I lavatoi della Repubblica…

… o della vergogna…

I Lavatoi, attualmente situati nei “Giardini Baltimora”, vulgo “Giardini di Plastica” vennero costruiti nel 1797, anno della fugace Repubblica Democratica, dall’architetto al quale devono il nome, Carlo Barabino.

In origine i trogoli, detti della “Marina”, erano collocati nel contesto di una zona densamente popolata e popolare, la via dei Servi, per soddisfare una reale esigenza di servizio pubblico. Si conservano due versioni del progetto: un bozzetto più lineare a tre luci, e un altro analogo a quello realizzato, ma coi grossi pilastri bugnati arricchiti di teste leonine. Al disegno è aggiunta una curiosa nota autobiografica che appare indicativa dello stato d’animo dell’autore: “Lavaderi delli Servi, fatti da me Carlo Barabino 4 n. 1797 fatto in tempo delli Birboni. Lavoro che mi è costato la perdita della quiete d’animo…”

“I Lavatoi nella originaria collocazione accanto alla scomparsa chiesa di S. Maria dei Servi”.

L’opera, ormai completamente decontestualizzata, sorgeva sul lato opposto della valletta del Rivotorbido, accanto alla chiesa di Santa Maria sulla Montagnola dei Servi, affacciata lungo l’asse continuo Borgo Lanaioli-via dei Servivia Madre di Dio.

“Scene di vita quotidiana nella contrada dei Servi. Incisione ottocentesca”.

 

“Sotto le Mura del Colle i Lavatoi immersi nel verde dei Giardini Baltimora”.

Oggi collocati sotto i resti delle Mura di Sarzano, dove un tempo erano altri truogoli, quelli del Colle, all’interno di un parco urbano concepito negli anni ‘70 del secolo scorso in luogo del preesistente quartiere di via Madre di Dio. Sulle macerie reali e morali di millenarie contrade scolpite nella pietra, sorge l’effimero e, dopo meno di 40 anni, già fatiscente centro direzionale dei Liguri. Il sito non ha mai preso vita rimanendo quotidiana memoria della barbarie commessa. Anzi negli anni ’80 era addirittura territorio tacitamente concesso ai tossicodipendenti, una sorta di ghetto a cielo aperto, in cui le aiuole dei giardini erano disseminate di siringhe e preservativi usati.
I lavatoi vennero infatti smontati nel 1979, durante la realizzazione del Piano Regolatore Generale di via Madre di Dio, un modo elegante per sancire la distruzione del quartiere e ricomposti sotto le mura di Sarzano, da Ignazio Gardella, progettista del parco urbano ivi previsto.

L’edificio, in stile neoclassico, presenta un impianto planimetrico lineare, ottenuto dalla ripetitività del modulo-base a pianta pressoché quadrata, e composto essenzialmente da un vano che ospita la fonte (oggi non collegata ad alcuna rete di approvvigionamento idrico) e da altri due locali accessori. La grande vasca rettangolare è situata al centro di uno spazio voltato a tre crociere; essa consta di un elevato in muratura portante intonacata (originariamente in pietra e mattoni ed in seguito ricostruito in elementi di calcestruzzo) concluso da un piano di lavoro in arenaria incisa a solchi paralleli e di una bocca di erogazione a grottesche di marmo collocata su una delle due testate. Gli altri due vani non attrezzati per il lavaggio dei panni sono coperti da volte a botte e comunicano soltanto con l’esterno attraverso grandi archi chiusi da inferriate. L’asimmetria della disposizione planimetrica è magistralmente bilanciata dalla risoluzione adottata nel prospetto: il ritmo seriale ed indifferenziato dei cinque fornici a tutto sesto, mediato da un fregio a triglifi, trova la sua naturale conclusione nel timpano triangolare. L’impostazione dei pilastri rastremati verso l’alto e trattati a bugnato rispecchia la formazione romana e classica di Barabino, così come l’uso della trabeazione dorica, dove con elegante raffinatezza è collocata la targa marmorea inneggiante al popolo sovrano:

“Le cancellate dei lavatoi”.

“Al Popolo Sovrano / Gli Edili / Libertà / Eguaglianza / l’Anno Primo della Repubblica Ligure Democratica / MDCCXCVII”.

“Sulla trabeazione è scolpita l’epigrafe”.

I lavatoi del Barabino sono rimasti per lungo tempo nel più completo degrado e abbandono, deturpati, sporcati, imbrattati e violentati dall’ignoranza e oblio altrui, talvolta dimora occasionale di qualche senzatetto. Recentemente, dopo insistenti segnalazioni, sono stati avviati i lavori di ripristino che prevedono, fra i vari interventi, la dotazione di grate anti intrusione e la pulizia dei marmi al fine di restituirli al loro primitivo decoro.

Il quartiere dei maiali…

Prima ancora dell’erezione delle mura del Barbarossa (1155) la zona di Soziglia era stata adibita alla macellazione delle carni. L’origine del nome significherebbe infatti “sus” maiale e “”ilium” isola, divenuto poi “eia” quartiere, Suzeia o Suxilia. L’isola prima e il quartiere dei maiali poi. Tale sito venne scelto perché, sia la lavorazione delle carni che l’operato dei fabbri del vicino “Campus fabrorum” in Campetto, necessitavano di parecchia acqua fornita dal sottostante Rio Bachernia.

“Il Barchile di Enea in Piazza Bandiera”.

