Nel progetto di ampliamento trecentesco della cattedrale di S. Lorenzo le torri campanarie avrebbero dovuto essere due. Causa la morte di colui che le aveva progettate solo una, quella di destra che ancora oggi, con i suoi 60 metri domina il centro storico, venne portataa termine nei primi decenni del ‘500. Dell’altra, quella di sinistra, non rimane altro che, nella configurazione tuttora visibile, il basamento sormontato dall’elegante loggiato quattrocentesco. Come testimoniato dalla xilografia datata 1493 di Michael Wolgemut, la più antica rappresentazione della città, a quel tempo non esisteva nemmeno la cupola, progettata poi nel ‘500 dall’Alessi, ma solo, al suo posto, una curiosa copertura piramidale. Poco distante nei paraggi della Cattedrale si diramano un Vico ed una Piazza intitolati alla famiglia dei Valauri, o Valori, Piazza e Vico Valoria.
Costoro, che erano i campanari della chiesa di S. Lorenzo, vi si stabilirono e tramandarono il mestiere per oltre due secoli, probabilmente aggregandosi alle numerose maestranze normanne ed antelamiche che operarono alla cinquecentesca ricostruzione del Duomo. Sette, di epoche e provenienze diverse, le campane che i Valauri suonavano con perizia, scandendo il tempo, gli avvenimenti e le cerimonie della città.
Sull’abilità dei campanari genovesi, a dire il vero, Charles Dickens la pensava diversamente. Durante uno dei suoi soggiorni genovesi, infatti, rimase infastidito dal fracasso dei campanari delle chiese di Albaro. Nel momento in cui si era seduto al tavolo con la ferma intenzione di lavorare, era salito dalla città un tale frastuono di campane da farlo impazzire. Il vento gli aveva portato tutti i rintocchi dei campanili di Genova e le sue idee si erano messe a vorticare fino a perdersi in un turbinio di irritazione e stordimento. Scrive: «…specialmente nei giorni festivi, le campane delle chiese suonano incessantemente; non in armonia, o in qualche conosciuta forma sonora, ma in un orribile, irregolare, spasmodico den den den, con una brusca pausa ogni quindici den o giù di lì; una cosa da impazzire.»., «…avere trovato il titolo e sapere come sfruttare lo spunto delle campane è una gran cosa. Che mi assordino pure da tutte le chiese e conventi di Genova, ormai: non vedo altro che la cella campanaria di Londra in cui le ho collocate…».
Lo scrittore anglosassone ne trasse dunque ispirazione per comporre uno dei suoi celebri cinque racconti di Natale intitolato, appunto, “Campane” in cui il protagonista vede dipanarsi i principali eventi della propria esistenza, ritmati dai rintocchi, in un’atmosfera onirica, dei bronzei batacchi.
Ultima curiosità, al civico n. 4 della piazza aveva sede lo studio fotografico di Alessandro Pavia, colui che riuscì ad immortalare i ritratti di tutti i 1092 garibaldini facenti parte della spedizione dei Mille.
In Copertina: Piazza dei Valoria. Foto di Leti Gagge.
Appartenente alla nobile schiatta della famiglia alessandrina dei Canefri, il giovane Ugo s’imbarcò da Genova alla volta di Gerusalemme dove, in veste di cavaliere gerosolimitano, prese parte alla terza Crociata (1189-1192).
Ugo compì la sua metamorfosi, da combattente sul campo, ad infermiere nelle retrovie. Gli venne affidata la prestigiosa gestione dell’Ospitale (l’appellativo Commenda risale al XIV sec.) di San Giovanni dove, per circa 50 anni, si dedicò al soccorso e all’assistenza dei pellegrini in partenza o al rientro dalla Terrasanta.
Uomo pio e timorato di Dio, terminate le sue attività quotidiane, amava ritirarsi in solitaria preghiera in una piccola grotta lungo la collina sovrastante l’ospizio, vicino ad un torrentello che sgorgava tra Oregina e San Barnaba. Il rivo scorreva a cielo aperto e sfociava nel mare nei pressi dell’antico approdo di Capo d’Arena, intitolato poi, a Santa Limbania.
Numerosi i miracoli di cui è stato protagonista: aver salvato una nave da un naufragio e trasformato acqua in vino, questi ed altri prodigi, raccontati da un ciclo di piccoli affreschi dipinti sulla navata di sinistra della chiesa Inferiore, nei resti della cappella a lui intitolata.
Ma il più celebre di questi episodi fantastici è noto come “Il Miracolo di S. Ugo”:
leggenda narra che, desideroso di accontentare le lavandaie del nosocomio che per pulire i loro panni erano costrette a percorrere in salita un tragitto lungo e faticoso, fece scaturire da un masso del fossato una fresca e zampillante sorgente.
Le inservienti infatti lamentavano la scarsità d’acqua che si accumulava nel fossato solo dopo lunghi giorni di pioggia. Fu così che il Santo, dopo ripetute preghiere, fece sgorgare dal sasso una polla perenne, utile non solo alle domestiche, bensì a tutta la popolazione dei paraggi.
Di fatto la Piazza davanti alla stazione di Porta Principe, chiamata “Acquaverde”, prende il nome dallo stagno formato da quel rivo.
