All’angolo con Vico Dietro il Coro di San Luca i resti della Torre della famiglia degli Spinola. Le tracce degli archi in pietra e della cornice di archetti, interrotti da finestre posticce, si alzano fino al terzo piano.
Alla base è murata una colonna ottagonale in conci bianco e neri con capitello. Di fronte alla torre i resti di un’edicola in stucco a tempietto che, un tempo, conteneva un dipinto protetto da una grata. Il sacro contenuto è stato, insieme alla cornice e alla base che conteneva un cartiglio, brutalmente asportata. Restano menomato ricordo tracce di due teste di cherubini alati.
In Vico della Torre di San Luca al civ. n. 6 si trova uno splendido sovrapporta marmoreo del sec. XVII detto delle “Virtù degli Spinola”. Al centro una ghirlanda con il trigramma di Cristo e corona, sorretta da due angeli alati, affiancati da due armigeri con gli scudi del Casato. Ai lati le nicchie con due statue femminili che rappresentano le virtù della famiglia: Carità a sinistra e Fede a destra. Gli stipiti del portale hanno la cornice lavorata che presentava dei medaglioni imperiali, oggi scomparsi, perché rubati. Il portale sembra in pietra nera di Promontorio, in realtà è solo ricoperto di fuliggine, poiché di marmo bianco.
L’angolo fra i due vicoli che si contendono la torre, un tempo vanto degli Spinola, versa nel più completo degrado, in balia di topi sempre più intraprendenti e nella sporcizia più diffusa.
Un altro esempio dell’abbandono e dell’incuria in cui, purtroppo, versano opere d’arte che altrove sarebbero ammirate in un museo, qui invece sono annerite dallo smog e incorniciate da fili elettrici penzolanti.
Imbucato il budello di Canneto il Lungo all’altezza del civ. n. 23 s’incontrano la Torre e il Palazzo dei Maruffo Fieschi. Due pezzi di Medioevo difficilmente, per via dello stretto caruggio, individuabili. I resti di quest’imponente edificio si estendono anche sul lato di Vico Valoria.
I Fieschi, conti di Lavagna, erano una delle più nobili e antiche famiglie genovesi il cui prestigio e potere affondava le sue radici al tempo in cui Genova era ancora legata alle ripartizioni imperiali. I Maruffo invece, di origine spezzina, avevano importanti possedimenti a Sestri Levante. Dopo il 1100 si trasferirono nel ponente genovese (Voltri, Rivarolo, Coronata) e si distinsero nelle guerre contro Pisa e Venezia. In virtù del prestigio conquistato, acquisirono proprietà anche nel centro storico. Ne sono testimonianza l’omonima piazzetta (dietro la chiesa di San Giorgio) il palazzo in Canneto e, soprattutto, la poderosa torre eretta nel XIII sec. Persino l’Archivolto Baliano che comunica con Piazza Matteotti, un tempo era chiamato dei Maruffi.
Al piano strada si nota una finestra chiusa da un’inferriata in ferro battuto proprio sul basamento in pietra dell’antica torre alta ben 40 metri. Due arcate ogivali tamponate e un grande pilastro ad angolo delimitano quella che un tempo era una loggia aperta. Sopra di essa sono presenti fregi e archetti in pietra e laterizio. Il primo piano nobile è in laterizio con archi di pietra bicroma, ormai tamponati. Verso l’angolo spunta una colonnina marmorea. Anche verso la torre al secondo piano risalta una colonnina mezza intonacata con un accenno di arco con cordonatura.
La Torre dei Maruffo rappresenta una metafora della città; se vuoi scoprirla, devi alzare lo sguardo. Se non la cerchi non la trovi.
In Piazza Matteotti, accanto al palazzo Ducale, si affaccia la chiesa insieme all’Annunziata, più importante del Barocco europeo, la chiesa del Gesù. Dentro a questo edificio sono racchiusi capolavori secenteschi da far invidia a qualunque museo.
In realtà il nome completo dell’istituto è chiesa dei Santi Ambrogio e Andrea. In origine venne costruita nel ‘500 d. c. dai vescovi milanesi in fuga dalla loro città minacciata dai longobardi.
Il Vescovo Onorato nel 569 trasferì la diocesi lombarda al sicuro fra le mura di Genova stabilendosi sul Brolio, accanto al piano di S. Andrea e intitolando la chiesa al patrono di Milano, S. Ambrogio. Circa un millennio dopo nel 1552, la chiesa passò nelle mani del più influente ordine del tempo, quello dei Gesuiti, la cui potenza e ricchezza erano in continua espansione. Dal 1589 assunse le forme ancora attuali, facciata a parte, che venne ridisegnata nel sec. XIX dopo la demolizione della cortina di protezione del palazzo Ducale (il palazzo ducale comunicava quindi non solo con San Lorenzo, la cattedrale, ma anche con la chiesa del Gesù, il fulcro del potere gesuitico) e la relativa risistemazione della piazza. I disegni del prospetto esterno realizzati da Rubens vennero dall’artista stesso inseriti nel suo celebre trattato sui palazzi di Genova.
