“Il Sant’Uffizio…”

Il tribunale del Sant’Uffizio venne istituito a Genova nel 1256, anno in cui “obtorto collo”, per via dei rapporti diplomatici con il Vaticano, i genovesi accolsero la richiesta di Papa Alessandro IV.

Le leggi della Repubblica, in realtà, bastavano ed avanzavano per adempiere alle attività di controllo sugli eretici per cui il suddetto istituto non ebbe mai particolare rilevanza agli occhi dei Serenissimi Collegi.

A testimonianza di ciò nel 1669 l’inquisitore di stanza in città, il domenicano Fra Michele Pio dei Pazzi, (gli inquisitori erano quasi sempre membri dell’Ordine domenicano) fece affiggere in diversi luoghi cittadini l’elenco dei libri all’Indice stilato dalla Curia Romana. Ai reggenti della città, non essendone stati informati, la cosa non piacque affatto. Pertanto fecero rimuovere e distruggere gli avvisi e cacciarono l’inquisitore con il suo segretario. Curioso l’atteggiamento dell’alto funzionario quando, durante la lettura della sentenza di espulsione, iniziò a dar di matto e non trovando appiglio nelle autorità civili, lanciò una pesante scomunica. Terminato lo sfogo venne scortato insieme al suo seguito fuori dai confini della Repubblica. Onde evitare che incresciose situazioni di siffatta specie potessero ripetersi, venne emanata una legge che istituiva l’entrata in vigore di una nuova carica, quella dei Protettori, due senatori, del Sant’Uffizio, che vigilassero sull’operato dell’Inquisitore di turno.

“Chiesa e piazza in una acquaforte del 1825 di Friedrich B. Werner”.
“Le bifore della Torre Grimaldina, nel Palazzetto Criminale, viste dall’interno”.

Il tribunale ecclesiastico, come risaputo, si occupava oltre di libri all’Indice, di giudicare in materia di sortilegi, stregoneria e superstizioni e di vagliare l’abiura degli eretici. Tutti ambiti poco pratici per un popolo, quello genovese, dedito al commercio e alla finanza, per cui nel carcere del sant’Uffizio in San Domenico, nel 1746 si registrava la presenza solo di tre ospiti, per altro foresti: il primo un dottore milanese, tal Ferretti, il secondo un certo Basilio, piemontese. Quest’ultimo era stato originariamente condotto nel Palazzetto Criminale, accusato di omicidio ma, poiché continuava a professarsi innocente e ad ingiuriare la religione cristiana, venne trasferito nelle segrete di San Domenico.

I genovesi presero a cuore la situazione dei due disgraziati, prova ne è la richiesta di liberazione dei due detenuti, pervenuta sulla cattedra dei Protettori: “Serenissimi Signori sarebbe finalmente tempo che il povero dottor Ferretti milanese dopo un sì lungo e penoso carcere ne fosse rilasciato. Lo stesso potrebbe meritare il povero Basilio che, quantunque passato per disperazione alle carceri del Sant’Uffizio, ne sarebbe facilissimo il rilascio se lo conseguisse anche da Vostre Signorie Serenissime. Le circostanze dei tempi non possono per ambedue essere più favorevoli”.

I Protettori del Sant’Uffizio, su mandato dei Serenissimi Collegi, si attivarono e riuscirono a liberare sia Basilio che il Ferretti e a rimandare quest’ultimo a Milano.

“Interno di una delle celle della Torre Grimaldina”.

Rimaneva, incarcerato dal 1740, un solo prigioniero un altro medico Carlo Riva, di Sestri Levante accusato di aver più volte pubblicamente affermato: “essere la confessione stata istituita da’ pontefici, per avere il modo di sapere tutto ciò che fanno e pensano gli uomini ed essere i martiri gente uccisa da’ stessi seguaci di Dio, perché non volevano seguitare la loro fede”. Non solo, il medico aveva anche negato l’esistenza della terza persona nel dogma Santissima Trinità. Fu convinto da un amico ad abiurare  con la promessa che, una volta libero, non avrebbe dovuto fare pubblica ammenda ma solo non tornare più ad occuparsi di tali argomenti.

Nel 1797 con la fine della Repubblica oligarchica e la nascita di quella effimera democratica, sotto l’egida di Napoleone, la Santa Inquisizione terminò la sua attività a Genova.

In Copertina: Visitare i carcerati quadro di Palazzo Bianco 1643. Cornelis de Wael pittore fiammingo (1592-1667).

Salita Pollaiuoli…

Piazza del Ferretto prende il nome dalla nobile famiglia che nel 1705 diede alla Repubblica il doge Stefano Onorato e l’abate Gio. Nicolò fondatore nel 1795 della scuola per fanciulle povere in San Francesco d’Albaro.

“La loggia ogivale del XIII sec. in Piazza del Ferretto”.

All’angolo con Salita Pollaiuoli si possono ammirare i resti di una loggia del XIII sec., una grande arcata ogivale in pietra con cornice di archetti. Ai piani nobili sono state aperte quattro finestre posteriori che hanno stravolto le arcate in conci bicromi di laterizio originarie. Agli ultimi due piani resistono ancora tracce a fresco di decorazioni architettoniche con cariatidi di epoca successiva. Un tipico esempio dei mutamenti e del sovrapporsi di usi e stili avvenuti nei secoli. Da loggia mercantile con magazzino e rivendita, a residenza nobiliare.

La salita e la piazza dei Pollaiuoli devono invece il nome alle botteghe di cacciagione, selvaggina e pollame presenti nella zona fin dal 1600 all’epoca dell’apertura del caruggio stesso. In precedenza infatti queste attività erano site in piazza San Giovanni il Vecchio, accanto alla Cattedrale di San Lorenzo e prima ancora, già dal XII secolo, in Soziglia.

All’interno del ristorante “Sapori di Genova”al 17r, (un tempo si chiamava Garofano Rosso, di qui il simbolo del Partito), si legge una lapide che racconta della fondazione, in occasione della quale ci fu la scissione con gli anarchici, proprio a Genova, del Partito Socialista Italiano:

“La targa all’interno del locale che, un tempo, si chiamava il Garofano Rosso”.