Nella seconda metà dell’800, in seguito ai lavori di costruzione ed ingrandimento dello scalo ferroviario, questi luoghi della memoria sono stati sepolti e distrutti ma la sorgente, in un primo momento scomparsa, non si è arresa all’oblio dei tempi ed ha ripreso a sgorgare rigogliosa.
La polla esiste tuttora e rifornisce la fontanella posta in Via Prè, vicino all’ingresso della chiesa Superiore di S. Giovanni e, all’interno della stazione, i bagni e le utenze della stessa.
La fonte, per secoli, è stata ritenuta possedere virtù taumaturgiche e i luoghi del Santo venerati e onorati dalla cittadinanza con l’erezione di una cappella a questi dedicata.
Il miracolo di S. Ugo è egregiamente rappresentato da un settecentesco quadro di Lorenzo De Ferrari custodito, sopra un altare laterale, nella chiesa Superiore di S. Giovanni. Se l’edificio Inferiore merita assolutamente menzione per la magica (cappelle di S. Brigida e S. Margherita) atmosfera in cui è avvolto, non da meno è il tempio Superiore, l’ultima splendida testimonianza di una chiesa interamente costruita in pietra nera di Promontorio, la pietra indigena proveniente dalla cava di S. Benigno, luoghi dell’anima dove, con un po’di fantasia, si possono ancora ascoltare il metallico scalpitio dei cavalieri, i lamenti dei malati, le urla di Cardinali assassinati, lo sferragliare dei Crociati, le arringhe dell’Embriaco e… le preghiere di S. Ugo.
Nel 1346 Brigida la santa svedese, sulla via verso Roma dove avrebbe chiesto al Papa l’approvazione per il suo neonato ordine religioso, sostò a Genova Quarto per una settimana. Un giorno si fece accompagnare dalla parte opposta del golfo, nel ponente cittadino, per fare una passeggiata con la figliaed ammirare la Dominante dall’alto.
Fu così che, giunta sul colle del Peralto, in località Mura delle Chiappe, espresse la nefasta profezia: “Un giorno il viandante che passerà dall’alto dei colli che recingono Genova, accennando con la mano i lontani cumuli di detriti, dirà: laggiù fu Genova ”.
Probabilmente i genovesi non gli dovevano essere risultati troppo simpatici forse perché la Santa aveva già intravisto in loro quel carattere superbo e altezzoso che, 12 anni più tardi, nel 1358 Petrarca avrebbe scolpito nell’eternità: “Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per genti e per mura, il cui aspetto la indica signora del mare”. Non tutti sanno però che la celebre descrizione del poeta toscano proseguiva con un monito, non molto diverso nella sostanza dalla profezia della Santa “… la stessa potenza, come è già accaduto a molte città, le nuoce e le reca danno, perché offre materia alle contese e alle gelosie cittadine…”
D’altra parte il conterraneo Sommo Dante nel canto XXIII dell’Inferno, nei versi 151-153, aveva sentenziato: “Ahi Genovesi, uomini diversi d’ogne costume e pien d’ogni magagna, perché non siete voi del mondo spersi?”.
Dante, Santa Brigida, Petrarca, se tre indizi costituiscono una prova, la conferma è sugellata da un’altra predizione, parte di una raccolta di scritture notarili quattrocentesche, custodita presso l’archivio vescovile di Piacenza, opera di un anonimo scrittore:
“Tra Capo di Faro ed Albaro si erge una CIVITAS OPULENTISSIMA, che sarà distrutta dal drago, allora si dirà HIC FUIT IANUA SUPERBA”.
Il drago faceva riferimento al simbolo cittadino rappresentato sul sigillo e sulle monete della città insieme al Grifo. Forse l’anonimo non ricordava che S. Giorgio il drago lo aveva ucciso e che, il Grifone a Genova, simboleggiava la riconquistata libertà.
Nel 1695 la Madonna in persona, dal 1637 Regina di Genova, avrebbe indicato in sogno a Padre Carlo Giacinto, il punto esatto dove erigere un Santuario a lei dedicato, non molto lontano da dove, oltre tre secoli prima, Santa Brigida aveva emesso il suo infausto vaticinio. Il nuovo tempio avrebbe dovuto essere rivolto a nord, cioè a monte, anziché a sud, verso il mare in modo da non essere testimone di quanto profetizzato. Nonostante gli altri numerosi preesistenti santuari: il Gazzo, la Vittoria, Madonna del Monte e Guardia, Nostra Signora Assunta di Carbonara, questo è il nome completo della Madonnetta, divenne l’unico luogo di culto ufficialmente riconosciuto dalla Repubblica.
Dopo la profezia di Santa Brigida e dopo l’erezione del santuario, Genova ha comunque dovuto subire ed affrontare numerose distruzioni e sventure, in particolare il Sacco di spagnoli e lanzichenecchi nel 1522, il bombardamento del re Sole nel 1684, l’occupazione austriaca riscattata dal Balilla nel 1746, il cannoneggiamento inglese del 1800, il massacro del La Marmora nel 1849, i bombardamenti alleati della Seconda Guerra Mondiale e le rappresaglie tedesche nel periodo antecedente la Liberazione Genova. Con buona pace della santa svedese, dei due poeti toscani, e dell’anonimo piacentino, si è sempre rialzata.