Al centro della piazza di Soziglia si trovava un barchile del 1578 abbellito con una sinuosa sirena, realizzato da Taddeo Carlone. Troppo ingombrante, a detta degli abitanti del luogo, venne trasferito in Piazza Lavagna e la sirena ricoverata in un magazzino in attesa di essere ristrutturata poiché, causa le sassate dei  monelli del quartiere, si presentava mutila in più parti. La fontana, priva del suo ornamento, nel 1844 venne destinata in Piazza Fossatello. Intanto, nel 1726 lo scultore carrarese Francesco Baratta aveva ricevuto l’incarico di realizzare per la piazza, rimasta sguarnita, una statua con soggetto “la Fuga di Enea da Troia con il padre Anchise e il figlio Ascanio”. Il monumento nel 1870, in occasione dell’ inaugurazione del nuovo mercato della frutta vicino alla Nunziata, venne definitivamente trasferito in Piazza Bandiera, dove resiste tuttora assediato dalle automobili.

Nella piazza s’incontrano locali storici la cui fama si diffuse in tutte le principali corti europee:

“L’elegante vetrina di Romanengo”. Foto di Leti Gagge.
“Dettaglio della cornucopia”. Foto di Leti Gagge.

 Al civ. n.74r la Confetteria di Pietro Romanengo. Non v’era ricevimento infatti in cui non si degustassero, fra le tante celebri preparazioni, le gocce di rosolio e lo sciroppo di viole. Sul portale campeggia una guantiera colma di frutta candita con ai lati due putti. Al centro, fra le due vetrine, una cornucopia con fiori e frutta  sormontata da un elmo di Mercurio. L’azienda venne fondata nel 1780 in Via della Maddalena e si trasferì qui, nella nuova bottega di Soziglia, nel 1814. Preziosi e particolari gli arredi originali di quel periodo, specchiere e legni intarsiati, pavimenti in marmi policromi, lampadari e soffitti affrescati.

Al civ. n. 98r la Pasticceria Klainguti fondata nel 1828 da quattro fratelli svizzeri che erano giunti a Genova provenienti dalle valli intorno a St. Moritz, con l’intenzione d’imbarcarsi in cerca di fortuna oltreoceano. Ma l’America la trovarono a Genova dove esercitarono con profitto e passione la loro arte. La caffetteria è arredata fra il barocco e il liberty e, a testimonianza della propria storia, conserva orgogliosa un biglietto autografo di Giuseppe Verdi che decanta le virtù dei pasticcini “Falstaff” così battezzati dai proprietari in onore del famoso compositore.

“La Vetrina di Klainguti”.
“La dedica autografa di Giuseppe Verdi in cui il celebre compositore elogia i pasticcini, intitolati in suo onore Falstaff, di cui era ghiotto”.
“Madonna Incoronata o Mater Salutis, edicola a medaglione con Vergine in rilievo”.

Al civ. n. 10 ci s’imbatte nell’edicola della “Mater Salutis” un medaglione del 1854  posto a ricordo dell’epidemia di colera che colpì in quell’anno la città ma che risparmiò miracolosamente gli abitanti del palazzo su cui è affissa. Scolpita dal Cevasco si tratta dell’ultima edicola sicuramente datata innalzata nel centro storico.

 “Il Signore e gli Abitatori di Questa Casa / Cui Parve Grazia dell’Augusta Vergine Salutifera / Il Non Aver Compianto Persona  / Tocca Tra Queste Pareti dall’Indica Lue / Con Dispendio Comune il 31 Dic. 1854 / Qui Ne Allogarono La Cara Effige / Condotta da Gio. Batta Cevasco Valente Scultore / Perché Duri Memoria di Tanto Beneficio”.

“Il Palazzo della Dogana con l’Edicola di san Giovanni”. Foto di Leti Gagge.
“L’edicola di San Giovanni sul Palazzo della Dogana”.

Al civ. n. 116r sul palazzo che un tempo fungeva da dogana la grande edicola barocca di “San Giovanni Battista”. Sul timpano spezzato il Padre Eterno benedice i passanti con la mano destra  mentre con la sinistra regge un mappamondo. San Giovanni è invece raffigurato nell’atto di preghiera con ai piedi l’agnello di Dio. Quando nel palazzo si sviluppò un indomabile incendio vennero portate qui dalla cattedrale le ceneri del santo e le fiamme d’incanto si spensero. Ritenuta pertanto miracolosa questa  grande edicola  a tempietto è divenuta nei secoli oggetto di grande devozione. Alla sua base l’epigrafe: “Nostra Tutela Salve”.

“La Madonna della Misericordia”.

 All’angolo con Vico del Fieno la  secentesca Madonna della Misericordia, un’ altra edicola a tabernacolo classico, curvo spezzato con trigramma di Cristo, la cui mensola è sorretta da tre angeli. 

“Rivendita di stoccafisso”. Foto di Leti Gagge.

Proseguendo verso la Via e la Piazza dei Macelli di Soziglia, il “Fossatus Susiliae” sopra il rio sottostante si succedono botteghe alimentari di ogni genere in particolare rivendite di stoccafisso e baccalà, besagnini, drogherie, pescherie e, ovviamene, macellerie. Già prima del X sec. infatti, qui era il cuore di uno dei tre mercati di carne cittadini. Gli altri due si trovavano nel quartiere del Molo e in porto.

“Dettaglio con i personaggi del bancone della macelleria”
“I banconi della macelleria”.

A proposito di macellerie, all’angolo con Vico dei Corrieri, si incontra la rivendita di carni più patriottica d’Italia con un sontuoso bancone marmoreo intagliato con le figure dei personaggi protagonisti del Risorgimento. Da Garibaldi a Bixio, da Mazzini a D’Azeglio, (alcuni dicono Mameli, altri Cavour e La Marmora). In un angolo si notano la figura intera di Mercurio Dio del commercio e  il volto di una giovane donna incoronata a rappresentare l’Italia.