La classica facciata sulla quale spiccano le due statue dei santi del 1894 del Ramognino non rende giustizia su quale sfarzo e opulenza vi si possa trovare all’interno:
Cupola e navata principale sono affrescati da Giovanni Carlone e Giovanni Battista Carlone, mirabilmente inserite in un contesto di decori, stucchi e ori abbaglianti. Sull’altare principale campeggiano “La Circoncisione di Gesù”, capolavoro di Rubens, “La Strage degli Innocenti” del Merano e “La Fuga in Egitto” di Domenico Piola.
Nella navata di destra, nella prima cappella, affreschi del Galeotti e il dipinto “S. Ambrogio caccia l’imperatore Teodosio” di Giovanni Andrea De Ferrari. Le statue delle nicchie sono del Borromeo e di Domenico Casella.
L’affresco della seconda cappella è opera di Lorenzo de Ferrari ed una “Crocifissione” del Vouet. Lunette dell’arco esterno affreschi e statue del Carlone e della sua bottega.
Sotto l’altare Tommaso Orsolino ha scolpito un meraviglioso presepe marmoreo.
Sull’arco della terza cappella “L’Assunzione” di Guido Reni, affreschi del De Ferrari ed altre statue dei De Ferrari.
Dal lato opposto, nella quarta cappella della navata di sinistra “Il Martirio di S. Andrea” del Piaggio e di Andrea Semino, tela cinquecentesca, nella terza cappella gli affreschi del Carlone e “Sant’Ignazio guarisce un ossessa” di Pieter Rubens.
Nella seconda cappella “Il Martirio di San Giovanni Battista” di Bernardo Castello, “Il Battesimo di Cristo” di Domenico Passignano e statue rappresentanti Elisabetta e Zaccaria di Taddeo Carlone. Nella prima cappella affreschi di Lorenzo De Ferrari e il “San Francesco Borgia” di Andrea Pozzo.
Nella cantoria infine oltre all’organo, sono presenti sculture della bottega dei fratelli Santacroce e altre opere di Domenico Fiasella e, nella cappella di testata a sinistra, di Valerio Castello.
Non un solo centimetro risulta non stuccato, decorato, dipinto. Un trionfo di luci ed ombre con giochi di chiaroscuri mai visti prima, che trova il suo apogeo nella Circoncisione di Rubens. Il morbido e sensuale dipinto che sembra brillare di bagliori ultraterreni.
Poco più di un secolo fa, all’inizio del ‘900, accanto al teatro “Garibaldi” v’era un piccolo caffè frequentato da un tale a tutti noto con il nome di “Baccicin de l’aegua”. Ovviamente si trattava di un soprannome ironico visto l’inesistente rapporto che il nostro eroe aveva con l’acqua alla quale preferiva senza dubbio alcuno il nettare di Bacco. Baccicin soleva spesso dire: “Se io fossi il conte Raggio, metterei i recipienti del vino sul tetto del palazzo, al posto delle cisterne dell’acqua. Pensate che bello, aprire il rubinetto del lavandino e veder venir giù del Barbera”.
Baccicin sovente brillo si appostava all’angolo dei vicoli di Via Garibaldi dove teneva comizi e sproloqui su qualsiasi argomento fino a che non veniva costretto dai vigili a sloggiare. “Se fuise u cunte Raggio non me mandiesci via..” rispondeva risentito al cantunè di turno e nell’allontanarsi barcollante verso la Maddalena canticchiava:
“O Baccicin vattene a ca, to moè a t’aspeta.
Baccicin vattene a ca.
E a t’ha leasciou u lumme in ta scaa..”.
Il suo sogno era diventare ricco, ormai l’avete capito, come il conte Raggio per riempire di vino i recipienti del suo palazzo e per questo giocava al lotto tutto quello che, tra guadagni ed elemosine, riusciva ad arraffare qua e là. Non sapendo leggere chiedeva ai passanti di comunicargli la sequenza dei tre numeri estratti. Fu così che un giorno gli amici gli giocarono un brutto scherzo. Riuscirono ad impadronirsi del cappello del malcapitato dove era nascosta la ricevuta dei numeri giocati ed inscenarono un tiro mancino molto ben orchestrato alle sue spalle al quale presero parte diversi personaggi..
Uno sconosciuto con in bella vista il giornale “Il Balilla” interrogato dal Baccicin lesse, guarda caso, i numeri giocati dal poveretto che, superato il momento di incredulità, strappò dalle mani del tizio il giornale e corse euforico giù per il caruggio, irrompendo nel piccolo caffè dove tutti, a conoscenza dello scherzo, lo attendevano.
L’oste e gli avventori lessero e confermarono l’estrazione sulla ruota di Genova. Baccicin era al settimo cielo e si precipitò al botteghino del lotto per riscuotere la sua agognata vincita. Lo scherzo era sfuggito di mano e chi l’aveva ordito già si era pentito quando vide il titolare della ricevitoria uscire trafelato mentre si tamponava il naso sanguinante. Ai presenti implorò, mentre si udivano i rumori della vetrina infranta e i tonfi di sedie e tavoli sfasciati, di fermarlo perché “u l’è mattu, acciapelu..”. Un vigile accorso per sedare la questione subì un calcione nelle parti “nobili” di un furibondo Baccicin al quale nulla potè impedire l’arresto con tanto di permanenza in Torre (Grimaldina) prima e in Pretura, poi.