“La Sera del 14 Agosto 1892/ I Delegati di 150 Associazioni Operaie/ del Mutuo Soccorso e Sociali/ Lasciata Sala Sivori/ si Riunirono in Questa Trattoria/ e qui Decisero di Indire il Giorno Dopo/ 15 Agosto 1892/ nella Sala dei Carabinieri Genovesi in Via della Pace/ il Congresso di Fondazione / del Partito dei Lavoratori Italiani/ Partito Socialista Italiano/ 14 Agosto 1892. 14 Agosto 1892.

“La Sala Sivori in Salita Santa Caterina 48r”.

La Sala Sivori che venne inaugurata nel 1869 con un concerto di Camillo Sivori, celebre virtuoso del violino ed a questi intitolata, esiste ancora ed è attualmente occupata da un cinema.

Al civ. 18r una piccola edicola a tempietto semicircolare in stucco della Madonna della Immacolata Concezione. Un tempo era decorata con teste di cherubini e riccioli floreali. La statua della Vergine al suo interno è una copia poiché l’originale è stato rubato.

“Edicola barocca secentesca con Sant’Antonio da Padova e Santa Caterina Fieschi”.

Proprio nella piazza al n. 8 si trova una delle edicole più note, quella che ritrae Sant’Antonio da Padova e Santa Caterina Fieschi. L’ovale in stucco contiene i due santi rivolti in adorazione al bambino. Sant’Antonio in ginocchio su una nube, bacia la mano del bambinello. Santa Caterina poggia su un inginocchiatoio coperto da un bel drappeggio. In mano porta, in atteggiamento estatico, il cuore. Gesù poggia su una nuvoletta dal quale spuntano quattro teste di cherubini alati. La grande cornice sagomata che racchiude la scena è sorretta da due angeli alati mentre angioletti e cherubini alati spuntano dalle nubi. Completano l’immagine una grande raggiera in legno coperta da un tettuccio in lamiera lavorato.

“Interni in stile Liberty”. Foto di Leti Gagge.
“Interni della Grotta di porcellana di Dino Campana”. Foto di Leti Gagge.
“Specchi, specchi e ancora specchi”. Foto di Leti Gagge.

All’angolo con Via Canneto il Lungo i resti di due teste di cherubini di un’altra Madonna Immacolata, anch’essa sparita. Il tabernacolo è completamente abbandonato ed ospita nidi di piccioni.

Al civ. n. 43r. il famoso Caffè degli Specchi, inaugurato nella conformazione attuale nel 1917, interamente rivestito di tasselli in ceramica con pareti e specchi dell’epoca. Spettacolare il soffitto a “grotta” che ha ispirato i versi di Dino Campana che qui amava spesso sostare:

“Entro una grotta di porcellana

Sorbendo caffè

Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce”.

In precedenza invece il locale fu di proprietà di Felice Dagnino uno dei maggiori attivisti mazziniani in città. Intorno al 1870 il caffè divenne il principale luogo di ritrovo dei repubblicani che vi organizzavano incontri e riunioni per cospirare contro la monarchia.

“I versi del poeta esposti all’ingresso del Caffè”.

Logge mercantili, mercato avicolo, fonte d’ispirazione per poeti, luogo di fondazione di un Partito e punto d’incontro per sovversivi repubblicani… e pensare che molti è solo una semplice salita come tante altre.

 

 

A spasso per Ravecca…

Varcata la Porta di S. Andrea, svoltando a sinistra s’imbocca Via di Ravecca, probabilmente il caruggio più antico della città. Ravecca, infatti, è l’evoluzione fonetica di Ruga Vecchia termine con il quale nel medioevo s’indicava una strada maestra fra due ali di palazzi. Tutta la contrada che si snoda a mezza costa, parallela alle murette, ne assume il nome.

“Edicola al civ. n.3”.

Al civ. n. 1r in una piccola nicchia semicircolare con  tettuccio in ardesia e basamento di stucco, la Madonna della Misericordia, copia dell’originale del sec. XVII-XVIII, conservata nel museo di S. Agostino.

Proseguendo, al civ. n. 3 un’altra minuscola nicchia priva di cornice sempre con tettuccio in stucco e base in ardesia al cui interno è ricoverata una Madonna col Bambinello anch’essa in stucco. Sul trave del portalino l’epigrafe: “Visitavit et Fecit”.

“Edicola di San Giovanni Battista all’angolo con Vico Gattilusio”.

All’angolo con Vico Gattilusio, il cui nome trae origine dalla nobile famiglia (in realtà furono anche pirati) che tra il 1262 e il 1462 fu signora di Metelino (Mitilene in Grecia) ed ebbe numerosi fondaci in giro per l’oriente, un’edicola di San Giovanni Battista del sec. XVII. Un tempietto classico in marmo decorato con motivi ad intarsio. La statua marmorea raffigura il santo nel consueto atto benedicente, il bastone pastorale e l’agnello ai piedi. Il libro appoggiato su un tronco d’albero da cui spunta un serpentello. Sulla roccia cui poggi il piede il santo, una minuscola figura di bambino a cavalcioni.

Sul piedistallo si legge. “De. Mense. Mail. 1616”, nella trabeazione. “Vicini. Hvivs. Contractae. Hanc. Statvam. S. Io. Bap. Erigendam. Esse. Cvravere. Sulla base infine: “Sic Hvmilis. Qvisnam. Clamanti. Voce. Potatvr. Severiore / Qveit. Vita. Fvlgere. Permini”.

 Questa breve deviazione laterale verso le murette costituiva in passato il passaggio dei doganieri al loro posto di guardia. Fino al 1858 il caruggio era popolarmente identificato come “Vico Spuncia cù”, forse per sottolineare i modi non propriamente garbati con cui le guardie effettuavano i loro controlli.

Al civ. n. 5 sul muro all’altezza del primo piano fra due finestre brani di un dipinto in cui è solo riconoscibile un disegno a rombi di colore rosso.

“L’insegna sbiadita sul marmo dell’antica tripperia”.

Di fronte al 30r. la tipica insegna in marmo di una vecchia tripperia. S’incontrano poi alcuni portalini, stipiti in pietra nera di Promontorio.

“Edicola al civ. n. 50”.

Al civ. n. 50 un tabernacolo con Madonna con Bambino del sec. XVI- XVII. La nicchia poco profonda la fa pensare più adatta ad un dipinto che ad una statuetta. L’originale è andato perso ed è stato sostituito con una moderna e anonima ceramica in rilievo. Alla base è inciso il monogramma di Maria con la corona.