Ma la Superba non ha portato rancore visto che la descrizione del Petrarca è tuttora la più celebre ed apprezzata e alla santa svedese oltre ai trogoli e una strada, sono stati intitolate una chiesa e due conventi nella zona compresa tra Via Prè e Via Balbi.
L’8 giugno del 1976 ahimè, proprio sotto l’arco sottostante la statua della santa, in Salita S. Brigida, il procuratore generale di Genova Francesco Coco e due agenti della sua scorta furono barbaramente trucidati da un commando armato delle Brigate Rosse.
Il poeta siciliano futuro premio Nobel per la letteratura nel 1959 s’innamorò perdutamente della Liguria nel 1930 quando, trasferito al Genio civile di Imperia prima e di Genova poi, ebbe modo di conoscere e frequentare Camillo Sbarbaro ed Eugenio Montale, collaborando alla rivista letteraria “Circoli”.
Tre artisti, di cui due premi Nobel e uno Sbarbaro certo non da meno che, da questa terra incrociandosi, trassero feconda ispirazione per influenzare la poesia mondiale del ‘900.
Quasimodo nella sua ultima raccolta ““Dare e avere” 1960 – ‘65” consegna ai posteri una meravigliosa poesia dedicata alla “Liguria”.
In questo componimento il poeta riesce a rievocare l’asprezza della montagna, il sibilo delle vipere, il canto degli usignoli, lo scrosciare delle acque del Roja e, in un continuo crescendo emotivo, l’eterna lotta fra il mare e la terra.
Ma il verso che da sempre mi ha colpito è quel “Ma se il Ligure alza una mano, la muove in segno di giustizia”… e allora sfilano nella mia mente tutte quelle popolazioni liguri che si opposero fieramente all’occupazione della Roma imperiale; i marinai che, sprezzanti del pericolo, difesero le nostre coste dai Turchi e dai Saraceni; i genovesi tutti che, coraggiosi e indomiti, nel 1684 non si piegarono alla boria del Re Sole; il Balilla e la sua audace ribellione contro gli austriaci; i Capitani De Stefanis e Pareto e la loro disperata difesa contro i bersaglieri del La Marmora; Genova intera che nel 1800, oltre ogni umana aspettativa, resistette all’assedio austro piemontese e inglese; i camalli che nel 1924 protestarono contro l’omicidio Matteotti e impedirono alle Camicie Nere l’accesso al porto; i Partigiani che tra l’8 settembre 1943 e l’aprile 1945 contribuirono alla liberazione della Superba, unica caso in Europa nell’era moderna, dai Tedeschi prima dell’ingresso degli alleati; i lavoratori che scioperarono nel giugno 1960 contro la scellerata idea di convocare il congresso nazionale del rinato Partito Fascista in città, contribuendo alla caduta del governo Tambroni.
L’avara Liguria è la mia terra!
Foto di copertina spiaggia di Porto Pidocchio a Framura.
Tutti conoscono i Menhir e i Dolmen di Carnac in Francia e di Stonehenge in Inghilterra, pochi sanno però che nell’alta Valle Sturla, lungo la strada provinciale in direzione Borzonasca si trova il più grande ed importante reperto megalitico d’Europa e, forse, del mondo. Infatti se i primi risalgono nell’era neolitica, al terzo o secondo millennio prima di Cristo, quello di Borzone, probabilmente, addirittura a 12000 anni prima del Salvatore, in pieno Paleolitico.
Proprio in località Borzone, più precisamente Rocche di Borzone, frazione di Borzonasca si staglia sulle alture il “Volto megalitico di Borzone”: una gigantesca scultura rupestre alta sette metri e larga quattro raffigurante un volto umano, secondo alcuni maschile, secondo altri femminile. Un’immagine primordiale di un Dio antropomorfo, o di una dea frutto di una società matriarcale?
Svariate sono le ipotesi ma quel che è certo è che sia opera dell’ingegno dell’Homo Sapiens Sapiens. Il nostro più vicino progenitore ha così impresso e immortalato se stesso nella roccia.
Il singolare sito venne scoperto nel 1965 da Giuliani, assessore del comune di Borzonasca, che si trovava in zona per un sopralluogo relativo alla costruzione della strada. Alzando gli occhi scoprì casualmente il misterioso volto nascosto dalla fitta vegetazione circostante.
Gli abitanti del luogo non si scomposero più di tanto sostenendo, in base a racconti tramandati nel corso dei secoli, che “Il Volto di Cristo” così familiarmente chiamato, fosse stato scolpito in tempi remoti dai monaci della vicina Abbazia di Borzonasca. Secondo un’antica tradizione infatti, una volta l’anno, tutti i valligiani vi si riunivano davanti, in compagnia dei frati, in preghiera. A conferma di questa suggestiva tesi la presenza di alcune piccole teste litiche su diverse abitazioni della zona.
La particolare fattura del manufatto ha però rivelato che “il Volto di Borzone” apparteneva non alla storia, bensì alla preistoria, essendo di diversi millenni anteriore rispetto a quanto affermasse la leggenda consolidata.
In base ad alcuni rilievi sul posto effettuate da esperti, le sculture megalitiche, collegate fra di loro nello stesso blocco di pietra sarebbero addirittura, osservando attentamente, due.
La questione rimane dibattuta, oggetto di studi e perizie da parte dei dotti della materia.
