosses) per 48 franchi».
Stendhal parla di Genova anche in “Journal d’un voyage en Italie et en Suisse, pendant l’année 1828”: una sorta di “quadernetto propedeutico al viaggio in Italia” di 37 pagine. Si tratta di una vera e propria guida turistica, in cui fornisce particolari descrizioni della città e consigli utili al cugino Romain Colomb che, per rimettersi da una malattia, si stava preparando ad un viaggio in Italia. Colomb partì da Parigi il 14 marzo 1828 ed aveva in tasca il “vademecum” scritto sotto il dettato di Stendhal.
Per quanto riguarda il mezzo di locomozione più efficiente per intraprendere il viaggio, lo scrittore afferma in proposito: «si potrebbe andare a Genova con la diligenza, ma è molto meglio prendere un vetturino, c’è il vantaggio di vedere da vicino quattro o cinque italiani e di conoscerli più a fondo di quanto non si farebbe con cinquanta visite… Durante il viaggio la scelta dell’albergo spetta al vetturino». Arrivati in città, Stendhal consiglia di «prendere una stanza alla pensione Svizzera, vicino ai Banchi (la borsa ha questo nome) e qui bisogna chiedere la camera 26 al quarto piano, dalla quale si vedono il porto e la montagna. Bisogna dire: “Mi dia la camera che un russo ha occupato per 22 mesi”. Costa un franco e venticinque al giorno. Di fronte c’è un ristorante dove si può mangiare scegliendo una lista».
Inoltre il libretto cita anche i monumenti e i palazzi della città ligure degni di visita, ad esempio: «Vedere la cattedrale e il famoso quadro di Giulio Romano; vedere l’Albergo dei Poveri: bassorilievo attribuito a Michelangelo; vedere il palazzo del Re; quattro collezioni di quadri in palazzi della via principale; vedere la sala del ricevimento di Palazzo Serra e la passeggiata d’Acquasola dove la sera si può ammirare uno stupendo tramonto».
Tuttavia l’opera di Stendhal che maggiormente ha contribuito ad una descrizione più precisa e dettagliata della Superba è “Mémoires d’un touriste” pubblicato nel 1838. Qui l’autore spiega, fin dalle prime pagine, il motivo di questo suo nuovo viaggio nell’Italia che ha sempre sognato: un viaggio semplicemente di “piacere” che poté permettersi dopo sette anni passati, come lui stesso dice, “ai ferri”. In questo libro, Stendhal ricorda di essere arrivato nella città ligure alle cinque del mattino a bordo di un imbarcazione: il “Sully “ e di avere espresso subito la volontà di passare un’intera giornata a visitare Genova, prima di proseguire alla volta di Marsiglia.
Stendhal ebbe modo, in quell’occasione, di soggiornare nell’albergo definito da lui ironicamente «il più grande e alla moda presente in città»: La Croce di Malta; qui infatti, come già si aspettava, non trovò nessuna comodità. Nel corso delle diciannove ore che passò a Genova, l’autore riporta di aver cambiato tre volte camera tanto che il cameriere non sapeva più in quale stanza l’illustre ospite si trovasse. Comunque, la prima impressione che lo scrittore provò ad una visita ancora “acerba” della città non fu negativa e può essere ben esemplificata dalle parole che qui riporto tradotte: «la città è mirabilmente situata ad anfiteatro sul mare. Fra la montagna, alta quattro volte Montmartre e il mare non c’è stato spazio che per tre strade orizzontali: una a otto piedi di larghezza ed è quella del grande commercio dove si trova del buon caffè; l’altra, dietro il porto, è riservata ai marinai; la terza, quella più vicina alla montagna e che porta successivamente i nomi di Via Balbi, Via Nuova e Nuovissima, è una delle più belle strade del mondo».