All’incrocio con Vico Lavagna colpisce una particolare rappresentazione della Madonna Assunta. In questo settecentesco dipinto  su ardesia la Vergine è raffigurata in volo sorretta da un gruppo di angeli. Poco più avanti, al primo piano, si possono notare le “mampae” le finestre con pannelli mobili riflettenti, espediente tipicamente genovese utilizzato per ottimizzare l’illuminazione degli interni.

“L’Edicola della Madonna della Città della Corporazione dei Beccai”. Foto di Leti Gagge.

Dal civ. n. 15r  fino al 25r sono ancora visibili sei archi tamponati, sede originaria dei mattatoi. All’incrocio fra via e piazzetta l’edicola della Corporazione dei Beccai recentemente restaurata. Un grande tabernacolo in stucco custodisce la settecentesca marmorea “Madonna di Città” che seduta, porta il Bambinello in braccio con due curiose teste di cherubini che spuntano dai drappeggi. Alla base un cherubino alato sorregge la mensola , ai lati due grandi angeli in soffici vesti, reggono il timpano curvo con la raggiera e lo spirito Santo. Ai piedi l’epigrafe: “Laniorum Ars Huius / Modi Deipare Simula / Crum Posvit Anno / Dni MDCCXXIV (1724)”.

“I colori di un besagnino sotto l’occhio vigile dell’edicola”.
“I palazzi sgomitano il loro spazio al sole”.
“La palazzata della piazza dei Macelli di Soziglia”.

In questa piazza dove le palazzate colorate si arrampicano le une sulle altre alla ricerca di un posto al sole,  non servono spiegazioni, bisogna solo ascoltare i suoni mediterranei delle parlate ed ammirare i  vivaci colori che i besagnini dipingono sui loro banchi, mischiati a quelli argentei pennellati dai pescivendoli. Infine occorre abbandonarsi, “In quell’aria carica di sale, gonfia di odori “ cantava Faber, agli invitanti aromi provenienti delle botteghe e respirare… Genova.

Genova febbraio 2017.

 

Clangore di spade…

Campetto e non Piazza Campetto, come erroneamente si dice, in origine era un rigoglioso orto addossato alle mura dell’antico castrum romano.

Fu nel 1155 con l’erezione delle poderose mura del Barbarossa che divenne snodo cruciale della nuova viabilità cittadina e sede di numerose botteghe artigiane. Il “campus fabrorum”, così indicato nelle antiche mappe, era la zona dei fabbri. Di conseguenza le contrade vicine presero toponimi legati alla lavorazione dei metalli e delle armi: Via degli Orefici, Vico Scudai e Vico degli Indoratori erano le fabbriche dove, fino al ‘600, si forgiavano le spade, gli scudi e le armature della Repubblica, prima che queste attività venissero trasferite nella zona fra la Maddalena e Strada Nuova in Vico del Ferro.

“Panoramica notturna di Campetto”. Foto di Leti Gagge.
“La statua di Ercole di Filippo Parodi”. Foto di Leti Gagge
“Palazzo del Melograno”. Foto di Leti Gagge.

Su Campetto si affacciano diverse prestigiose dimore quali, ai civ. n. 8 e 8a, il cinquecentesco Palazzo di Gio. Vincenzo Imperiale disegnato da Giovanni Battista Castello, detto il “Bergamasco”, una ricca magione patrizia affrescata da Luca Cambiaso e dal Bergamasco stesso; al civ. n. 2 il Palazzo Ottaviano Sauli, poi Casareto De Mari, a tutti noto come “il palazzo del Melograno”. Al suo interno, nell’atrio di un grande magazzino, la secentesca statua di “Ercole”, frutto della superba mano di Filippo Parodi e “la Madonna della Misericordia”, pregevole settecentesca creazione di Francesco Maria Schiaffino che, posta in una nicchia rinvenuta durante un restauro, ornava il “pregadio” privato della famiglia.

Al centro dello spiazzo il barchile con il fauno che suona la conchiglia. La fontanella risale al 1643 scolpita da Giovanni Mazzetti e un tempo si trovava nel quartiere di Ponticello, più o meno nella zona alla confluenza con Via Fieschi, occupata oggi da Piazza Dante. Prima di giungere in Campetto la scultura dal 1936 al 1990 venne spostata nel cortile minore del Ducale quando il Palazzo svolgeva le funzioni di Tribunale.

“La targa che omaggia G. B. Ottone”.

Sopra il civ. n. 1r una lapide marmorea ricorda il prezioso contributo di G. B. Ottone durante la rivolta anti austriaca del Balilla nel 1746. Il commerciante che aveva qui la sua bottega acquistò e distribuì a sue spese le armi e guidò l’insurrezione.

“La lapide in ricordo di Sir James R. Spensley”.

Ai civici n. 3 e 5 palazzi secenteschi i cui sbiaditi affreschi e i ricchi portali sono trascurata testimonianza di glorie passate.

“Antica cartolina in cui si nota, al centro, l’insegna dell’Albergo Unione”. Collezione di Stefano Finauri.

Al civ. n. 19r occupato oggi da un supermercato di alimentari sorgeva dal 1216 la piccola chiesa di San Paolo. Nel 1600 l’edificio fu destinato a convento dai padri Barnabiti poi, a fine ‘700 soppresso dagli editti napoleonici, trasformato prima in stalla, poi in macelleria in ultimo, fino al 1821, in teatro (“piccolo Teatro di Campetto”). Le colonne della chiesa furono smontate e riutilizzate per la facciata neoclassica della basilica delle Vigne. Alzando lo sguardo tra le corsie del supermercato e sbirciando dietro alle colonne è tuttora possibile ammirare brani di antiche pitture, stucchi e decori.