La vicenda finì sulla bocca di tutti e persino il Balilla pubblicò una parodia del mancato vincitore. Oltre al danno anche la beffa da “macchietta” a “zimbello”.
Passarono gli anni e con essi anche la prima guerra mondiale e Baccicin, incurvato dagli anni e afflosciato dalle delusioni era ormai l’amara caricatura di se stesso. Continuò, fino all’ultimo dei suoi giorni a chiedere l’elemosina, bofonchiando una nenia incomprensibile, nella zona antistante il palazzo della Meridiana.
Quella nenia recitava: “O Baccicin, vattene a ca, o Baccicin vattene a ca…”
Nell’atrio del castello sono esposte numerose lastre e lapidi scolpite recuperate nel centro storico dal capitano stesso, con l’intento di preservarle da incuria e indifferenza. Le acquistò per pochi soldi in tempi in cui, queste opere d’arte o storiche, venivano ritenute cianfrusaglia d’impiccio.
Grazie alla lungimiranza di questo straordinario uomo di mare sono state salvate importanti opere quali, ad esempio, il sovrapporta e il portale in marmo di San Giorgio che uccide il drago, in origine ornamento e vanto del civ. n. 11 di Vico Mele. Il capitano lo acquistò nel 1890 dal Marchese Negrone. Segue un secondo sovrapporta con l’Agnus Dei e due scudi ai lati.
Sullo stesso muro sono affissi:
altri Agnus Dei in marmo bianco con lo stendardo del Battista, un bassorilievo con il leone di San Marco e tre stemmi nobiliari.
Un frammento della parte di destra di un altro sovrapporta allegorico, questa volta in pietra nera di Promontorio, che rappresenta un guerriero romano con nella mano destra una cornucopia e in quella sinistra uno scudo con stemma abraso. Ai suoi piedi elmo e clava. Il paesaggio descrive un uccellino sopra un albero, un pastorello che suona il flauto, alcune pecore con relativo cane da guardia. Sullo sfondo mun castelletto con quattro torri. La cornice destra è scolpita a candelabra.
Due rosoni in chiave di volta in pietra di promontorio.
Un Chrismon in una raggiera, il frammento di un’Annunciazione con una ghirlanda e la lettera M. Uno stemma della famiglia Grimaldi, il frammento di un bassorilievo con il Battista.
Una lastra di pietra nera con l’Ultima Cena, purtroppo danneggiata, della quale è stata fatta una copia esposta nel corridoio al secondo piano. Particolare la presenza allusiva al tradimento di numerosi coltelli apparecchiati sulla tavola.
Un tondo con Sant’Antonio Abate e uno con San Pietro Martire.
Una lastra con il rilievo di San Francesco che riceve le stimmate, San Giovanni Battista e un Cristo crocifisso che appare in cielo.
Un altro tondo con l’Annunziata e una misteriosa lapide il cui testo recita:
“Hic Adservatvr Reliqvia Protomar / tiris Sancti Stephani Donata P (…) / F. Gondisalvm Mantanvm Ordinis / Predicatorvm, 8c Lazarvm Ambro / sivm Gvidvm Leonardi Benefacto / Res Societati Casse S.ti Stephani, / Vt Ex Instromento Donationis / (…) ato a Notario Joanne Fra / (…) ario Anno 1728. Die 21. 7Bris.
Probabilmente questa epigrafe si trovava accanto all’urna contenente le ceneri di Santo Stefano.
E poi altri bassorilievi, lapidi, tavelle, rosoni, cornici marmoree.
In alto campeggia una testa di una Venere di Milo in gesso.
Nella loggia sopra il portale con San Giorgio sono posti quattro modelli in gesso di busti di donne idealizzate dai poeti: Beatrice, Ginevra, Laura ed Eleonora. I calchi sono dello scultore Santo Varni e acquistati dal capitano nel 1888.
Nella piccola loggia al secondo piano è custodita la famosa statua del “Colombo giovinetto” pregevole immagine del 1870 dello scultore Giulio Monteverde.
La statua è rivolta verso il mare e alla base riporta l’epigrafe:
“Al Sol che Tramontava sull’Infinito Mondo / Chiedeva Colombo Giovinetto Ancora / Quali Altre Terre, Quali Altri Popoli / Avrebbe Baciato ai suoi Primi Albori.
Copie della statua si trovano presso Bistagno (Al) patria dello scultore, alla Cristopher High School di New York, al Museo Hermitage di San Pietroburgo e alla Galleria d’Arte Moderna a Nervi.
Il Capitano D’Albertis fu fervente sostenitore della cultura scientifica e fra i fondatori dello Yacht Club Italiano nel 1879. Grande ammiratore di Colombo ne ripercorse nel 1882 la rotta a bordo del leggendario “Corsaro” utilizzando la stessa strumentazione in dotazione all’illustre concittadino 390 anni prima. In omaggio al grande esploratore inaugurò il castello proprio nel 1892 in occasione del quarto centenario della scoperta dell’America.