Via Ravecca non è solo un percorso nella storia ma anche un viaggio nel gusto e nella tradizione:

“Gli interni della Sciamadda”.
“L’esterno di Cibi e Libri”.
“Forno Patrone. Dal 1920 la focaccia a Genova”.

al 19r. “La Sciamadda”, rivendita di torte e farinate, al n. 48 “Cibo e Libri”, un originale locale in cui è possibile consumare pasti etnici e salutistici in compagnia di un buon libro, al n. 72r. “L’Antico forno Patrone”, dove assaporare, fra le innumerevoli specialità, la migliore focaccia dei caruggi.

“Sua maestà il duecentesco campanile in alicados di S. Agostino”.

Percorso il budello di Ravecca si sbuca in Sarzano, nel cuore medievale di Genova, sotto lo sguardo severo ma indulgente del campanile di S. Agostino e allora, per dirla come il poeta, all’imbrunire, si palesa in tutto il suo solare splendore.

“Un chiarore in fondo al deserto della piazza sale tortuoso dal mare dove i vicoli verdi di muffa calano in tranelli d’ombra. In mezzo alla piazza, mozza la testa guarda senz’occhi sopra la cupoletta.

Una donna bianca appare a una finestra aperta.

E’ la notte mediterranea”.

(Canti Orfici, Dino Campana).

“Il pozzo di Giano nella piazza di Sarzano”.

“La casa delle mogli”…

Camogli è senza alcun dubbio uno dei borghi marinari più incantevoli della riviera di Levante e non solo, patria secolare dei migliori marinai italiani, da sempre compagna inseparabile delle primaverili passeggiate domenicali dei genovesi.

Di Camogli se ne ha per la prima volta menzione in un inno liturgico del 1018 e la sua storia si dipana parallela a quella della Repubblica di Genova per la quale divenne inestimabile e proficua fucina di uomini di mare. Nei secoli  successivi, a conferma della sua indiscutibile vocazione marittima, venne identificata come la  “Città dei Mille Velieri Bianchi”.

In relazione all’origine dell’etimo di questa località numerose sono le interpretazioni, alcune fantasiose e leggendarie, altre basate su studi ed ipotesi glottologiche.

Una delle prime teorie si rifà a Camulo, il corrispondente etrusco del dio Marte o a Camolio omologo nell’ambito gallo celtico. Secondo altri storici invece il nome deriverebbe dalla popolazione che abitava quei luoghi, prima della conquista romana, i Casmonati, argomentazione quest’ultima, recentemente smentita dagli studiosi moderni.

I glottologi, inoltre, dissentono sostenendo la teoria secondo la quale “Cam” significherebbe nell’antico greco ligure, “in basso” e “gi” terra, ovvero “terra in basso” (che procede lungo alla costa rispetto al valico della strada “Rua”, la Ruta).

Queste le spiegazioni storiche e linguistiche più accettate, ma esistono anche un paio di favole, miti, leggende che meritano di essere raccontate:

“Camogli fronte mare”. Foto di Leti Gagge.

La prima, forse quella più credibile, racconta di “Ca” case a “moggi” a mucchi a sottolineare la particolare e suggestiva conformazione delle abitazioni camogline ammucchiate ed addossate le une alle altre, sia sul mare che verso il monte, lungo l’Aurelia.

“Le pittoresche palazzate di Camogli”. Foto di Leti Gagge.
“La Basilica dell’Assunta ancorata alla scogliera”. Foto di Leti Gagge.

La seconda, quella che preferisco, anche se di pura fantasia, si riallaccia ad un ambito più strettamente marinaro. “Ca” casa “mugge” delle mogli poiché il borgo, con i suoi marinai spesso impelagati in qualche mare foresto, era abitato in prevalenza da donne. Una volta doppiato il promontorio di Portofino il marinaio camoglino era un uomo libero e, affrancato da vincoli terrestri, il mare diventava la sua sposa. Quando tornava, magari dopo mesi di lunga navigazione, veniva accolto in maniera coreografica. Avvistando all’orizzonte i legni rientrare, le donne esponevano infatti alle finestre dei drappi o lenzuola colorate in modo che gli uomini potessero, associando il colore prestabilito alla propria dimora, riconoscere la propria abitazione -dicono le male lingue- senza incorrere in spiacevoli equivoci.

“Il Porticciolo dei pescatori di Camogli”. Foto di Antonella Piazza.

Che il suo etimo tragga origine da divinità etrusche o galliche, dalla particolare conformazione del suo fronte mare, o dalla suggestiva accoglienza muliebre, ciascuno scelga la versione che più lo soddisfi, Camogli, esercita sempre il suo immutato fascino pronta ad arruolare, sui suoi velieri, persino il marinaio più indisciplinato, la mia fantasia.

Giordano Bruno e l’asino…

In un paio di scritti Giordano Bruno fa riferimento ai suoi soggiorni nei territori della Repubblica di Genova, nella Superba in particolare, e a Noli anch’essa Repubblica alleata e sotto sovranità genovese.

Il filosofo campano proveniva da Roma da dove si era dileguato avendo ormai compreso che il processo intentatogli dall’Inquisizione con l’accusa di eterodossia, non volgeva a suo favore.

In un primo momento si era diretto verso le città lombarde ma, causa una violenta epidemia che stava flagellando quelle terre, virò verso Genova dove rimase colpito, lui così razionale, dall’ingenua creduloneria dei fedeli.

“Facciata di S. Maria di Castello. Non lasciatevi ingannare dall’anonimo prospetto, al suo interno conserva tesori inestimabili”.

Siamo nell’aprile del 1576 nella settimana antecedente la domenica delle Palme e il monaco domenicano entrò, ce lo racconta lui stesso ne “Lo spaccio della bestia trionfante”, in contatto con i membri del suo stesso ordine di S. Maria di Castello: “Ho visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo non toccate, baciate, questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolima. Adoratela, baciatela, porgete limosina: centum accipietis, et vita aeternam possidebitis”.

Di questa preziosa reliquia il filosofo ne parla ancora per bocca di uno dei protagonisti de “Il Candelaio” che, entrando in scena, giura sulla: “benedetta coda dell’asino che adorano i genovesi”.