“Affreschi di Lazzaro Tavarone a palazzo Gio. Battista Imperiale”.

Al civ. n. 9 Palazzo di Gio. Battista Imperiale i cui sfarzosi affreschi sono ancora visibili lato Via di Scurreria, a fine ‘800 venne impiegato come albergo, il famoso “Albergo Unione”, allora alloggio privilegiato dai sudditi di Sua Maestà. Non a caso nell’atrio una lapide ricorda che vi soggiornò il Dott. James R. Spensley, fra i fondatori del Genoa CFC nel 1893 e padre dello scoutismo genovese.

Campetto è molto, molto più di una semplice piazza…

La Colonna Infame di Vico Tre Re Magi…

Il Vico dei Tre Re Magi prende il nome dall’omonimo Oratorio raso al suolo durante la seconda guerra mondiale.

L’Oratorio fu eretto nel 1365 e poi ricostruito in forme barocche nel 1611. Nei primi decenni del Novecento venne concesso a privati ed adibito a fabbrica di mobili. Alcune opere d’arte al suo interno sono state recuperate e conservate presso il vicino museo di S. Agostino, altre purtroppo, sono andate irrimediabilmente distrutte: degli affreschi di Lazzaro Tavarone, Luca Cambiaso e di Bernardo Castello di cui parlano gli storici dell’arte, non si ha più traccia.

Le vicende di questo edificio possono essere assurte ad emblema dell’ignoranza e della superficialità con cui i cementificatori del secolo scorso hanno gestito i beni comuni e distrutto interi quartieri dalla storia millenaria, cancellando le contrade dei Lanaioli, dei Servi, della Madre di Dio e della Marina.

Forse per questo gli abitanti del centro storico proprio qui, nel cuore di Sarzano, dove tutto un giorno ebbe inizio, hanno collocato la loro “Colonna Infame”.

Posta all’angolo con Via del Dragone (nello spiazzo dietro l’abside di S. Agostino) nella prima parte omaggia la più celebre descrizione della nostra città:

“… Arrivando a Genova / Vedrai Dunque / una Città Imperiosa, / Coronata da Aspre Montagne, / Superba per Uomini e per Mura, / Signora del Mare/ Francesco Petrarca 1358, a Cura dei Genovesi / del Centro Storico / Giugno 1990

Sotto prosegue…

“Male non Fare / Paura non Avere”. 1945 1981 – A Vergogna dei Viventi e a Monito / dei Venturi Come Usava ai Tempi / della Gloriosa Repubblica di Genova / Dedichiamo Questa / Colonna Infame / all’ Avidità degli Speculatori / e alle Colpevoli Debolezze / dei Reggitori della Nostra Città. Con Vandaliche Distruzioni Hanno / Cancellato Tesori di Arte e di Storia / Eliminando Interi Quartieri / del Centro Storico Marinaro ed Artigiano / Deturpando per Sempre la Fisionomia / della Città fino all’Inaudito Gesto / di Demolire la Casa Natale di Nicolò Paganini. Essi Hanno Così Disperso la Popolazione / di Questi Quartieri con l’Infame / Risultato di Sradicare le Fiere Tradizioni / che Fecero Genova Rispettata e Potente.

I Genovesi dei / Quartieri della. “Marina” / “Via Madre di Dio” / “Via del Colle” / “Portoria” / “Sarzano e Ravecca”.

… alla base della colonna, conclude poi con le amare parole di un grande musicista:

“Non ci Sarà Mai Più un Secondo Paganini” / Franz Liszt.

“La lapide posta sotto l’edicola della casa natale di Nicolò Paganini in Vico Gattamora”.

A proposito di Paganini in Vico Gattamora sotto l’edicola che ornava la casa natale del celebre violinista era affissa una lapide che recitava:

“Alta Ventura Sortita ad Umile Luogo / in Questa Casa/ il Giorno XXVII di Ottobre dell’Anno MDCCLXXXII / Nacque / a Decoro di Genova a Delizia del Mondo / Nicolò Paganini / nella Divina Arte dei Suoni Insuperato Maestro”.

Nostra Signora del Monte…

Sulla collina di San Fruttuoso si staglia il santuario di Nostra Signora del Monte, uno dei luoghi di culto più amati e frequentati dai genovesi.

“Il santuario di Nostra Signora del Monte”.

In origine, prima dell’anno mille, sul monte si trovava una piccola cappella votiva ma fu solo durante il XII sec. che si deliberò, così annota un antico atto notarile, la costruzione di un edificio molto più imponente.

La  versione in cui tuttora lo possiamo ammirare, che domina e protegge le alture, risale alla prima metà del ‘600. Fra il 1601 e il 1658 infatti subì una radicale ristrutturazione in stile greco-romano. Il progetto e gli affreschi della volta della navata principale sono di Giovanni Andrea Ansaldo, l’altare maggiore, in marmi policromi, è frutto della conclamata maestria dei fratelli Giovanni e Giovanni Battista Orsolino.

Durante l’assedio austriaco del 1746 il convento, in virtù  della sua strategica posizione, venne difeso strenuamente dai soldati della Repubblica che respinsero gli invasori.

“Vista mare dal sagrato”.

Secondo la tradizione, a seguito di strane apparizioni luminose, la Madonna in persona si sarebbe manifestata ai fedeli a partire dal 1440 con reiterate apparizioni anche nel ‘500.

Da allora il santuario venne intitolato dai francescani alla Madonna del Monte e divenne oggetto di pellegrinaggi ed ex voto di carattere, soprattutto, marinaresco.