Alla maniera dei suoi gloriosi predecessori, dal castello come fosse la tolda di una nave, il Capitano D’Albertis scrutava il mare come Cristoforo Colombo e dominava la città come Andrea Doria.O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato,
la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambìto premio è conquistato,
vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta,
occhi seguono l’invitto scafo, la nave arcigna e intrepida;
ma o cuore! Cuore! Cuore!
O gocce rosse di sangue,
là sul ponte dove giace il Capitano,
caduto, gelido, morto.
O Capitano! Mio Capitano! Risorgi, odi le campane;
risorgo – per te è issata la bandiera – per te squillano le trombe,
per te fiori e ghirlande ornate di nastri – per te le coste affollate,
te invoca la massa ondeggiante, a te volgono i volti ansiosi;
ecco Capitano! O amato padre!
Questo braccio sotto il tuo capo!
E’ solo un sogno che sul ponte
sei caduto, gelido, morto.
Non risponde il mio Capitano, le sue labbra sono pallide e immobili,
non sente il padre il mio braccio, non ha più energia né volontà,
la nave è all’ancora sana e salva, il suo viaggio concluso, finito,
la nave vittoriosa è tornata dal viaggio tremendo, la meta è raggiunta;
esultate coste, suonate campane!
Mentre io con funebre passo
Percorro il ponte dove giace il mio Capitano,
caduto, gelido, morto.
“O Capitano! Mio capitano! ” i versi resi celebri dal film “Carpe Diem”, composti da Walt Whitman nel 1865 in occasione della scomparsa del Presidente Lincoln, a Genova sono dedicati al nostro Capitano.
Il Castello venne edificato a partire dal 1886 sulla collina di Montegalletto, sui resti dei bastioni del XII sec. e dei fortilizi cinquecenteschi.
I lavori furono affidati agli ingegneri Matteo Graziani e Filippo Maria Parodi (reduce garibaldino), e all’architetto portoghese Alfredo D’Andrade.
Fautore di questo ambizioso progetto fu il capitano Enrico Alberto D’Albertis, personaggio eclettico e geniale, promotore e protagonista di mille imprese, marinaio ineguagliabile, signore di tutti i mari.
Il vecchio lupo di mare volle costruire una dimora, giocoso miscuglio di stili neogotici e moreschi, come una sorta di casa museo dove raccogliervi le immense e variegate collezioni che aveva accumulato nei suoi viaggi in giro per il mondo. Il capitano infatti aveva fatto parte di quel coraggioso manipolo di esploratori che avevano fornito materiale e lustro alle spedizioni scientifiche italiane di fine ‘800.
Alla sua morte nel 1932 D’Albertis stabilì che il castello e le sue preziose collezioni fossero donate alla città di Genova.
All’interno dei locali sono esposte collezioni etnografiche, archeologiche e marinaresche sia del capitano stesso che del cugino, anch’egli esploratore e studioso, Luigi Maria. Sono inoltre presenti delle collezioni delle Missioni Cattoliche Americane e una raccolta di strumenti musicali etnici allestita dall’associazione Echo Art.
Ma il castello, per quanto grande, non sarebbe bastato a conservare tutto il materiale del capitano che si trova in parte anche presso il Museo Archeologico di Pegli, Il Museo di Storia Naturale Giacomo Doria, Il Galata Museo del Mare e nell’Archivio Fotografico del Comune di Genova nella succursale di Palazzo Rosso.
Sui bastioni si staglia la statua di un angelo armato di una spada d’oro con in mano una bilancia e inciso il motto “Cvstos et Vltor”. Si tratta di una scultura cinquecentesca di San Michele che in origine era collocata sulle mura in prossimità della Porta di San Tommaso, il varco destinato all’Arsenale.
Dal parco si accede al castello attraverso una galleria in curva con un bel portale in conci bicromi a sesto acuto. Ai lati sono posti due leoni in pietra istriana con sopra l’arco lo stemma della famiglia: due catene incrociate, un elmo e un leone rampante con il motto “Tenacior Catenis”.
A fianco una lapide, concepita sul modello di quelle scolpite per i grandi ammiragli della Repubblica marinara, testimonia la costruzione del castello:
“Ad Memoriam Gloriae Servandam / Haec Libertatis Propvgnacvla Prima Patriae Decora / Temporis Hominvmque Injvria Pene Dirvta / Henricvs Albertvs ex Albertiis Navarchvs / Fvnditvs Instavravit / Aptamqve in Loco Sibi (testo abraso) Condidit Sedem / Anno D. MDCCCLXXXVI-XCCII. (Per conservare la memoria della gloria degli avi, questi monumenti della libertà, ornamenti della patria distrutti dal tempo e dagli uomini, E. A. D’Albertis, comandante di navi ricostruì e adattò a sua dimora. 1886).
Lì accanto un’altra piccola lapide riprende l’incipit di quella più celebre affissa su Porta Soprana: “Si Pacem Portas Licet Has Tibi Tangere Portas / Si Bellvm Queres Tristis Victvsque Recedes” (Se porti pace, ti è permesso toccare queste porte, se porti guerra ti ritirerai triste e vinto”).