Da tale illustre testimonianza si deduce che, in occasione della commemorazione dell’entrata in Gerusalemme di Gesù a cavallo di un’asina (o asino, o cavallo, cavalla?), i religiosi domenicani di S. Maria in Castello mostravano la preziosa reliquia ai fedeli.

Di codesta vicenda a Genova non si ha più traccia e i resti dell’animale hanno percorso altre strade fecondando nuove leggende. A Verona, ad esempio, si narra che Cristo, una volta entrato in Gerusalemme, volle che l’asino tornasse libero per il resto dei suoi giorni. Il quadrupede vagò in paesi stranieri e, laddove era necessario attraversare il mare, l’acqua s’induriva come il cristallo, permettendone il passaggio. Fu così che visitò Cipro, Rodi, Creta, Malta, la Sicilia, costeggiò tutto l’Adriatico fino al golfo di Venezia fermandosi nel punto esatto in cui, sarebbe poi sorta la nostra opulenta rivale. Alla bestia però non doveva essere piaciuta quella zona insalubre e paludosa poiché riprese il cammino guadando l’Adige fino a raggiungere Verona, meta ultima del suo lungo peregrinare, dove visse ancora a lungo. Una volta morto gli furono tributate sfarzose esequie e i suoi resti mortali furono conservati dai devoti di quella città nel ventre di un asino artificiale fatto costruire apposta. Questa statua esiste tuttora ed è custodita nella chiesa della Madonna degli Organi dove, quattro dei più robusti monaci del convento, vestiti in pompa magna, la portano in solenne processione.

” La statua della Muleta, scultura lignea del XIV sec. custodita nel convento di S. Maria in Organo”

Tale scultura in legno, opera del XIV sec. è detta della “Musseta” (“Muletta”).

Leggenda narra che la statua si fosse arenata sulle rive dell’Adige, di fronte alla chiesa, e che contenesse al suo interno la pelle dell’asino che aveva trasportato Gesù quando era entrato a Gerusalemme.

 

“Ritratto di Voltaire”.

Questa epopea aveva incuriosito anche Voltaire che nel suo “Dizionario filosofico” tenta di spiegare razionalmente questa favola con il fatto che la maggior parte degli asini porta sulla schiena una sorta di croce nera sul pellame della schiena. Probabilmente fu notata una croce più evidente delle altre, venne messa in giro la diceria che quello fosse l’asino sacro sul cui dorso Gesù aveva cavalcato e, una volta morto, gli tributarono solenni funerali. Così, secondo il celebre enciclopedista, sarebbe nata la leggenda dell’asino di Verona e, da qui, si sarebbe poi diffusa in Francia dove, questa favola veniva addirittura raccontata durante la messa, al termine, della quale il prete si metteva a ragliare forte per ben tre volte e il popolo gli rispondeva in coro. Un esperto di reliquie francesi Collin de Plancy affermava che: “benché gli abitanti di Verona si vantassero di possedere per intero le reliquie dell’asino di Gesù Cristo, veniva mostrata a Genova, come un prezioso gioiello, la coda dello stesso asino”.

Giordano Bruno da Genova si diresse a Noli dove si mantenne insegnando grammatica “Andai a Noli, territorio genovese, dove mi intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la grammatica a’ figliuoli e leggendo la “Sfera” a certi gentiluomini”.

Il “De Sphera Mundi” era un trattato del XIII sec. opera di un monaco domenicano inglese, illustre professore alla Sorbona di Parigi, tornato di moda al tempo del filosofo campano, proprio per sostenere le tesi tolemaiche contro quelle copernicane sbandierate da Giordano Bruno stesso e dai liberi pensatori come lui. Conoscendo il coraggio e l’intelligenza del filosofo è probabile che questi non si sia limitato a spiegare quel trattato, assai in voga nelle scuole, ma che si sia adoperato per smontarne il contenuto punto su punto. “Eppoi me partii de là (Noli) e andai prima a Savona, dove stetti circa quindici giorni: e da Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il Po”.

“La statua in Onore di Giordano Bruno eretta in Campo dei Fiori a Roma nel luogo dove il filosofo venne arso vivo. Scultura di Ettore Ferrari”.
Alla base del monumento si legge un’iscrizione del filosofo Giovanni Bovio, oratore ufficiale della cerimonia di inaugurazione: “A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse“.

Da Venezia viaggiò in tutta Europa rafforzando e diffondendo sempre più le sue tesi rivoluzionarie e destabilizzanti per la chiesa cattolica: in Savoia, in Francia, Inghilterra, Germania, Praga, Svizzera, quindi di nuovo a Venezia infine a Roma  dove il 17 febbraio sarà arso vivo in Campo dei Fiori.

“Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla”, furono le sue celebri ed ultime parole.

La sua coscienza si è affidata al giudizio della Storia dalla quale è stato assolto mentre gli uomini continuano a ragliare come asini.

«Li nostri divi asini, privi del proprio sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei, o dei vicarii loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di que’ medesimi. » (Cabala del Cavallo Pegaseo).

S. Marco al Molo… non solo storia di un leone…

Con lo sviluppo delle attività marittime la famiglia Striggiaporco ottenne nel 1173 dal Vescovo Ugo Della Volta il permesso di erigere una nuova chiesa nel quartiere portuale del Molo. Curioso il fatto che il suo promotore volle intitolarla al santo protettore della rivale Venezia. All’ingresso della chiesa sulla sua tomba i suoi eredi, nel frattempo confluiti nell’albergo dei Salvago, nel ‘500 posero una lapide in ricordo del fondatore.

In origine l’accesso all’edificio di pietra in stile romanico era rivolto ad ovest e la chiesa si stagliava direttamente sui prolungamenti dei moli aggrappati alla scogliera. All’inizio del XIV sec. ne fu parroco il primo cartografo genovese di cui si abbia notizia, Giacomo da Carignano il quale, oltre ad essere uomo di chiesa e di scienza, fatto al tempo inconsueto, era anche personaggio attento agli affari: nel 1314 infatti venne diffidato dall’Arcivescovo Porchetto Spinola per aver affittato alcuni locali della chiesa ad uso marittimo a privati cosa che, con la successiva benedizione e copertura della Curia romana, continuò impunemente a fare.

“Il campanile di S. Marco spunta sulle mura della Marinetta”.