Tale Madonna con immancabile Bambino venne rappresentata da una statua  lignea quattrocentesca, oggi ricoverata nella cripta, dell’artista senese Francesco Valdambrino. Al suo interno le cappelle vennero concesse in patronato a nobili famiglie patrizie quali Saluzzo, De Ferrari, Salvago, Adorno, Grimaldi, Fieschi, Negrone. Qui vennero sepolti tre dogi appartenenti a quest’ultima casata: Bendinello, Domenico, e G. Battista. Le tre tombe si trovano nella quarta cappella della navata di destra, quella detta di “S. Anna” perché un tempo, fino al 1812, custodiva il braccio della santa. La preziosa reliquia, dopo varie peripezie, a metà del ‘400, era stata qui ricoverata per sfuggire alle razzie dei turchi, proveniente dalla colonia di Pera. La santa viene qui effigiata in una pala d’altare opera di Domenico Fiasella.

“Sul risseu del sagrato i simboli della Madonna, dei francescani e lo stemma della Repubblica di Genova”. Foto di Leti Gagge.

 

Da qui si accede al secentesco chiostro  e alla sala degli ex voto. Nella cappella dei Salvago è possibile ammirare un pregevole polittico di un “Annunciazione” della seconda metà del ‘400 di mano anonima, in quella a destra del presbiterio, una notevole “Natività” di G.B. Carlone.

Da una porta in fondo alla navata di sinistra si accede alla sacrestia, locale in cui sono conservate opere d’arte che arricchirebbero la collezione di qualsiasi museo: tre dipinti, “S. Francesco d’Assisi”, “S. Antonio da Padova” e “S. Caterina da Siena”, di Bernardo Stozzi, una tela “L’albero di Jesse”, di Andrea Semino, una “Annunciazione”, di Giovanni Andrea Ansaldo e una “Flagellazione”, di Sebastiano del Piombo. Nel refettorio del convento, oltre ad un pulpito di ardesia, intarsiato con figure di Madonne e santi francescani, è possibile ammirare una splendida “Ultima Cena” del 1641, di Orazio De Ferrari, uno dei tanti insuperati maestri del ‘600 genovese, recentemente riportato agli onori dalle recensioni di Vittorio Sgarbi.

“Il sagrato in risseu”. Foto di Leti Gagge.

Affissa fuori sul sagrato della chiesa c’è poi una curiosa lapide che rammenta una battuta di caccia avvenuta il 2 agosto del 1785. Protagonista di tale targa è il re delle Due Sicilie Ferdinando IV di Borbone che, proprio come il “Geordie” di Faber, uccise tre cervi nei boschi ai piedi del monte.

Ultima curiosità al santuario si deve anche il nome dell’omonimo amaro, un digestivo a base di 36 erbe e spezie, preparato per secoli dai frati del convento. Sul finire dell’800 la ricetta dell’Amaro di Santa Maria al Monte, inalterata dal 1858, è stata affidata e brevettata dall’esperto liquorista Nicola Vignale. La produzione  è stata dislocata a distillerie esterne ed è oggi acquistabile in qualsiasi rivendita.

“Antica cartolina del santuario”.
“La creuza in salita di accesso al sagrato”.

Dal santuario si gode di un invidiabile panorama e di un punto di vista privilegiato. Genova onora la Madonna e si mostra in tutta la sua bellezza… forse per questo un tempo ogni nave che entrava in porto le rendeva omaggio sparando un colpo a salve di cannone!

“Il Cielo in una stanza”…

… Storia di predoni… di banditori… di catapulte… di cantautori…di case chiuse…

Varcato l’imponente accesso di Porta Soprana a sinistra si sale verso Via Ravecca, dritto si scende verso Salita del Prione e a destra si procede lungo Via di Porta Soprana. Tra queste ultime due, sul piano di S. Andrea, ci si imbatte in un anonimo caruggio, uno stretto vicolo dal curioso toponimo: Vico delle Carabaghe.

Un tempo fino agli anni ’50 del ‘900, come testimoniato dai versi di Camillo Sbarbaro e dai racconti di Remo Borzini e Giancarlo Fusco, questa era una contrada affollata di rinomate case di tolleranza.

Non si sa se l’origine del nome “Carabaghe”  ovvero il calarsi le braghe di popolare memoria sia dovuta alla vocazione erotica del quartiere oppure se sia legata all’etimo della vicina Salita del Prione dove, a far calare le braghe, erano invece i predoni. Secondo alcuni storici infatti il toponimo deriverebbe dal latino barbaro “Predoni Castri”, poi “Montata Castri” che stava ad indicare la pericolosità del luogo, in mano ai briganti.

Altri studiosi propendono invece per  un’altra versione che nulla avrebbe a che fare con quanto sopra affermato. In cima alla salita era posta una grossa pietra, “Prion”, sulla quale il cintraco, il banditore urlava i suoi proclami alla cittadinanza.

Quasi sicuramente invece l’interpretazione corretta deriva dal cinquecentesco utilizzo di piccole catapulte, denominate “calabrage”, che servivano per lanciare, sul nemico, oltre le mura, sassi di piccole dimensioni. Gli strumenti bellici venivano quindi, data la vicinanza alla Porta, ricoverati nell’attiguo caruggio che perciò ne assunse il nome, mutato nel tempo, in “carabaghe”.

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Salita del Prione. Foto di Giovanni Cogorno,

Al di là dei dibattiti sulla genesi della denominazione pochi sanno che in Vico dei Castagna, in fondo a Vico delle Carabaghe, il cantautore Gino Paoli trasse ispirazione, durante un suo incontro passionale, dalle pareti viole di un bordello, per scrivere la celeberrima “Cielo in una stanza” portata in auge da Mina.