Nella galleria si trova un murales permanente a mosaico realizzato da “Terre des Hommes” e “Fondazione Rigoberta Menchù”. Subito dopo la galleria, sul muraglione, i resti di una meridiana andata perduta. Più avanti quelli di una seconda meridiana detta delle “Danzatrici” sotto la quale campeggia un motto firmato da Gabriele D’Annunzio. Sul piazzale d’onore sono accatastate varie palle di cannone in pietra con le scritte:”Assedio di Rodi / Sultano Solimano / 1522/ Dono del Sultano / Abdul Amid / 1907. Su un’altra palla si legge la dicitura: “Castello di Voltaggio”.
All’esterno, sparse in vari punti, si trovano dieci meridiane. Il Capitano ne era un vero e proprio cultore e ne costruì 107 in tutto. Quella posta sul bastione è dedicata all’impresa di Cristoforo Colombo. Alla base di questa una pietra con l’epigrafe: “Questo masso / Divelto / dalle Scogliere di San Salvador / Addi XX Luglio MDCCCXCIII / Ricorda / Il Votivo Pellegrinaggio del “Corsaro” / Nella prima Terra Scoperta / Da / Cristoforo Colombo / Cap. E. A. D’Albertis”.
Fra le aiuole s’incontrano manufatti marmorei, una fontanella con una testina di leone e due gigantesche costole di balena. Vari capitelli, una panchina in marmo con su scolpita una caravella. Alcune statue e, fra queste, una Venere con alla base il goliardico motto “Quid Facies Facies Veneris Si Veneris Ante?”.
Sull’angolo a sud del bastione la statua dell’Araldo annuncia le prossime meraviglie.
Il quinto è il Re saraceno Abu-Yahya Muhammad che nel 1208 governava l’isola di Maiorca. Da questo avamposto infastidiva i commerci dei catalani che chiesero l’intervento del Re d’Aragona Giacomo I. Le forze spagnole congiunte nel 1230 tornarono così in possesso della città di Palma. Temendo che i Genovesi, visto i precedenti accordi (in passato avevano stipulato con il saraceno favorevoli patti commerciali), avessero interesse ad intervenire in favore di costui, gli spagnoli contattarono Il Papa in persona perché chiedesse loro di mantenersi neutrali. In questo modo le Baleari sarebbero tornate sotto l’influenza cristiana e i Genovesi ne avrebbero tratto comunque beneficio. Infatti Giacomo I, per premiare il mancato intervento delle galee di San Giorgio, concesse nel 1233 ai Genovesi analoghi privilegi commerciali e daziari, nonchè il terreno per la costruzione di un fondaco e la costituzione nelle principali città marittime spagnole di consolati che tutelassero gli interessi della Dominante.
Il sesto è il Principe Enrico d’Aragona, fratello del Re Alfonso d’Aragona e di Giovanni, delle cui vicende ho già raccontato a proposito del Duca di Sessa, catturato anch’egli durante la battaglia di Ponza del 1435. Come il fratello Sovrano sbarcò a Savona e non a Genova ma, probabilmente vista l’incredibile risonanza che ebbero i fatti, Genova volle lo stesso, rappresentandolo, gloriarsene per l’eternità.
Il settimo è Alberto Morosini l’ammiraglio veneziano a cui i Pisani nel 1284 affidarono il comando della loro flotta e il titolo di Podestà nell’epico e decisivo scontro della Meloria. Il valente condottiero dei pisani verrà sconfitto dall’abilità dei due comandanti genovesi, Oberto Spinola e Benedetto Zaccaria che lo condurranno in catene insieme ad altri 9000 prigionieri in quella che, da allora, si chiamerà Campo Pisano. Dopo tredici lunghi anni di prigionia il Morosini farà ritorno nella sua natia Venezia dove trascorrerà il resto dei suoi giorni.
L’ottavo è il Re di Cipro Giacomo I che venne catturato e imprigionato dai nostri avi per dieci lunghi anni. I Genovesi infatti, invitati dagli aragonesi che ne avevano chiesto l’intervento per vendicare la morte di Pietro I, nel 1373 occuparono l’isola. I nobili del luogo elessero Re Giacomo I, figlio del fratello di Pietro I, per contrastare l’ingerenza genovese. Una parte di ciprioti parteggiò invece per l’altro nipote Pietro II. I genovesi, ottenuta Famagosta, portarono a Genova come garanzia Giacomo I. Verrà incarcerato insieme alla moglie nelle segrete della Lanterna dove la suasposa darà alla luce diversi figli, fra i quali Giano e Ugo, il primo futuro Re, il secondo Arcivescovo venturo di Nicosia. Alla morte di Pietro II, rimasto senza eredi, i ciprioti designeranno Giacomo I suo legittimo successore. I Genovesi, in cambio di un congruo riscatto, della conferma della sovranità su Famagosta e di rinnovati privilegi commerciali, ne acconsentiranno la liberazione.