Stendhal rimane letteralmente affascinato dall’architettura di quest’ultima strada, «ardita, piena di vuoti e di colonne che ricorda gli scenari della Scala di Milano». Dopo aver errato un’ora da palazzo a palazzo in questa bella strada, lo scrittore francese racconta di essersi fermato per cercare un caffè; ad una prima impressione, egli esprime tutta la sua incredulità, notando che, nonostante la ricchezza della città, i caffè «sono tutti brutti e poveri». Con l’aiuto di un artigiano genovese trasformatosi in una “guida” improvvisata in quel labirinto di vicoli, Stendhal arriva di fronte alla porta di un «buio, composto di due stanze sudice. Era realmente il caffè alla moda». Lì, dopo aver consumato un caffè e latte, l’autore mette in evidenza la profonda differenza col lusso di Milano e Venezia e ricorda tristemente i versi di Montesquieu sul piacere di lasciare Genova: «mare senza pesci, donne senza bellezza, ecc…». Nonostante la cattiva impressione ricevuta, lo scrittore afferma di essere tornato più volte, durante la giornata, in quel caffè «triste» per bere «una bibita molto particolare chiamata acqua rossa, con cinque o sei ciliegie in fondo al bicchiere e il profumo delizioso dei noccioli…». Questa buonissima bevanda riuscì quantomeno a mitigare il generale giudizio negativo di Stendhal sui caffè genovesi. Durante la mattinata, come primo edificio, lo scrittore visitò il palazzo della Borsa, poi si recò verso la Chiesa di Carignano. Per arrivarvi, Stendhal ricorda come sia stato necessario, in passato, far costruire un ponte che passasse «su una fila di case per cui si cammina a trenta, quaranta piedi al di sopra dei comignoli». La particolarità della visita di Stendhal a Genova è che questi preferì visitare subito i monumenti, senza l’ausilio di libri esplicativi e di leggerne la sera la descrizione sulla guida della città per poi riandare a vedere, la mattina successiva, i monumenti più significativi.
La Chiesa di Carignano colpisce lo scrittore, egli riconosce di essere davanti ad un «capolavoro di gravità e nobiltà» ma, nonostante tutto, la giudica come un chiesa non molto affascinante anche se costruita in una posizione stupenda: «un monticello che interrompe la curva dell’anfiteatro di Genova verso il mare». Per “dovere di viaggiatore”, Stendhal salì sulla cupola di tale chiesa, nella cui navata poté ammirare il San Sebastiano di Puget di pulito e vigoroso stile. Dopo questa sua visita, lo scrittore racconta di essersi recato, per burocratici problemi di passaporto, nel palazzo sede del municipio, «una vasta costruzione di marmo bianco male adoperato», con una facciata del 1760, «epoca in cui la povera architettura era maltrattata in Italia come in Francia». Vistato il passaporto, Stendhal andò a visitare tre gallerie di quadri famosi in Via Balbi.
Qui vide dei Van Dyck magnifici il cui aspetto “dolcemente imperioso” lo affascinò moltissimo. Dopo un breve tour all’interno dei palazzi di Via Balbi, lo scrittore andò ad ammirare la colossale statua del famoso giardino Doria e di lì è salito alla Villetta, nel delizioso giardino del Marchese Di Negro che lo accolse molto volentieri nella sua dimora. Così ricorda Stendhal: «mi ha ricevuto con estrema gentilezza e mi ha fatto assaggiare dell’uva della Villetta…». Verso sera il romanziere racconta di essere entrato nella «cattedrale bianca e nera costruita in bande orizzontali». Qui vide «il quadro di Giulio Romano, di cui i genovesi ammirano soprattutto la testa rifatta a Parigi da Girondet». A testimonianza dell’opulenza delle chiese genovesi paragona o confonde S. Stefano, dove è custodito il capolavoro del Romano, con S. Lorenzo, la cattedrale.
Prima di partire, Stendhal si recò al Carlo Felice per assistere ad una rappresentazione teatrale.”. Qui, durante lo spettacolo venne a conoscenza che «Genova possiede un gabinetto letterario dove si leggono i giornali; cosa davvero sorprendente».
Il racconto della sua visita a Genova termina con una considerazione molto acuta sull’essenza dei genovesi: «credevo che i genovesi amassero soltanto il denaro; amano anche, mi dicono, la loro indipendenza. Ciò che mi ha fatto nascere questa riflessione politica, è che sono stati costretti a dare il nome di Carlo Felice al bel teatro che si sono costruiti. Hanno comperato e demolito molte case per costruire una piazza davanti al teatro e una strada che continua la bella strada dai tre nomi: Balbi, Nuova e Nuovissima».