L’edificio fu oggetto a lavori  di manutenzione nel ‘400 ma fu nel ‘500 che operò le principali trasformazioni venendo inglobato nella più recente, a quel tempo, cinta muraria culminata con l’erezione della poderosa Porta Siberia.  Le mura della Marinetta costeggiandola lungo tutto il lato a nord la separarono dal contatto diretto con i moli ai quali rimase collegata, come per mezzo di un materno cordone ombelicale, attraverso la Porta della Marinetta. Fu in questa occasione che l’esposizione della chiesa venne ridisegnata e disposta al contrario. Quello che oggi è l’ingresso un tempo costituiva l’abside.  Sul finire del ‘500 e per tutto il ‘600 S. Marco al Molo subì continue modifiche e rifacimenti culminati con la settecentesca versione barocca.

“All’interno della chiesa”.

Fino ancora a gran parte dell’800, essendo il Molo la sede delle esecuzioni capitali, S. Marco costituiva l’ultima tappa del macabro corteo che partiva dal Palazzetto Criminale per snodarsi lungo le vie del centro e ricevere qui l’ultima benedizione. A testimonianza di questo spiacevole compito una lapide del 1654 rammenta come il parroco della chiesa si fosse assunto l’onere di celebrare messa in suffragio perpetuo per i condannati ogni sabato e il 2 novembre di ogni anno.

A seguito dei restauri  resisi necessari a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale sono stati riscoperti colonne ed archi romanici originali, le tracce dell’antica abside, a conferma di quanto sopra affermato, ovvero che la chiesa avesse un diverso orientamento rispetto a quello attuale e i resti della base ottagonale dell’antica torre demolita nel 1783 perché pericolante. Venne successivamente sostituita con l’attuale campanile a torre.

 

“Madonna fra i santi e le anime del Purgatorio sull’altare maggiore”.

Il campanile originario della chiesa romanica era in realtà una “torre nolare“, in quanto incorporata nella struttura dell’edificio principale, tipica del romanico primitivo; di forma ottagonale simile a quello della chiesa di S. Donato.

 

“Il bassorilievo del leone di Pola incastonato nella parete esterna della chiesa. Foto di Leti Gagge”.

Interessante il piccolo distacco di via del Molo, risalente al 1594, che accoglie il portico medioevale costruito nel 1346 a ridosso di quella che era allora l’abside della chiesa e che era utilizzato per le riunioni della “conestagia” (circoscrizione amministrativa popolare della Genova medioevale, sorta in contrapposizione di quella nobile degli “alberghi“). Ne costituiscono indelebile traccia le arcate, tamponate e le colonne in pietra accorpate nella muratura.

“Madonna tra i santi Nazario e Celso dello Schiaffino”.

Se l’esterno si presenta quindi anonimo e, ad eccezione di qualche lapide e del celebre leone di Pola, non merita menzione l’interno al contrario, diviso in colonne a lesene bianche e nere, ornate da capitelli cubici, è ricco di sorprese e custodisce opere d’arte di pregevole fattura:

 

“Particolare dell’Assunta del Maragliano”.
“Particolare della Madonna tra i santi Nazario e Celso dello Schiaffino”.

vicino alla parete d’ingresso, ”l’Assunta”, statua lignea, parte di una preziosa cassa processionale, di Anton Maria Maragliano (1736); presso il secondo altare della navata destra, “Madonna e i santi Nazario e Celso”, gruppo marmoreo di Francesco Maria Schiaffino (1735), commissionato dalla prestigiosa e potente corporazione, come indicato da un’iscrizione presso lo stesso altare, degli Stoppieri (maestri calafati).

“Le Anime purganti di Giulio Benso. Immagine tratta dal sito arteantica.eu”.
“Martirio di Santa Barbara del Fiasella”.

Tra i dipinti si notano: “Martirio di Santa Barbara”, opera giovanile di Domenico Fiasella (1622), commissionato corporazione detta dei Bombardieri (addetti alla costruzione e all’uso delle artiglierie), i “Santi Agostino e Chiara “di Antonio Giolfi, “Nozze mistiche di Santa Caterina” di Orazio De Ferrari (1630 circa) e “Anime purganti”, dipinto seicentesco attribuito a Giulio Benso.

“Nozze mistiche di Santa Caterina di Orazio De Ferrari. Immagine tratta dal sito arteantica.eu”.

Nella cappella alla destra del presbiterio infine, un altare in marmo di Daniello Solari (fine del XVII secolo), dedicato alla Madonna del Soccorso raffigurata, racchiusa in una scenografica cornice marmorea, in una tavola di Giovanni Carlone.

S. Marco al Molo non solo storia di un leone.

“Se piace al Padrino…”

La storia del salame di S. Olcese è sostanzialmente “cosa loro”, dei Cabella e dei Parodi  le due famiglie che, da oltre un secolo, se ne contendono la paternità.

Nei primi decenni dell’Ottocento la fama di questo salume varcò i bucolici confini della Val Polcevera per invadere sapidamente le tavole inurbate dei genovesi. 

L’abbinamento con le fave divenne binomio imprescindibile di qualsiasi scampagnata primaverile. Ancora oggi infatti, nel genovesato, non si contano le sagre che, da aprile in poi, celebrano il gustoso connubio. Dato l’aumento della domanda i due salumifici estesero la loro richiesta di forniture alle valli limitrofe, Valle Scrivia, Stura, Bisagno e basso Piemonte o, come dico io, alta Liguria, dalle quali approvvigionarsi delle materie prime, le carni.

“Il salame di S. Olcese. Immagine tratta dal sito del salumificio Parodi”.
“Per par condicio, immagine tratta dal sito del salumificio Cabella”.

Il gustoso insaccato è frutto dell’armonica fusione in parti variabili di carne suina (di Piemonte ed Emilia) e bovina del Piemonte (astigiano, alessandrino, cuneense). Il salame, nonostante la scontata evoluzione tecnologica, tuttora viene essiccato a legna, legato a mano e segue fedele l’antica ricetta che prevede l’aromatizzazione a base di aglio e vino bianco del Polcevera.

Entrambe le famiglie vantano documentati diritti di primogenitura. I Parodi hanno fondato l’impresa nel 1890, mentre i Cabella hanno iniziato nel 1911. Secondo i Cabella a fare fede però è la registrazione in Camera di Commercio e la loro risulta essere la prima. Se poi si discute sulla primitiva produzione casareccia tutto è opinabile e ciascuna delle due parti in causa rivendica la precedenza.