Così, dall’amor profano e carnale, è nato quello romantico e poetico di “quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti, ma alberi, alberi infiniti…”

A proposito di congiure…

Certo le più celebri congiure, “mobbe” in genovese, sono quelle dei Fieschi del 1547 e di Vacchero del 1628 ma la storia parte da lontano, molto più lontano: la prima di una certa rilevanza di cui si ha notizia risale al 1164, al tempo delle divisioni fra Guelfi e Ghibellini, quando a farne le spese fu il Console Melchiorre della Volta, assassinato dagli esponenti della fazione opposta.

Altro episodio che merita di essere ricordato è legato a Simone Boccanegra, eletto nel 1339 primo doge della Repubblica.

Costui, invitato al sontuoso banchetto organizzato nella villa di Pietro Maloccello in onore del  suo prestigioso ospite il re di Cipro, morì “vox populi”, avvelenato. 

“Foto delle due lapidi di Via T. Reggio”. Foto di Giuseppe Ruzzin.

Fra l’Arcivescovado e palazzo Ducale c’è una strada intitolata ad un vescovo di Genova di fine’800, Tommaso Reggio, che è in realtà una galleria a cielo aperto di misfatti contro la Repubblica.

All’incrocio con Salita alll’Arcivescovato, ad angolo con palazzo Ducale, sono infatti affisse, ad eterno ricordo, due lapidi che raccontano:

la prima del tentativo nel 1648 ad opera di Gian Paolo Balbi di sovvertire l’ordine costituito e d’impadronirsi, con l’appoggio del Cardinale francese Mazarino, del governo della città.

Il nobile riuscì a scappare dalla sua condanna e terminò i suoi giorni ad Amsterdam, commerciando cioccolato.

“La Loggia degli Abati”.

“Ioanni Pavlo Balbi / Hominum Pessimo, Flagitys Omnibus Imbuto, / Impvro, Sicario/ Monetae Probatae, Adveriterinae, Tonsori, Conflatori / Insigni Fvri, et Vectigalivm Famoso Expilatori: / Ob Nefariam in Remp. Conspirationem /  Perdvelli Maiestatis Publicato, / Fisco Bonis Vindicatis, Filys Proscriptis, / Infami Poena Laqvei Damnato,  / Ad Aeternam Ignominiam Nefandae Svi Memoriae /  Lapis Hic Erectus.  / ANNO MDCL.

La seconda invece riferisce del tentativo ordito da Raffaele Della Torre nel 1672, in accordo con il Duca di Savoia, di assalire Savona e Genova calando dalla Val Bisagno. Fallita la “rassa” fu raggiunto e assassinato da un sicario della Repubblica a Venezia.

“Raphael De Turrio-v-y / Aliene Svbstantie Cvnctis Artibvs Exoilator/ Improbvs, / Homicida Predonvm Consors, et in Patrio Mari Pirata, / Proditor, et i Maiestatem Perdvellis, / Machinato Reip.ce Excidio, / Svpplicys  Enormitate Scelervm Svperatis/ Fvrcarvm Svspendio Iterato Damnatvs, / Adscriptis Fisco Bonis, Proscriptis Filys, / Dirvtis Immobilibvs, / Hoc  Perenni  Ignominie Monimento / Ex S.C. Detestabilis Esto. / Anno MDCLXXII.

Il copione è sempre lo stesso puniti con la condanna a morte i cospiratori, distrutte le proprietà, confiscati beni e ricchezze, esiliati i figli. Immortalata la loro vergogna da lapidi a eterno memento.

“Il Chiostro dei Canonici di San Lorenzo”.

Oltre a queste pietre dell’infamia, in via Tommaso Reggio, ve ne sono altre tre più recenti che raccontano il sacrificio, la prima nel 1833, di Jacopo Ruffini incarcerato nelle prigioni del Palazzetto Criminale, dentro la Torre Grimaldina, il ripristino, la seconda, del Campanone della Torre, i lavori di restauro la terza, del 1936 sotto la direzione dell’architetto Orlando Grosso.

“Uno dei due passaggi sopraelevati”.

Il Palazzetto Criminale, un tempo sede dell’Archivio di Stato, venne costruito a metà del XVI sec. su una delle quattro torri che costituivano, in origine, il palazzo del Comune. Al suo esterno degno di nota è il bel portale di pietra sormontato dallo stemma marmoreo di Genova: due eleganti e fieri Grifoni che reggono lo scudo della città.

Il Palazzetto è collegato sia all’Arcivescovado che al palazzo Ducale  da due ponticelli coperti che permettevano al Doge e all’Arcivescovo rapide vie di fuga e, soprattutto, garantivano la possibilità di muoversi indisturbati, all’interno delle stanze del potere, lontano da occhi indiscreti.

“Torre del Popolo o Grimaldina”.

Nella Via ha sede il Museo Diocesano il cui edificio venne costruito fra il 1176 e il 1184 come residenza dei canonici di San Lorenzo. Di particolare interesse il chiostro, frutto di diverse ristrutturazioni e stili nei secoli; due ali sono infatti medievali, due secentesche come, del resto, le relative sopraelevazioni. Trecentesca è invece la Loggia degli Abati ( in realtà ricostruita nel 1935 da O. Grosso), edificata su una preesistente proprietà dei Fieschi, per dare alloggio, appunto, agli Abati del Popolo.

Palazzo dell’Arcivescovado, Palazzetto Criminale, Torre Grimaldina, Loggia degli Abati, Museo Diocesano e Chiostro dei Canonici, osservate pure con il naso all’insù, ma guardatevi alle spalle, i traditori vi osservano dietro ad ogni anfratto!

In Copertina: la lapide che racconta le vicende di Gian Paolo Balbi.