Studiosi appassionati o semplici curiosi turisti se ci si vuole quindi immergere nella preistoria e spingersi a ritroso agli albori del genere umano, non necessariamente bisogna partire alla volta di Spagna, Gran Bretagna o Francia, basta fare un salto nel nostro affascinante e misterioso entroterra.
Recitava lo slogan pubblicitario diqualche decennio fa di Renzo Arbore a proposito delle proprietà della birra.
Ritornello che si può ben adattare alle vicende della rinfrescante bevanda all’ombra della Lanterna. Se è vero che Magone nel 218 a. C. aveva raso al suolo la città a causa del sapore acetato del suo vino, altrettanto vero è che la birra ha avuto sempre, come testimoniato dal ritrovamento di Pombia, un ruolo rilevante nella cultura degli antichi Liguri.
In epoca moderna poi Genova è stata una delle principali città in cui, sotto gli influssi asburgici, attecchì il consumo del dissetante fermentato.
Nel 1882 infatti, in pieno regno sabaudo in seguito alla triplice alleanza di cui facevano parte piemontesi, prussiani e austriaci, numerosi funzionari stranieri presero residenza nel centro cittadino.
Fu così che a Genova fiorirono decine di birrerie spesso con tanto di oste bavarese verace e bionde e allegre “kellerine” a servire schiumantiboccali. Molti di questi locali erano concentrati nel salotto della città, nell’area che dalla Prefettura degradava lungo Salita S. Caterina e la galleria Mazzini. Fra questi spiccavano in particolare, la Gambrinuse la Lowenbrau che si trovavano in via S. Sebastiano.
Il proprietario di quest’ultima si chiamava Monsch ed era un bavarese purosangue, da lui andavano a ristorarsi sia i funzionari asburgici che quelli italiani nell’encomiabile tentativo di trovare qualche argomento in comune oltre all’alleanza militare. Svolazzava per il locale la celebre Nelly, una prosperosa cameriera che colpirà la fantasia poetica di Camillo Sbarbaro che tra una sosta in un bordello e una in birreria ebbe modo di ricordare nella sua raccolta di versi “Fuochi fatui” anche la bella kellerina.
La Gambrinus arredata con stile tirolese era apprezzata trasversalmente dai ricchi notabili genovesi come dai semplici operai e portuali che amavano risalire i caruggi dal porto per andarsi a rinfrescare il palato con un’invitante birra. Genova in quegli anni godeva di un favorevole situazione economica, dopo l’annessione al Regno d’Italia e la crisi del ’49, culminata con la vergognosa repressione del La Marmora, la politica dei Savoia fu quella di richiamare verso la città capitali forestidi una certa rilevanza. Allo stesso tempo l’aumento dei flussi migratori verso Nord e Sud America costituì uno straordinario impulso per il porto che conobbe, in quegli anni, un periodo di considerevole sviluppo. Anche la vita mondana della città era in grande fermento: il teatro Carlo Felice richiamava attori e attrici di fama internazionale; Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio trascorrevano notti pantagrueliche nei ristoranti della galleria, frequentati anche daLina Cavalieri, attrice ritenuta da molti ammiratori la “donna più bella del mondo”. Le feste e i luculliani banchetti organizzati in suo onore fornirono copioso materiale per i giornali dell’epoca.
Alla stessa maniera nel ristorante – birreria di Pippo Luce, fra luci e paillettes, s’innalzavano continui brindisi nei confronti delle belle attrici di passaggio. Il giornalista Anton Giulio Barrili fondatore de “il Caffaro” e Stefano Canzio presidente del Consorzio Autonomo del Porto, entrambi ex garibaldini, discutevano di politica con una birra così come faranno poi negli anni a venire grandi poeti liguri come Eugenio Montale e Camillo Sbarbaro.
A metà di Galleria Mazzini si trovava la birreria Zolezi che offriva musica di classe dal vivo con la particolare proposta, un unicum in tutta Europa, di un apprezzato quartettocomposto solo di violoncelliste viennesi.
L’attrazione al di là della musica era il fascino delle bellezze teutoniche molto gradito agli impiegati della Questura (all’epoca presso Palazzo Ducale). Carabinieri e poliziotti in libera uscita si accalcavano per vedere le prosperose bionde ragazze e le scazzottate, complice qualche birra di troppo, erano all’ordine del giorno.
Un’altra famosa birreria si trovava in Piazza Corvetto gestita dal figlio di un deputato prussiano coadiuvato da un singolare personaggio, un austero cameriere vestito in puro stile asburgico. Altre birrerie si trovavano in largo Zecca, vicino alla stazione Principe e in via Caffaro.
Il fascino e le mescite di quel periodo sono ormai un lontano e sbiadito ricordo, tuttavia esistono ancora in città deilocali dove si può parzialmente rivivere i bei tempi andati, in particolare vanno citati:
L’HofBrauhaus in via Boccardo dove ci si può immergere nella più calorosa atmosfera bavarese accompagnando la birra che si predilige ad un’ottima cucina che abbina ai classici wurstel e stinchi, piatti ricercati e raffinati.
Non da meno, in un’atmosfera invece british, sono il Britannia di Vico Casana dove, con un po’ di fantasia, si ha l’impressione di essere dentro ad un pub londinese, oppure nel cuore di Dublino, all’Irish pub di Vico della Croce Bianca in quello che, un tempo, era il quartiere del ghetto ebraico.