“Peter Clemenza, capo regime del clan di Corleone, è interpretato da Richard Castellano (da adulto) e Bruno Kirby (da giovane). Nella foto l’attore R. Castellano”.

L’ultima controversia tra le due famiglie che si rispettano ma non si frequentano, l’una i Parodi a nord del paese, l’altra i Cabella a sud  è proprio legata alla ricetta base. i Parodi e i Cabella hanno tesi diverse, i primi ci metterebbero più suino, i secondi più bovino. Discordi su questo punto focale non hanno trovato un punto d’incontro e quindi il salame di S. Olcese non ha ottenuto la benedizione europea che esigeva una codifica ufficiale della ricetta. Niente ricetta-base nero su bianco, niente benedizione, denominazione e tutela europea.

Pazienza, a S. Olcese ne fanno una questione d’onore .

D’altra parte, all’inizio del capitolo n. 6 del romanzo “Il Padrino”, Mario Puzo così scriveva:

“Il romanzo di Mario Puzo con il titolo originari The Goodfather fu pubblicato nel 1969 ispirando la saga dei vari Padrino (Parte prima 1972, seconda 1974 e terza 1990) di Francis Ford Coppola interpretati da Marlon Brando, Robert De Niro e Al Pacino. Fra gli altri attori non vanno dimenticati Robert Duvall , il Consigliori e Gastone Moschin, nei panni del cinico Don Fenucci”.

“Peter Clemenza quella notte dormì male. La mattina si alzò presto, si preparò da solo la colazione con un bicchiere di grappa, una spessa fetta di salame di Genova, e un grosso pezzo di pane italiano fresco che veniva ancora consegnato alla porta come nei vecchi tempi”.

Da S. Olcese a New York il salame è “cosa loro”, anzi, “cosa nostra”!

A scanso di equivoci l’associazione tra il Padrino e il salame di S. Olcese è una mia licenza poetica. Il salame di Genova citato da Puzo nulla ha a che fare con il nostro insaccato, trattasi infatti di altro tipo di salume.

“Ergiti diga e placa le tempeste”… seconda parte…

Proseguendo in direzione mare si susseguono:

“I Magazzini dell’Abbondanza”.

In Via del Molo n. 2 i Magazzini dell’Abbondanza edificati fra il 1556 e il 1557 su preesistenti costruzioni medievali. Questi magazzini erano deputati alla conservazione di biade, cereali e di tutto ciò che poteva essere accantonato e distribuito in tempo di carestia, a cura di un apposito funzionario che aveva anche il compito di regolare i prezzi delle merci e di punire azioni speculative, il magistrato, appunto, dell’Abbondanza.

“Edicola di S. Giuseppe e il Bambino”.
“Edicola della Madonna del Grano”.

Nel cortile della canonica di S. Marco al Molo, un appariscente tabernacolo barocco con marmi policromi con al suo interno una moderna statua di S. Giuseppe e il Bambino. Trattasi del bozzetto dell’originale scolpito per la tomba del cardinale Siri nell’altare di San Giuseppe, nella navata destra della cattedrale. Di fronte un’edicola della Madonna con Bambinello ed il Battista con un pastorello. Particolari i decori, fra cui una falce per mietere il grano poiché, in origine quest’edicola, era posta sul silos del grano in Ponte Parodi. Sotto il tabernacolo infatti ,una lapide recita:

“I Lavoratori / del Silos Granario / ed / I Cappellani del lavoro / nel 50° di Fondazione / 1943- 1993.

All’esterno della chiesa il bassorilievo del leone di S. Marco preda di guerra genovese della battaglia di Pola del 1380 vinta contro i veneziani. Una lapide posta al di sopra sentenzia:

“Sembra un portone qualunque, invece è l’ingresso della chiesa di San Marco al Molo”.
“Il Leone veneziano bottino di guerra della battaglia di Pola del 1380 durante la guerra di Chioggia”.

“Iste Lapis in quo est Figura Sanc / ti Marci Delatus Fuit a Civitate / Polae Capta a Nostris MCCCLXXX die XIIIII Januarii”.

Sempre da questo lato è esposta una grande lapide del 1513 dal testo molto lungo che, in sintesi, elenca i lavori relativi al prolungamento dei moli.

“La Madonna della Misericordia”.

In Via del Molo, all’angolo con Vico Palla, la settecentesca Madonna della Misericordia che appare al beato Botta. Purtroppo versa in pessime condizioni, scrostata, presenta vistose crepe. L’abraso cartiglio riporta “Moles Esto et Mollias”. Ritorna il monito: “Ergiti diga e placa le tempeste”.

 

“Il modesto accesso all’Asilo Notturno Massoero”.

Al civ. n. 13 l’edificio che ospita l’Asilo notturno Massoero.  La struttura fondata nel 1912 all’interno di un cinquecentesco palazzo che costituiva uno dei magazzini del grano. Il palazzo fu anche sede dell’Annona e della relativa caserma.

La lapide rammenta.

“Notturno Asilo / Hanno i Raminghi Senza Tetto / Questo Edificio Apprestato dal Comune / per Iniziativa di Luigi Massoero / Cittadino Integro. Pio , Operosissimo / Che al Benefico Scopo l’Intero Suo Patrimonio Legava / MCMXXII”.

“La Lapide dei Magazzini dell’Abbondanza”.

Poco distante un’altra lapide che racconta le vicende relative al magistrato dell’Abbondanza.

“Le Mura della Malapaga”.
“Le Cannoniere”.

Dalla piazzetta della Porta del Molo salendo a sinistra, si accede alle antiche mura  che nel medioevo si affacciavano direttamente sul mare. Il primo tratto, detto delle “cannoniere” fa ancora parte del corpo della porta ed era così chiamato perché vi erano allocate le batterie di cannoni della Repubblica.

“Locandina del film il cui titolo originale era: Au delà des grilles”.