Nelle nicchie sopra il cornicione della settecentesca facciata del Palazzo Ducale, disegnata dall’architetto Cantoni, sono presenti otto singolari sculture. Si tratta di otto statue realizzate (1777) dall’artista Giacomo Maria da Bissone che immortalano, incatenati e sottomessi alla Repubblica, otto grandi nemici di Genova. Da sinistra a destra sono lì posti ad eterna ed imperitura gloria della Superba:
La prima figura, partendo da sinistra, è quella del pirata Mujaid, meglio noto con il nome italianizzato Musetto. Costui, a cavallo dell’anno mille comandava una numerosa e pericolosa flotta di predoni che aveva la sua base alle Baleari e che non mancava di procurar fastidi e devastazioni lungo le coste, fino ad occupare, ai danni dei pisani, la Sardegna. Nel 1016 il predone addirittura rase al suolo la città di Luni costringendo il Papa Benedetto VIII, genovesi e pisani ad allearsi per far fronte al comune nemico. Nonostante il pirata fosse stato sconfitto e costretto alla ritirata da Luni, tornò all’assalto con una flotta rinnovata, questa volta della Sardegna. Nello scontro contro le due Repubbliche ebbe la peggio e i genovesi ne ottennero la testa issata su un palo, a mo’ di trofeo.
Il secondo è Giacomo da Marsano, Duca di Sessa un personaggio legato alla corte aragonese che venne fatto prigioniero dai genovesi, insieme al Re Alfonso d’Aragona e a molti nobili e principi ispanici, nella battaglia di Ponza del 1435. A seguito di questo scontro i genovesi, condotti dall’ammiraglio Biagio Assereto, catturarono 5000 prigionieri fra i quali, appunto, Re Alfonso e due dei suoi fratelli Enrico e Giovanni e numerosi altri nobili, compreso il Duca di Sessa. La loro madre Eleonora, al solo pensiero dei suoi tre figli in mano dei genovesi, morì dal dolore. In realtà il Re e gran parte del suo seguito, causa gli imperscrutabili intrecci del potere, per ordine dei Visconti di Milano, al servizio dei quali erano i nostri marinai, vennero rilasciati a Savona e non misero mai piede in città. Giacomo da Marsano fu tra coloro ai quali toccò la triste esperienza della permanenza a Genova. La sua figura simboleggia la vittoria sugli aragonesi (la vicenda è narrata nel racconto “Storia di due grandi ammiragli).
Il terzo è il corsaro Dragut che fece la sua fortuna navigando prima al servizio e poi divenendone il successore, di Khayr Al Din, il famigerato ammiraglio degli Ottomani, a tutti noto come il Barbarossa. Le gesta del corsaro che per anni aveva funestato il litorale tirrenico terminano con la cattura avvenuta per mano di Giannettino, nipote di Andrea, in una baia della Corsica dove aveva cercato rifugio braccato dalle galee di S. Giorgio. Andrea Doria lo fece incatenare quattro lunghi anni al remo della sua ammiraglia prima di venderlo come schiavo, dietro lauto compenso, proprio a quel Barbarossa del quale sarebbe divenuto successore. Per molti non fu una scelta felice quella dell’Ammiraglio genovese poiché Dragut divenne “la spada vendicatrice dell’Islam” funestando per circa un ventennio il “mare nostrum”. In realtà, secondo alcune fonti, durante la sua prigionia consumata in parte nella Torre Grimaldina, in parte nelle sfarzose stanze della Casa del Principe, il corsaro venne trattato con tutti i riguardi riscuotendo, a detta delle male lingue, grande consenso presso le nobildonne del palazzo. A mio modesto e personale parere invece l’ammiraglio, liberandolo, si era assicurato il lavoro per gli anni a venire. I due erano profumatamente pagati dai rispettivi stati (Spagna e Impero Ottomano) per combattersi a vicenda e la scomparsa di uno dei due avrebbe significato la parola fine sui loro affari.Dragut morì in uno scontro presso Malta nel 1565 quando una scheggia lo colpì alla testa e pose fine alla sua inimitabile carriera. Per rispetto o scherno, questo non so, Andrea chiamò con il nome del pirata il suo gatto di casa.
Il quarto è Niccolò Pisani, ammiraglio dei veneziani, durante la terza guerra contro i leoni di San Marco. Nella battaglia avvenuta nel 1354 presso l’isola di Sapienza, nel Mare Adriatico, subì una incredibile sconfitta ad opera di Pagano Doria che, seppur in forze numericamente inferiori, inflisse al collega veneziano una lezione di tattica. Quattromila veneziani tinsero di rosso le acque della baia, le navi superstiti furono condotte a Genova come bottino di guerra, il Pisani imprigionato.
Alla notizia della disfatta il doge veneziano Andrea Dandolo morì di crepacuore.
Verrà liberato l’anno seguente a seguito della pace firmata fra le due Repubbliche e tornerà in laguna fino alla fine dei suoi giorni.