Lo stesso dicasi alla Foce per il Tartan pub di chiara impronta scottish solo che, anziché ascoltare le discussioni fra i supporters cattolici dei Celtics e quelli protestanti dei Rangers di Glasgow, si assiste ai coloriti sfottò fra tifosi genoani e sampdoriani.
Un posto particolare però, nella storia della birra a Genova, spetta al Birrificio di Busalla che da tempo si è conquistato una preziosa nicchia di mercato per la superiore qualità del suo prodotto.
La Fabbrica, nata nel 1905, si è guadagnata l’inserimento nel prestigioso elenco delle imprese Storiche, unico esempio in Liguria nel campo della produzione di birra artigianale.
Altrettanta importanza nella memoria imprenditoriale della Superba riveste il marchio Maltus Faber che ha infatti sede all’interno dello stabilimento di Via Fegino n. 3, sito storico per la birra genovese in quanto, all’inizio del ‘900, ospitava il complesso della Fabbrica di Birra Cervisia.
L’antico marchio venne acquisito dal gruppo Dreher che vi istituì anche una rinomata scuola per Mastri Birrai. Successivamente l’etichetta venne ceduta alla Heineken che, in breve tempo, ne cessò la produzione.
Percorrendo la litoranea fra Capo Noli e Finale, all’altezza di Varigotti, ci si imbatte in una curiosa figura scolpita, a picco sul mare, dall’erosione del mare e del vento.
La natura si è divertita a disegnare un fiero leone mentre scruta il mare. A questa scultura è legata la leggenda che narra di un tal Leone che, molti secoli fa prode marinaio della Repubblica di Noli, si era imbarcato verso l’Africa con la speranza di poter ammirare dal vivo l’esotico felino di cui portava il nome.
Fu così che, giunto sulle coste del Marocco, organizzò con gli indigeni una battuta di caccia che, dopo tre giorni, culminò con la cattura di un maestoso esemplare, dalla folta criniera, del re della Savana.
Leone decise di portare con sè il leone vivo come bottino di caccia per poterlo mostrare orgoglioso a parenti e amici.
Tra antilopi, gazzelle e bestie varie vivedi cui si nutriva e i lavori necessari alla manutenzione della grande gabbia lignea per alloggiarlo, Leone spese tutta la sua paga faticosamente guadagnata in quell’avventuroso viaggio.
Una volta giunto a destinazione, Il leone trasportato sulla collina delle Manie dove abitava il marinaio, ruggiva di continuo e con una potenza inaudita tale da spaventare tutto il vicinato nel raggio di parecchi chilometri.
Finalmente un bel giorno la belva riuscì ad evadere dalla sua gabbia e corse verso il mare da dove, proveniente dall’altra sponda del Mediterraneo, sentiva il malinconico e disperato richiamo della sua amata che, anch’essa, aveva attraversato il deserto per raggiungere la spiaggia. I lamenti della leonessa e i ruggiti del suo compagno infastidirono nonpoco la quiete di un mago che alloggiava lì vicino, in una delle caverne sottostanti la scogliera. Nonostante le rimostranze e le minacce dello stregone il leone non smise mai di ruggire tutto il suo dolore e di rispondere ai richiami della sua bella così questi lo trasformò, per ridurlo al silenzio, in pietra.
Lo si può ammirare, seduto sconsolato, fieramente proteso verso il mare a scrutare l’orizzonte in cerca del suo amore. Nei giorni in cui soffia forte il vento, se si passa da quelle parti, si può ancora oggi udire il doloroso richiamo della leonessa in cerca del compagno rapito… Il leone del Malpasso!
La più antica traccia relativa alla birra risale a circa 6000 anni fa e consiste in una tavoletta sumera che raffigura delle persone che, a mezzo di una cannuccia, sorseggiano la dissetante bevanda da un recipiente comune.
In una poesia a lei dedicata, la dea mesopotamica Ninkasi, ce ne fornisce addirittura la ricetta:
« Ninkasi, tu sei colei che cuoce il bappirnel grande forno,
Che mette in ordine le pile di cereali sbucciati, Tu sei colei che bagna il malto posto sul terreno… Tu sei colei che tiene con le due mani il grande dolce mosto di malto… Ninkasi, tu sei colei che versa la birra filtrata del tino di raccolta, È come l’avanzata impetuosa del Tigri e dell’Eufrate »
Il più remoto ritrovamento archeologico invece, che attesta la produzione della birra (termine sumero “se-bar-bi-sag” ossia, “colui che vede chiaro”), è avvenuto in Mesopotamia e risale all’epoca predinastica sumera, circa 4000 anni a.C.
Sono delle tavolette di argilla scoperte dall’archeologo francese Blau (per questo chiamate “monumento Blau”) vicino al fiume Eufrate e conservate al British Museum di Londra.
In esse sono raffigurati i doni propiziatori offerti alla dea Nin-Harra (dea della fertilità).
Persino nel celeberrimo Codice di Hammurabi, la più arcaica raccolta di leggi mai pervenuta, vi sono elencate alcune norme che ne regolano detenzione, commercio e produzione.
Il consumo di birra si diffonde presso gli egizi, i greci, i fenici, gli etruschi e i romani. Questi ultimi prediligeranno l’espansione, anche per motivi legati al culto religioso, del vino.
