“Superba ardeva di lumi e cantici, nel mar morenti lontano Genova, al vespro lunare dal suo arco marmoreo di palagi” (Giosuè Carducci). Ma più che la città al poeta colpì la bontà dello Sciacchetrà (Sciachetrà nella dizione più arcaica), da lui definito “essenza di tutte le ebbrezze dionisiache”
Un vino passito già decantato da Plinio e raccontato da Boccaccio e Petrarca. D’Annunzio lo descrisse profondamente sensuale e lo volle presente nei suoi lussuriosi banchetti. Una produzione scarsa quella dello Sciacchetrà che indusse Pascoli, in difficoltà nel reperirlo, a pretenderlo “in nome della letteratura italiana”.
La fatica e la passione di chi lo produce è antica quanto l’origine del suo nome: secondo alcuni “Sciacchetrà” deriverebbe dalla primitiva parola semitica “shekar” che significherebbe bevanda fermentata. Per altri, più probabilmente, da due termini della millenaria lingua ligure “sciac”, schiacciare l’uva e ”tra” , togliere le vinacce durante la fermentazione.
Tuttavia tra le strette e irte fasce in cui le viti si arrampicano per guadagnarsi il panorama sul mare circola un’antichissima leggenda, antecedente addirittura l’epoca romana, al tempo in cui gli abitanti delle Cinque Terre erano in continua lotta fra loro.
Stanchi dei frequenti scontri che impedivano di godere dei benefici della pace e di dedicarsi quindi alla vigna e alla pesca interpellarono un saggio eremita. Questi chiese a ciascun rappresentante del singolo paese gli portasse un grappolo d’uva proveniente dalla propria terra.
Qualche tempo dopo il sapiente mandò a chiamare gli interessati ed offerse loro una coppa del vino ottenuto con la miscelazione delle uve fornite.
Lo stupore e la meraviglia per quel nettare paradisiaco, generato dall’unione delle risorse dei cinque borghi, fu tale da garantire pace e concordia perenne per quelle contrade.
La lezione del savio era servita, facile come bere un bicchiere di Sciacchetrà!