Recita una lapide affissa all’angolo fra Scurreria e Campetto:
“Io, Iacobvs Imperialis Vincentii F. / Pvblico Privatoq. Comodo ac Vrbis Decori / Prospiciens Qvam Plvrimis Domibvs Coemptis, / et Dirvtis. Viam Hanc, Cvi Ab Avctoris / Familia Nomen Inditvm, Aere Svo / Faciendam Ornandam Sternendamq. / Cvravit. An. Sal. MDXIIIC.”
La via venne aperta nel XVI sec. per volontà di Gio. Giacomo Imperiale per dare un accesso più consono al suo sontuoso palazzo di Campetto. La zona infatti anticamente nota con il nome di contrada scutaria perché sede delle officine degli scudai, era un dedalo intricato di stretti caruggi. In un secondo momento nel quartiere si aggiunsero anche le botteghe dei “Toscani”, come erano comunemente indicati i setaioli. L’inizio della via, dove oggi si trova la farmacia del Duomo, costituiva infatti la piazzetta dei Toscani. Durante alcuni lavori di ripristino della sede stradale avvenuti nel 1843 vennero rinvenute in questo tratto di strada tombe, urne cinerarie in terracotta di epoca preromana e monete romane. La famiglia Imperiale, molto ricca ed influente anche in oriente, possedeva, come testimoniato dalle iscrizioni sparse qua e la, quasi tutti i palazzi della strada.
All’angolo con Campetto s’incontra un’immagine della Madonna dell’Immacolata Concezione del XVII sec., una delle edicole più note e meglio conservate del centro storico: la Vergine è rappresentata in posa estatica fra ondulati drappeggi con trionfo di angeli in cornice. Sul cartilio alla base il celebremotto: “Imperet et Impetret”.
Sopra la vetrina di un negozio di abbigliamento si scorge un fregio marmoreo fra due cornucopie che rappresenta l’allegoria dell’Italia che porta il tricolore con l’epigrafe “Italia Libera Lo Vuole e Lo Sarà”. Il rilievo con relativo motto ispirato dalle crociate (Deus Vult…) venne posto nel 1847 come auspicio divino del Risorgimento per l’unità d’Italia.
Al civ. n. 1 Madonna col Bambino del sec. XVII, un medaglione in marmo con Maria che regge il bambino in piedi mentre benedice.
Ai civici. n. 2 e n. 5 sui portaledel XVI sec. con stipiti in bugnato con timpano curvo e spezzato, lo stemma della famiglia Imperiale. Al civ. n. 3 si notano, ai piani alti, i resti di sfarzosi affreschi che abbellivano la facciata con motivi architettonici.
Proseguendo, al civ. n. 6, la Madonna della Misericordia, un altro medaglione in marmo bianco che ritrae i personaggi in bassorilievo. La scultura del XVIII sec. è attribuita all’artista genovese Giacomo Antonio Ponsonelli.
All’angolo del palazzo ecco la Farmacia del Duomo, locale aperto nel 1849 e in precedenza ritrovo dei giacobini genovesi che tramavano l’insurrezione popolare. All’interno gli arredi, il vasellame, le decorazioni e i pavimenti sono quelli originali. Del primo novecento sono invece i soffitti lignei.
La Via di Scurreria originaria, per distinguerla dalla nuova, voluta dagli Imperiale, assunse così il titolo di “la Vecchia”. Qui aveva sede la bottega del doge popolare Paolo da Novi la cui attività era di tingere le stoffe. Eletto doge nel 1507 a furor di popolo dopo la cacciata dei Fieschi e dei francesi quando questi ripresero il potere venne imprigionato nella torre Grimaldina e, dopo sommario processo, pubblicamente decapitato il 10 aprile 1507, davanti a palazzo Ducale. I tintori Toscani, per omaggiare degnamente la processione del Corpus Domini, usavano ricoprire il selciato del caruggio con stoffe di velluto e arazzi finemente ricamati. Curiosa la conformazione del civ. n. 5 un susseguirsi confuso e sovrapposto di stili ed interventi nei secoli: il portale in marmo venato presenta un falso timpano a volute, il mascherone centrale con due listarelle di marmo vuote. Sul fronte del palazzo sono murate due colonne in pietra con capitelli marmorei, una finestra bifora con archi tondi, alcuni poggioli in ferro battuto ed i resti di un arco in conci bicromi, ora tamponato. Murata è anche la loggia al civ. n. 1 all’angolo con Vico Indoratori.
Di fronte al civ. n. 5 un’edicola vuota di Madonna col Bambino che conteneva un dipinto su tavola del XVII sec., oggi scomparso.
Svanito però non è il suo fascino medievale; Scurreria, per mantenerlo, s’è fatta in due.
Si tratta indiscutibilmente di uno dei luoghi di culto più affascinanti della città. Collocata sotto la collina di castello, a ridosso del Mandraccio, la chiesa dei SS. Cosma e Damiano nella sua lineare architettura romana, gioca a nascondino fra i caruggi.
Un tempo la zona era nota con il nome di “contrada serpe” ed era puntellata di abitazioni turrite, dimore strategiche delle famiglie più in vista dell’epoca: Malloni, Della Volta, Della Chiesa, Zaccaria, Castello.