Da qui in poi i barbari popoli del Nord, Vichinghi, Alemanni, Sassoni, Pannoni e Celti in generale, ne saranno i principali custodi.
Gambrinus, l’origine del cui nome è molto dibattuta (probabilmente contrazione da Jan Primus, leggendario re fiammingo per alcuni, semplice mastro birraio, per altri), nel Medioevo diviene patrono protettore della birra.
Cosa c’entra tutto ciò con Genova e la Liguria direte voi?
C’entra eccome e non solo per il secolare rapporto commerciale della Repubblica marinara con le Fiandre, che da quelle lande ne importerà barili su barili, ma perché la più antica testimonianza fisica di questa bevanda in Europa non riguarda i nordici bensì gli antichi Liguri. Nel 1994 infatti a Pombia in provincia di Novara, odierno Piemonte, un tempo territorio abitato dai nostri avi, è stato rinvenuto un singolare reperto datato 560 a.C. :
una coppa posta sopra un’urna funebre, contenente i resti di una birra di luppolo scura, probabilmente rossa di media alta gradazione, risalente in piena civiltà proto celtica ligure di Golasecca, all’età del Ferro.
Ulteriori studi ed analisi hanno confermato trattarsi di birra rossa. Essa è forse da identificare con la cervesia/cervisia citata da Plinio (Storia naturale, XXII, 82) e Isidoro di Siviglia (Origini, XX, 3, 17) se, come supposto, il termine deriva dall’indoeuropeo “kerewos “(cervo/rosso).
D’altra parte a proposito dei nostri antenati annotava Strabone , Geografia, IV, 6, 2: “I Liguri vivono perlopiù delle carni dei greggi, di latte e di una bevanda d’orzo ed occupano delle terre vicino al mare e specialmente i monti” aggiungendo poi che “il loro vino è scarso, resinato ed aspro”. Tesi quest’ultima adottata, secondo la tradizione, come pretesto da Magone nel 218 a. C. per distruggere Genova poiché, a suo dire, “una città dove non cresceva una buona vite, non meritava di essere risparmiata”.
Secondo Ateneo i Liguri, come i Frigi e i Traci, chiamavano la loro birra Bryton (ricostruito sulla base di “bracis”, tipo di farro celtico), come riporta Plino, dunque anche l’area ligure produceva verosimilmente una propria birra d’orzo a fianco ai vini locali.
Il ritrovamento di Pombia non solo costituisce la più antica attestazione materiale europea di birra presumibilmente ad alta gradazione, ma addirittura potrebbe retrodatare di molto l’utilizzo del luppolo come aromatizzante e conservante della birra stessa, spiegando così il mantenimento di un ampio gradimento e consumo popolare della birra nell’Europa Occidentale ancora in età romana nonostante la crescente concorrenza del vino. per cui pare legittimo supporre che la birra stessa in partenza fosse abbastanza scura e rossastra (dunque corrispondente alla cervisia delle fonti classiche).
Dalla Mesopotamia l’arte della fabbricazione della birra passò in Egitto, per poi diffondersi in Europa: oggi, grazie ai ritrovamenti nella necropoli di Pombia, sappiamo che anche i Celti vi si dedicarono con successo. Furono bevitori di birra pure gli Etruschi ed anche all’epoca delle civiltà ellenica e romana la birra, spesso chiamata vino d’orzo, era più conosciuta di quanto comunemente si pensi o creda.
In questa lunghissima storia che attraversa i millenni anche i Liguri hanno avuto la loro parte…
Che derivi dal norvegese “stokkfisk”, dall’olandese “stocvisc” con il significato di pesce bastone, o dall’inglese “stockfish” con quello di pesce da stoccaggio, il termine stoccafisso indica il merluzzo essiccato all’aria secondo un preciso procedimento consolidato nei secoli dai Vichinghi. I navigatori nordici infatti, compresero che il pesce disidratato, non solo riduceva i rischi di contrarre infezioni virali e che occupava meno spazio a bordo, ma che aumentava addirittura, a parità di peso, quasi del triplo la resa proteica. Un alimento quindi ideale da trasportare, facile da conservare nei lunghi viaggi per nutrire gli equipaggi e da utilizzare come merce di scambio.
Non va confuso con il baccalà che, pur avendo origine dallo stesso pesce, è ottenuto con una tecnica diversa, quella della salagione. Questa basica distinzione comporta delle eccezioni lessicali a seconda della regione in cui viene elaborato: ad esempio il famoso “baccalà alla vicentina” è in realtà preparato in prevalenza con lo stoccafisso, quindi con il merluzzo essiccato e non con quello salato.
Nella nostra penisola giunse nel sud, in Calabria e Sicilia in particolare, grazie ai Normanni anche se è solo ad inizio del ‘500 che inizió ad essere importanto regolarmente. Qualche decennio più tardi si diffuse anche al nord, a Venezia e Genova, le due regine dei traffici marittimi.
Merito dell’espansione dello stoccafisso fu anche della chiesa che, dopo il Concilio di Trento avvenuto a metà del ‘500, prescrisse un maggiore consumo, rispetto al canonico venerdì, di piatti di magro. Complice il suo prezzo accessibile, unito alle indubbie qualità organolettiche e nutrizionali, l’uso dello stoccafisso si propagò facilmente. Ancora oggi il Bel Paese, è il principale importatore mondiale (quasi il 90%) di merluzzo. In particolare Calabria, Campania, Sicilia, Liguria, Livorno e Ancona risultano esserne i maggiori acquirenti.