Continuando si attraversa il camminamento di ronda e ci si congiunge con il tratto di quel che resta delle Mura della Malapaga. Visto che tali fortificazioni furono demolite per permettere la costruzione della caserma della Guardia di Finanza, posta sullo slargo verso Cavour, proprio al posto dell’antica prigione destinata esclusivamente ai colpevoli di reati a carattere economico e fallimenti dolosi. Nel 1949 questi luoghi ispirarono il regista  francese Renè Clement che scelse Genova come scenografia per il suo il film. Tanto è vero che intitolò la pellicola, con protagonisti Jean Gabin e Isa Miranda (fra gli altri anche una giovanissima Ave Ninchi), vincitrice dell’Oscar come miglior film straniero, “Le Mura di Malapaga”. Al di la dei successi e dei riconoscimenti della critica, il lungometraggio riveste una notevole importanza storica poiché, nonostante alcune false inquadrature causa necessità di copione, costituisce un preziosissimo ed irripetibile documentario della Genova del dopoguerra. 

Sul lato delle scalette di Vico Palla, al civ. n. 1, sopra un portalino si affaccia un inquietante testa ghignante.

“Il Campanile di S. Marco al Molo si affaccia curioso sulle mura del Baluardo”.

In zona ve ne sono altre, sparse qua e la, che scrutano di nascosto. Forse un richiamo al fatto che sul Molo, terminata l’era napoleonica della ghigliottina, avvenivano , per impiccagione,le esecuzioni capitali.

Vico Bottai deve il nome dalle botteghe costruttori di botti che erano ancora attivi ad inizio del ‘900, mentre l’attiguo Vico Cimella fino al 1868 era noto come il Vico della Rosa. Mutò il nome in onore della cittadina francese di Cimiez, vicino Nizza, un tempo territorio genovese, paese natale di San Celso martire, fra i primi predicatori del Vangelo in Liguria.

Sul fondo di Vico Bottai un tripudio di archetti in laterizio che avevano il compito di consolidare ed evitare cedimenti nei magazzini ed erano ingegnosamente utilizzati come condotti d’acqua.

Dalle scalette di Vico delle Vele una piccola edicola con statuetta moderna la cui epigrafe certifica la devozione di cui fu oggetto: “Aedam Hano Bellico / Furore Deletam / Clerus Populusque / S. Marci / Reposuerunt”. La data risulta incompleta si legge solo 1° Nov (…) Anno Sancto. Sotto un rilievo in  marmo con il testo: “Mater Misericordiae / Protege Nos / A. D. MDCCCLXXV – MCMVII.

“Cartolina di Vico delle Vele”.
“Gli archetti di Vico Bottai”.

Vico delle Vele prende il nome dai laboratori che nel ‘600 furono adibiti a tale attività. Prima erano siti in Piazza Sarzano.

Tornati nella piazzetta del Molo si incontra l’edificio del Baluardo che costeggia tutta la via fino ad inglobare anche la chiesa di S. Marco sormontato dal camminamento di ronda che un tempo si affacciava direttamente sui moli. Nel tratto del Baluardo si apre un piccolo varco chiamato “Porta della Marinetta” che collega la Via del Molo con le calate Cattaneo e Mandraccio, proprio in corrispondenza dell’abside della chiesa. Davanti alla chiesa si notano tre archi tamponati retti da pilastrini di pietra, si tratta della trecentesca loggia di S. Marco inglobata nell’edificio nel 1848.

“La Torre dei Greci. Dettaglio del 1520 circa”.

Dato che in questo quartiere i mercanti orientali avevano le proprie attività commerciali, logge, fondachi, abitazioni e luoghi di culto, la zona venne identificata come dei “Greci”. Da qui il nome della scomparsa torre sorella della Lanterna, detta appunto Torre dei Greci che, per circa trecento anni, dal ‘300 al ‘600, protesse il levante cittadino.

Quando passo di lì, ancora oggi, sussurro tra me e me, “Ergiti diga e placa le tempeste”…

In Copertina: Jean Gabin e Isa Miranda.

“Ergiti diga e placa le tempeste”… prima parte…

Il promontorio del Molo ha da sempre rappresentato la protezione naturale ed il rifugio delle imbarcazioni nella rada che ha dato origine al porto.

Nel corso dei secoli il baluardo naturale è stato prolungato a più riprese e munito di poderose mura sia sul lato del mare aperto (Mura del Molo e Mura della Malapaga) che su quello interno (il Baluardo).

Negli antichi documenti dei “Conservatores portus et moduli”, i magistrati adibiti alle attività marittime, il quartiere era indicato con il nome “Contrada Moduli”. Qui si trovava una fontanella, detta del “Bordigotto”, protagonista di un antichissimo episodio avvenuto nel 935 quando, presagio nefasto, cominciò a zampillare sangue. Di lì a poco infatti, Genova avrebbe subito un devastante attacco saraceno, uno dei più terribili che la sua millenaria storia ricordi.

“La cinquecentesca del Molo dell’Alessi”.

In pieno ‘500 vennero rafforzate le mura che partivano da Porta Soprana e proseguivano fino alla punta del Molo vecchio che venne dotato di un’apposito varco, costruito dall’Alessi, chiamato -appunto- Porta Molo Vecchio.

Il quartiere era la sede di tutte quelle attività che ruotavano intorno alle manutenzioni navali: botteghe, fabbriche e laboratori di fabbri, bottai e arredatori marittimi. In particolare vi si costruivano cannoni e proiettili per la Repubblica.

“Piazza Cavour. Prima del porticato di Via Turati Sottoripa continuava con il tratto chiamato Ripa Coltellinaria”.
“I Magazzini dell’Abbondanza. In primo piano lo stemma del Regno sardo”.
“I Magazzini del sale presso il Molo”.

Nel ‘600 la zona divenne destinata ai magazzini annonari (del sale, del grano e dell’abbondanza) e le attività prima elencate si trasferirono in parte di fronte, alla “ripa coltellinaria”, odierna Via Turati, in parte in Darsena.

In seguito alle trasformazioni di fine ‘800, inizio ‘900, la contrada è stata via via isolata dal resto della città, costituendo un’appendice del porto. I bombardamenti del 1942 e la costruzione nel 1969 della sopraelevata hanno cambiato in pochi anni ciò che era rimasto immutato per secoli. Grazie al disegno di riqualifica voluto da Renzo Piano nel 1992, il Molo ha ripreso vita traendo giovamento dalla rinascita del Porto Antico.

“L’Edicola di San Giovanni Battista”.

In Piazza Cavour ai civ. n. 3 e 4, a fianco della caserma della Guardia di Finanza, si notano tre arcate rivolte verso il molo e due verso la piazza che costituivano una duecentesca loggia confinante, un tempo, con il casone delle prigioni della Malapaga.