La struttura, come del resto gran parte della zona, venne pesantementedanneggiata durante il bombardamento del re Sole del 1684, il chiostro distrutto. I bombardamenti dal 1942 al 1944 completarono lo scempio causando la perdita d’importanti dipinti, come elencato nell’inventario della chiesa, di Giovanni Roos, Domenico Castello e Domenico Fiasella.
Interessanti sono le sculture poste sul portale datate intorno al 1155, le più antiche dell’edificio. L’architrave è il reimpiego di una cornice romana arricchita da un motivo a mosaico in marmi policromi. Particolari poi, sui capitelli del vestibolo di destra, le sculture di una sirena-uccello e di una sfinge dal volto femminile. Il resto della costruzione è risalente al ‘200.
La storia di questa chiesa risale alla notte dei tempi, intorno al VII sec. d. c. quando venne intitolata una cappelletta al vescovo di Pavia San Damiano. La fabbricazione vera e propria del tempio avvenne, come testimoniato dai documenti di fondazione, solo nel 1049. Durante il secolo successivo la chiesa raggiunse il suo apogeo con la costruzione del portale, l’erezione della torre nolare e l’inserimento del rettore fra gli aventi diritto alla votazione per l’elezione del Vescovo.
Nel 1296 le famiglie Mallone e Spinola donarono le reliquie, provenienti da Costantinopoli, dei due fratelli martiri, Damiano e Cosma che divennero così i santi cointestatari dell’edificio. Essendo i due i patroni dei chirurghi e dei barbieri, dal 1476 le relative corporazioni vi stabilirono la comune cappella della propria consorteria.
La facciata a capanna, in pietra, tripartita da lesene nella parte superiore, presenta in basso un basamento nel quale sono ricavate tre tombe ad arcosolio con arcate a tutto sesto del XII sec. ed una con arco acuto retto da colonnine gotiche, con decorazione a bande bianche e nere, detta “tomba del Barisone”, realizzata durante la ristrutturazione del XIII sec. Durante l’anno è spesso abbellita da addobbi floreali, nel periodo natalizio nobilitata da un grazioso presepe.
Nella facciata si aprono due monofore in alto un finestrone semicircolare, realizzato nel XVII sec., quando venne costruito il tetto in muratura in sostituzione di quello originario a capriate lignee, distrutto dal bombardamento francese del 1684.
Nella parte superiore della facciata restano tracce del primitivo rosone. L’interno a tre navate puntellate da sei colonne bianco nere, in marmo di Carrara e di pietra di Promontorio con capitelli a forma di foglia di acanto, si presenta spoglio ed essenziale. I mattoni a vista sono frutto d’interventi settecenteschi posteriori al bombardamento. Lo scarno aspetto non deve trarre in inganno perché sotto le navate sono custodite pregevoli opere d’arte quali: “La Madonna del Soccorso” del XIV sec. di Barnaba da Modena, autore anche della più nota “Madonna del Latte” ricoverata oggi in San Donato, “Ester e Assuero” del XVI sec. di Bernardo Castello, “La Madonna col Bambino e i Santi Cosma e Damiano che guariscono i malati” di Gioacchino Assereto e “Il Transito di San Giuseppe” del XVII sec. di Giovanni Andrea De Ferrari.
Nell’abside di sinistra è situato il fonte battesimale medievale scolpito nel marmo mentre sull’altare spicca la statua marmorea della Madonna Immacolata del XVII sec. del marsigliese Pierre Puget, apprezzato autore di simili opere nell’Albergo dei Poveri e nell’Oratorio di San Filippo Neri.
Per gli amanti della musica merita menzione il settecentesco organo a canne.
Sul pavimento si nota un disegno particolare: il teschio e le tibie incrociate il simbolo del jolly roger adottato dai pirati.
Ma le sorprese non finiscono qui perché una volta usciti nella piazza al civ. n. 2r ecco un antichissimo sovrapporta con San Giorgio e il drago in pietra nera di Promontorio. Il rilievo purtroppo risulta ormai abraso mentre la cornice marmorea con motivi floreali risulta ben conservata. Passato l’archivolto che conduceva un tempo allo scomparso chiostro si notano due nicchie vuote e, svoltando a sinistra s’incontra una lapide del XVI sec. raffigurante due angeli nell’atto di sorreggere un medaglione col volto di un santo non ben identificato. Imboccato il Vico dietro il Coro ecco due edicole: la prima, al civ. n. 6r quella del XVII sec. della Madonna della Misericordia. La Vergine che appare al Beato Botta è contenuta in un rilievo tondo delimitato da una pesante cornice alla cui sommità campeggia un cuore elaborato con fregi e riccioli con al suo interno il trigramma di Cristo e il monogramma di Maria con la corona. Poco dopo, la seconda, una Madonna di città in un tabernacolo a tempietto marmoreo classico, con una volta arcuata e testina di cherubino alato. Ai lati delle lesene decori con ampi riccioli e fogliami. La statua della Madonna è mancante.
Ai SS. Cosma e Damiano il gioiello incastonato nella pietra, dove un tempo l’onda frangeva sulla scogliera, si respira ancora l’odore di salsedine e si raccontano ancora storie di pirati.