I veneti raccontano di un naufragio avvenuto nel 1431 di una nave di S. Marco sotto il comando del capitano Pietro Querini, partita da Creta, carica di Malvasia, alla volta delle Fiandre. Con i suoi 49 membri di equipaggio, ruppe il timone nel Golfo di Biscaglia e, in balia delle correnti, andò alla deriva a sud delle isole Lofoten in Norvegia. I naufraghi una volta esaurite le scorte, si cibarono di un grosso pesce del peso di quasi un quintale, rinvenuto morto sulla rena. Sopravvissero grazie ai soccorsi della popolazione locale giunta attirata dall’enorme falò che i marinai avevano imbastito sulla spiaggia per cuocere la gigantesca bestia. Fu così che, rimasti sull’isola in attesa che l’inverno passasse, i veneziani cominciarono ad apprezzare il “Gadus morhua”, ovvero il merluzzo. Secondo questa versione lo stokke sarebbe approdato in Italia, l’anno successivo, di ritorno da quell’avventuroso viaggio. Tuttora le isole Lofoten, patria della qualità “ragno” la più pregiata, costituiscono il maggiore produttore mondiale di stoccafisso.
Al sud viene cucinato alla messinese in Sicilia, alla mammolese in Calabria, all’anconetana, nelle Marche, in Basilicata alla lucana, al nord invece, in Veneto viene consumato alla vicentina.
In Liguria giunse intorno al ‘600 in virtù dei traffici della Repubblica di Genova con il Portogallo, probabilmente importato dalle imbarcazioni dei Pessagno che, con quel paese, intessevano rapporti privilegiati. La nobile famiglia di marinai genovesi infatti, originaria delle valli alle spalle di Chiavari, si distinse alla corte del regno lusitano, a tal punto da ricoprire e tramandarsi per più di tre secoli la carica di “Almirante maggiore”.
Nella nostra regione viene preparato semplicemente bollito, accomodato, alla badalucchese, a brandacujun o con i bacilli (piccole fave secche). Quest’ultima elaborazione, come ricordato nel proverbio “A-i Morti, bacilli e stocchefisce no gh’é casa chi no i condisce”, in particolare per la ricorrenza dei morti visto che, fin dal tempo degli egizi, a questo legume era associato il culto dei defunti.
A Badalucco una località della Valle Argentina dell’entroterra imperiese, la popolazione costiera si era rifugiata per sfuggire alle scorrerie piratesche. Leggenda narra che sopravvisse all’assedio nemico grazie alle scorte di stoccafisso come rievocato nell’annuale manifestazione in costume medievale di cui è protagonista.
Il brandacujun deve invece il nome al singolare modo di mescolamento con cui viene preparato nel ponente ligure: lo stokke e le patate bollite, cosparsi di aglio e prezzemolo, limone, olio e olive taggiasche vengono energicamente “brandati” cioè, scossi a coperchio chiuso fino ad ottenere una armonica amalgama degli ingredienti.
Cucinatelo come vi pare ma assecondatelo con un rosso corposo, come ad esempio un bel Rossese di Dolceacqua o un Refosco veneto e il vostro palato ve ne sarà grato.
“Mare in burrasca, vento forte,
bollito o accomodato la sua morte,
in serate come queste, a Zena,
con lo stoccafisso si cena…
ultimo consiglio, se posso,
accompagnarlo con il rosso”.
ma se volete andare proprio sul sicuro, ascoltate questi goliardici versi di mezzo secolo fa.
O l’é lungo, o l’é dûo, o l’é tosto
o l’é bon se piggiòu in quello posto,
s’o l’é appenn-a sciortïo d’in te balle
(ma attension ch’o no l’agge e farfalle),
o sta ben con e sò due oïve
(se no son tanto passe, ma vive)
e magnificamente o s’adatta
o s’accomoda con a patatta;
ma beseugna ûn pö mettilo a bagno
(finn-a in fondo, ch’o segge ben stagno).
Se capisce ch’o ven feua mollo
(specialmente in ta zona do collo). Ciò non toglie ch’o piaxe ûn pö a tûtte
zoene, vëgie, ciû belle ò ciû brûtte.
A sposinn-a a no o piggia mä invïo
quande a casa ghe o porta o marïo.
Pe-a zitella o boccon o l’é ghiotto
(anche mollo ò ûn pö bazanotto).
E, scibben ch’a mugugne pe-a spûssa,
anche a nonna sdentä ûn pö a s’o sûssa!
Me ricordo ancon quande mae poae
o metteiva in te man a mae moae,
ritornando a-o porto in sce o tardi:
lê a o trattava con tûtti i riguardi,
e dixendoghe: – bello o mae ragno! –
a o metteiva lì sûbito a bagno.
E a-a mattinn-a, che l’ëa ancon scûo,
a l’ammiava s’o l’ëa ancon dûo,
e a ghe diva: – ti o lasci ancon drento? –
E mae poae: – mi saieiva contento,
ma n’öriae ch’o m’andesse in malôa,
te gh’òu lascio, ma solo pe ‘n’ôa. –
E mae seu? Me sovven comme vei:
no gh’ëa verso de fâgheo piaxei.