Al civ. n. 54r ecco una delle edicole più note, quella secentesca di San Giovanni Battista. Si tratta di un’edicola in stucco a tempietto con colonne ioniche in marmo. La statua del santo, ricoverata in una profonda nicchia, è protetta da un’elaborata grata in ferro. Ai lati due coccarde con cartigli e scudi abrasi. Alla base l’epigrafe: “Moles Esto / et Mollias / MDCXXXIIII. (“Ergiti scoglio, (diga) e placa il mare (le tempeste”).

Il tabernacolo è collocato sopra la fontana detta dei “Cannoni del Molo”, una cisterna del 1634 che costituiva una delle stazioni terminali della via dell’acqua.

“La Fontana dei Cannoni del Molo. Ai lati le numerazioni sulle listarelle di marmo e gli attacchi dei cannoni. Al centro l’Edicola di San Giovanni Battista”.

Con il termine cannoni venivano indicati i tubi che fornivano acqua alle fontane pubbliche. A differenza dei bronzini, dotati di valvole, i cannoni necessitavano, per la loro chiusura, di tappi di ferro, bronzo, marmo o ceramica.

A lato dell’edicola del Battista sono visibili due listarelle di marmo incise con numeri arabi e romani, incastonate nelle pietre, con numerose fessure per l’areazione. Una vecchia targa in ghisa riporta la dicitura “Pozzo Pubblico N. 25” con tanto di stemma e corona.

In Copertina: Via del Molo angolo Piazza Cavour. Cartolina tratta dalla collezione di Stefano Finauri.

continua…

“Mamma li Turchi!”…

… storia dell’antica Porta del Molo e della vera Porta Siberia.

Per la costruzione della Porta del Molo o Ciberia l’architetto perugino Galeazzo Alessi si ispirò al progetto della porta di San Miniato di Firenze eseguito da Michelangelo.

“… Fu chiamato dai genovesi con suo molto onore a’ servigii di quella repubblica, per la quale la prima opera che facesse si fu racconciare e fortificare il porto et il molo, anzi quasi farlo un altro da quello che era prima. Conciò sia che allargandosi in mare per buono spazio”… annota il Vasari ( e il molo s’allungò di più di 600 passi) riportando il racconto di Filippo Alberti,” fece fare un bellissimo portone” (la porta del Molo in seguito chiamata Sibaria o Siberia, realizzata fra il 1553 e il 1555), che giace in mezzo circolo, molto a!dorno di colonne rustiche e di nicchie a quelle intorno. All’estremità di quel circolo si congiungono due baluardotti, che difendono detto portone. In sulla piazza poi, sopra il molo, alle spalle di detto portone, verso la città fece un portico grandissimo, il quale riceve il corpo della guardia, d’ordine dorico e, sopra esso, quanto è lo spazio che egli tiene, et insieme i due baluardi e porta, resta una piazza spedita per comodo dell’artiglieria, la quale a guisa di cavaliere sta sopra il molo e difende il porto dentro e fuora. Et oltre questo che è fatto, si dà ordine per suo disegno, e già dalla Signoria è stato approvato il modello dell’accrescimento della città, con molta lode di Galeazzo, che in queste et altre opere ha mostrato di essere ingegnosissimo”.

La porta è collegata con le Mura di Malapaga da un lato e con il Mandraccio dall’altro. Sul fronte mare si presenta a tenaglia con due bastioni laterali mentre il prospetto interno è costituito da un porticato classicheggiante a lesene doriche con fregi di armi e scudi della Repubblica. 

A completare il sistema difensivo insieme a quella principale del Molo, altre due porte minori: della Marinetta o Giarretta e di S. Marco accanto all’omonima chiesa.

“Porta Siberia in versione natalizia con i profili dei bastioni illuminati a festa e sullo sfondo la Ruota Panoramica”.

Legata alla costruzione della porta è la leggenda che narra di una delle versioni più note inerenti l’etimo della parola “massacan”: I manovali che stavano lavorando alla sommità dell’edificio videro in lontananza le navi turche pararsi minacciose all’orizzonte. Non solo furono i primi a lanciare l’allarme ma, al grido di “Ammassae, ammassae i chen”, si scagliarono coraggiosamente contro il nemico respingendo il saraceno invasore.

Sul fornice la lapide datata 1553 proclama:

“Dettaglio della lapide del Bonfadio”.

“Aucta ex s.c. Mole Extructaq / Poreta Propvgnacolo Mvnita  / Vrbem  Cingebant  Moenibvs / Qvacunque Allvitrur  Mari/ ann. MDLIII” (Per decreto del Senato, dopo aver prolungato il  molo , munita con difese, i cittadini cingevano  con mura la città lungo tutta la parte è lambita dal  mare). L’iscrizione è attribuita all’illustre storico ed umanista genovese Jacopo Bonfadio.

Secondo alcuni storici, l’origine del nome  sarebbe legata alla nobile famiglia dei Cybo illustre casata genovese che dette alla città un Papa, Innocenzo VIII e diversi cardinali e che proprio nel ‘500 ebbe il suo periodo di maggior splendore.

“Una delle celebri illustrazioni di Lele Luzzati in cui omaggia la sua Genova”.

Il nome “Cibaria”, storpiato poi nei secoli in “Siberia”, deriverebbe dal fatto che era il varco dal quale transitavano principalmente le merci di carattere alimentare destinate ai vicini magazzini dell’Abbondanza.

“La lapide in Via del Molo”.
“L’ottocentesca vera Porta Siberia”.

In realtà quella che si crede essere  la Porta Siberia corrisponde alla Porta del Molo, così chiamata anche ai tempi dell’architetto perugino. Nelle antiche mappe infatti, il nome Siberia compare solo nel 1869 ed è il varco, come attestato da relativa lapide in Via del Molo, aperto a metà dell’800 nei pressi di Calata Marinetta. Ne resta traccia nella costruzione lato mare che l’ha inglobata tra il Ristorante le Tre Caravelle e il Baluardo.

Da diversi anni la struttura della Porta del Molo, oltre a fungere da degna cornice per il museo e la Fondazione Luzzati intitolati ad Emanuele, il grande artista e scenografo genovese, scomparso nel 2007, costituisce spettacolare accesso al Porto Antico. Varcata la quinta… Genova sale sul palcoscenico…