Storia di un re… di una regina…

Il 1311 è un anno importante nella storia della Repubblica poiché, per la prima volta, Genova dilaniata dalle lotte intestine, si dà in signoria ad un sovrano straniero.

“Quel che resta del corpo principale del monumento a Margherita di Brabante di Giovanni Pisano”.

Nel gennaio di quell’anno infatti, Enrico VII di Lussemburgo (nome volgare Arrigo VII) viene incoronato in Sant’Ambrogio a Milano re d’Italia. Due sole città Genova (come in occasione del celebre “Abbiamo già dato” sbattuto in faccia a Federico Barbarossa) e Venezia rifiutano di pronunciare il giuramento di fedeltà fino a che non vengano garantiti loro gli antichi privilegi.

Re Enrico VII nomina suo Vicario a Genova Amedeo di Savoia, conferma le concessioni ai genovesi e mantiene inalterata la struttura governativa della città. Genova deve però contribuire al faraonico compenso del suo nuovo reggente corrispondendogli la cospicua cifra di quarantamila fiorini annui.

In ottobre, durante il suo viaggio a Roma, per la cerimonia d’incoronazione imperiale, il re passa per Genova dove, davanti a S. Salvatore, nella piazza di Sarzano viene accolto con tutti gli onori. Oltre al numeroso esercito ed al ricco seguito ad accompagnarlo c’è la sua sposa, la regina Margherita di Brabante. Ai due sovrani i genovesi, sotto forma di dono, regalano ottantamila fiorini d’oro.

Le due fazioni che, in quel periodo, si contendevano il governo della Dominante erano capeggiate da Opizzino Spinola e Guglielmo Fieschi i quali, in cambio dell’appoggio reale, avrebbero garantito al sovrano il completo dominio della città per 20 anni. Enrico VII, da accorto politico, chiede che sia l’assemblea popolare a ratificargli tale proposta. In questo modo podestà, abate del popolo e senato forniscono mandato al nobile Rolando di Castiglione per il conferimento per 20 anni della potestà di Genova.

Le lotte di parte, soprattutto fra Doria e Spinola, non cessarono ma in questo modo la Repubblica aveva manlevato parte delle proprie responsabilità, riversando su altri le proprie inettitudini e il sovrano, senza colpo ferire, aveva acquisito un importante territorio, una flotta invincibile ed un sacco di palanche.

Ma il prezzo che Enrico VII dovette pagare fu comunque più alto di quanto avesse potuto immaginare poiché, a causa della peste portata in città dalle sue truppe, il 13 dicembre di quell’anno in S. Domenico pianse l’amata sposa, morta a causa del morbo.

Quanto riferito da alcuni tardi cronisti, ovvero che Margherita fosse morta nel convento di S. Domenico assistita amorevolmente dai frati, risulta poco credibile, soprattutto se messo a confronto con la testimonianza di Albertino Mussato suo contemporaneo (che conobbe la coppia reale), secondo il quale la morte della regina sarebbe invece avvenuta fuori città «in palatio eredum Benedicti Zachariae».

La notizia è del resto compatibile con la possibilità che l’imperatrice, a causa della sua malattia, si trovasse al di fuori della mura urbane, che il sarcofago fosse privo di murature e di lapidi e che, secondo il volere di Enrico, esso dovesse essere trasferito in Germania. Ma era trascorsa appena una settimana dalla morte, che a Margherita già veniva attribuito il primo miracolo e le sue spoglie cominciarono a essere oggetto di un’intensa devozione popolare. La fama della sua santità si diffuse spontaneamente; voci di altre opere miracolose si propagarono finché, nel 1313, ella fu dichiarata beata.

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“A sinistra la Madonna priva di Bambinello del museo di S. Agostino, al centro la Giustizia di Palazzo Spinola, in basso a destra la Prudenza della collezione svizzera, in alto a destra la Temperanza di proprietà dei Doria”.
“Testa della Fortezza a Palazzo Spinola”.

Fu il culto rapidamente cresciuto intorno alla figura della consorte che indusse Enrico, presumibilmente, ad abbandonare l’idea di trasferirne i resti in patria. Anzi, nella primavera del 1312, quando egli era a Pisa, commissionò allo scultore Giovanni Pisano un monumento che celebrasse nel modo più splendido Margherita e le sue virtù. Ne è testimonianza un documento che stabilisce il pagamento di 80 fiorini d’oro all’artista pisano, come compenso per l’esecuzione della pregevole opera.

Margherita di Brabante venne dunque sepolta nel convento di San Francesco di Castelletto e il re incaricò il più grande artista del suo tempo, Giovanni Pisano perché scolpisse un monumento funebre che rendesse giustizia alla sua bellezza e bontà. L’imperatore era profondamente innamorato della sua compagna a cui rimase, vedovo inconsolabile, fedele fino alla fine dei suoi giorni avvenuta, causa malaria, nell’agosto del 1313 a soli 38 anni.

“La statua senza testa e Bambinello del museo di S. Agostino”.

Dopo i cinquecenteschi smembramenti del convento, con relativi trasferimenti e vicissitudini (grazie a Santo Varni, grande scultore genovese, nel 1874 il gruppo con Margherita venne ritrovato in un’anonima nicchia del giardino di Villa Brignole-Sale a Voltri) dal 1984 il monumento è esposto nel Museo di S. Agostino.

Scolpita in marmo apuano, la statua purtroppo non è integra, ma è mutila capo e mani, nell’ angelo di sinistra, braccio destro Margherita, testa, in quello di destra. L’artista la rappresentò splendida, più di quanto non fosse in realtà, immaginandola nel momento in cui appena rinata dopo la dipartita, per le sue virtù terrene, poté accedere direttamente al cospetto di Dio in tutta la sua radiosa bellezza e purezza.