A no o poeiva nemmeno toccâ:
«son segûa che a mi o me fa mä!»
Fin a quande a s’é faeta o galante
(ûn portuale lê ascì, carenante)
ch’o l’aveiva bello grosso e gûstoso
e o ghe l’ha regalòu d’arescoso,
e chissà, forse pe-a qualitae
differente da quella do poae,
ò magara pe-o semplice faeto
ch’o l’ëa quello che lê o gh’aiva daeto,
ò soltanto pe fâlo contento…
faeto sta che da quello momento
a figgieua a s’é decisa a assazzâlo,
continuando poi sempre a piggiâlo!
Anche mi da piccin me credeivo
ch’o dovesse fâ mä, e no ne voeivo,
ma ‘na votta, ch’aveiva bevûo,
assazzâne ûn tocchetto ho vosciûo,
lì pe lì o m’ha daeto disgûsto,
poi però gh’o sentïo in çerto gûsto,
e, d’allôa, devo dî che o gradiscio…
(a propoxito: o l’é… o STOCCHEFISCIO!!)
Poesia dialettale scritta nel luglio ’71 da Luigi Vacchetto, detto “O Bacillo”.
Nel 1909 l’architetto Gaetano Poggi modificò le scale di accesso e sostituì con ringhiere in ferro, il muretto al quale venivano legati i cavalli. La sproporzionata scalinata al sagrato fuinvece l’ultimo, fallito tentativo, di Orlando Grosso di risistemazione degli spazi.
La piazza non ospita solo la chiesa e il chiostro ma, essendone la roccaforte, anche le principali dimore dei più importanti esponenti del casato:
Al civ. 16 Palazzo Domenicaccio Doria del XIV sec. con la loggia a tre arcate a sesto acuto, oggi tamponate. Alle originarie triforedel piano nobile sono state sostituite tre normali finestre con relativi balconetti del XVII sec.
Al civ. 15 Palazzo Lamba Doria l’unico con il porticato aperto sulla piazza. Per un certo periodo le quadrifore vennero chiuseperché gli spazi vennero destinati alle botteghe. In seguito ai bombardamenti del 1942 restò in piedi solo la facciata e venne recuperato e restaurato a partire dal 1950.
Al civ. 17 Palazzo Andrea Doria donato dalla Repubblica all’ammiraglio riconosciuto come “Padre della Patria” per averla liberata dall’occupazione francese. Il prestigioso portale di scuola toscana è per taluni opera di Niccolò da Corte e Gian Giacomo della Porta per altri, di Michele D’Aria e Giovanni da Campione. Ricco di animali esotici e fantastici quali pavoni, lucertole, teste di montoni e leoni, sirene danzanti, uccelli che beccano fiori, grifoni, pesci mostruosi e altri animaletti.
Sopra l’architrave è scolpita l’epigrafe relativa alla donazione: “Senat. Cons Andreae De Oria PatriaeLiberatori Munus Publicum”.
Il palazzo fu fatto costruire nel 1460 da Lazzaro Doriafatto testimoniato dal sovrapportanell’atrio, in pietra di Promontorio del 1480raffigurante, in omaggio al committente, la Resurrezione di Lazzaro. Al suo interno alcune parti sono ricoperte in azulejos, il rivestimento di stile moresco, molto in voga in quegli anni e molto apprezzato dal Signore del mare. In realtà il Principe non abitò mai in questa dimora perché preferì la strategica e scenografica Villa che si era fatto costruire, appena fuori dalle mura, in località Fassolo.
Al civ. 13 Palazzo Branca Doria da cui si accede al chiostro. Dante rese famoso Branca per averlo messo, ancora vivo, all’Inferno reo di aver ucciso il suocero Michele Zanchè che si era rifiutato di concedergli la cospicua dote della figlia Caterina. Secondo il Poeta gigliato il corpo del patrizio genovese sarà posseduto in terra da un diavolo e a lui è rivolta la celebre invettiva: “AhiGenovesi, d’ogni costume e piend’ogni magagna, perché non siete voi del mondo spersi?”. Versi 151-153 del XXXIII canto dell’Inferno.
Al civ. 19 della Salita ecco Palazzo Doria Danovaro con la copia dello splendido sovrapporta di S. Giorgio che uccide il Drago. L’originale è stato rubato.
Per chiudere in bellezza all civ. 1 di Via Chiossone si può ammirare il raffinato portale con il “Trionfo dei Doria” del XV sec., opera di Elia Gagini.
Al centro un carro ornato di ghirlande con due guerrieri che reggono lo scudo araldico del casato. Il carro è trainato da centauri che impugnano l’insegna del comando. Dietro al centauro un putto alato e, sotto fra le zampe, un cagnolino. Sullo sfondo due soldati con angioletti alati spingono il barroccio. Al centro della cornice il trigramma di Cristo.
Franco Battiato ancora non era natoquando i Doriaavevano già fatto loro Il verso della “Cura” del cantautore catanese “Più veloci di aquile imiei sogni attraversano il mare”… Visto che i loro sogni di gloria le aquile genovesi li avevano già ottenuti dettando legge in tutti i mari!
In Copertina: Piazza e chiesa di San Matte. Foto di Stefano Eloggi.