“La Giustizia custodita nella galleria nazionale di Palazzo Spinola in Pellicceria”.

Oltre alla figura principale della regina sorretta dagli angeli, facevano parte del gruppo originario una piccola statuetta di Madonna, oggi priva di testa e senza Bambino visibile sempre nel museo di S. Agostino, una statua della “Giustizia” in buono stato e un altra della “Fortezza” con solo la testa, conservate a palazzo Spinola in Pellicceria. La testa della “Prudenza” fa parte di una collezione privata svizzera, quella della “Temperanza” appartiene alla famiglia Doria.

“Monumento funebre di Enrico VII, nella cattedrale di S. Maria Assunta di Pisa, eseguito dal maestro pisano Tino Camaino”.

”La regina Margherita di Brabante sollevata al cielo da due angeli” questo il titolo completo del mausoleo di Giovanni Pisano, oltre ad essere  l’ultima opera, il capolavoro dell’artista toscano, probabilmente è la più importante scultura funebre di tutto il Medioevo.

“La Passio di S. Lorenzo”…

Posto sull’architrave del portale principale della cattedrale di Genova si trova un bassorilievo datato alla prima metà del XII sec.

La scultura rappresenta San Lorenzo disteso orizzontalmente su una graticola, ai lati due addetti che attizzano le braci con i mantici, sovrano e popolo che assistono al martirio.

In questa splendida immagine viene mirabilmente condensata la “Passio di San Lorenzo”:

“Cattedrale di S.Lorenzo in notturna”. Foto di Leti Gagge.

Lorenzo era un giovane diacono che, stretto collaboratore di Papa Sisto II, venne insieme al Pontefice perseguitato sotto il regno di Valeriano. Per volere dell’imperatore infatti era stata emanata un’ordinanza che disponeva l’esecuzione immediata per decapitazione di tutti i  membri del clero che non avessero abiurato. Le terribili sentenze vennero eseguite per il Papa, il 6 agosto (S. Sisto tanto caro ai genovesi vincitori in quel giorno alla Meloria) lungo la Via Appia, il 10 agosto per il suo diacono, presso la Tiburtina. Secondo la tradizione Costantino onorerà quel luogo con l’erezione della maestosa basilica di San Lorenzo al Verano fuori le mura.

E’ intorno al IV sec. che iniziò a diffondersi la leggenda che Lorenzo fosse morto non per decapitazione ma arso vivo. Numerosi agiografi si occuparono della vicenda che, per quanto riguarda Genova, iniziò nel momento in cui Jacopo da Varagine ce ne tramandò il passaggio, durante il trasferimento dalla Spagna a Roma, in città.

I due futuri santi sostarono in preghiera in una piccola cappella sul Broglio, proprio nel luogo dove oggi sorge la superba cattedrale.

Scrive Jacopo: al prefetto Decio (futuro successore di Valeriano) che gli  intimò: ”Sacrifica agli dei o passerai questa notte fra i tormenti, Lorenzo rispose: ”La mia notte non è oscura, ma tutta raggiante di splendore”. L’imperatore furibondo ordinò che fosse portato qua un letto perché “vi riposi l’empio Lorenzo”. Il Santo venne disteso sulla graticola sotto la quale venne acceso il fuoco. Ma Lorenzo, proprio come molti secoli dopo farà Giordano Bruno con i suoi inquisitori, sfidò Valeriano: ”Sappi miserabile, che questi carboni ardenti mi sono di refrigerio: ma per te sono pegno di pena eterna” poi, rivolto a Decio, proseguì: ”Mi hai abbastanza abbrustolito da una parte, ora rigirami dall’altra parte e mangiami”. Lorenzo rese grazie al Signore dicendo: ”Ti ringrazio Gesù, perché ti sei degnato di aprirmi le porte del tuo regno!” e morì.

San Lorenzo insieme a San Giovanni Battista, S. Giorgio, San Bernardo e S. Siro è uno dei cinque santi patroni e protettori della Superba.

“Le spade nel pugno, gli allori alle chiome…”

… recita uno dei versi dell’Inno di guerra di Garibaldi “All’armi! all’armi!” scritto da L. Mercantini. Chi più di Gerolamo “Nino” Bixio personifica quest’immagine?

Nel cuore del quartiere di Carignano, in Piazza R. Piaggio, si trova il monumento innalzato al generale garibaldino. Occultato alla vista, lato Via Corsica ricoperto da frasche, come oggi costume diffuso, custodito nel più completo abbandono, fra panchine e ringhiere divelte, fu inaugurato nel 1952, opera della maestria di Guido Galletti.

La statua marmorea gli venne commissionata per sostituire quella primitiva in bronzo, eseguita nel tardo ‘800, dallo scultore Enrico Pazzi, andata distrutta durante il bombardamento del 1940.

Il braccio destro di Garibaldi, avventuroso marinaio e coraggioso soldato, venne immortalato nel fiero atto di sguainare la spada.

Lo scultore londinese di nascita, ma genovese d’adozione lasciò altre preziose testimonianze della sua arte in città e in Liguria quali, ad esempio, “Il Cristo degli Abissi di Camogli”, la statua del “Padre Santo” delle Grazie, quelle rappresentanti “L’Ardire” sopra la galleria Bixio del Portello e il monumento funebre del Cardinale Pietro Boetto nella Cappella di S. Giovanni in cattedrale.

“Cartolina del 1907 che illustra la statua scolpita da Enrico Pazzi”.

I figli di Genova meriterebbero maggior rispetto e considerazione, per lo meno dai loro concittadini!

Foto di Bruno Evrinetti.