“L’arco è carico e teso, schiva il dardo”…

Così comincia la prima scena del primo atto di “Re Lear” di Shakespeare. Un incipit che, preso in prestito dalla mitologia britannica, si può ben adattare ad avvenimenti che, circa trecento anni prima della composizione della tragedia, interessarono la nostra città.

“Il Portale di San Gottardo”. Foto di Leti Gagge.

Sul finire del Duecento Genova, nonostante il trionfo contro i Pisani nella battaglia della Meloria del 1284, era dilaniata dalle lotte intestine, divisa come gli altri comuni italiani in guelfi e ghibellini, le fazioni che sostenevano il papa o l’imperatore.

A Genova costoro erano identificati con il nome di Rampini e Mascherati e più spesso seguivano dinamiche interne di potere, adottando la canonica distinzione solo come pretesto per darsele di santa ragione e dirimere con la forza altre questioni.

Una rivolta particolarmente sanguinosa si ebbe il 30 dicembre 1296, immortalata nei versi di un anonimo poeta volgare:

Un re vento con arsura
a menao gram remorim
enter Guerfi e Gibellin,
chi faito a greve pontura:
che per mantener aotura
e per inpir lo cofin,
de comun faito an morin
per strepar l’aotru motura,
ensachando ogni mestura
per sobranzar soi vexin.
per zo crian li meschin
e de tuti se ranguram.
Ma de tanta desmesura
pensser o a la per fin,
de chi ve li cor volpin
no ne fera con spaa dura.

Per intere giornate si combatté per le strade, finché i Rampini non ebbero la peggio e si rifugiarono dentro San Lorenzo. I Mascherati infatti li assediarono in cattedrale e, per stanarli, appiccarono il fuoco.

“Uno dei capitelli sostituiti”. Foto di Leti Gagge.

Ci volle l’intervento del vescovo di Genova, Jacopo da Varagine (l’autore della “Legenda Aurea”) per porre fine allo spargimento di sangue fra concittadini e per salvaguardare la cattredale . A causa dei violenti scontri infatti la chiesa subì gravi danni, a tal punto da sostituire i colonnati interni e gran parte dei capitelli.

“Suggestiva ripresa dal basso”. Foto di Leti Gagge.
“Ancora i buchi inflitti dai dardi”. Foto di Leti Gagge.
“Le colonne del Portale di San Gottardo viste da un’altra prospettiva”. Foto di Leti Gagge.
“I segni dei fendenti di spada”. Foto di Leti Gagge.
“Primo piano dei colpi di spada”. Foto di Leti Gagge.

Traccia ancora visibile e silente testimone dei fatti si trova sulle colonne del portale laterale destro, quello di San Gottardo che si affaccia su Via San Lorenzo. I buchi sulle colonne non sono segni dell’incuria o dell’inesorabile trascorrere del tempo ma gli sfregi dei dardi di balestra scagliati durante gli scontri. Sulle basi delle colonne si notano anche le fenditure dei colpi di spada.

“La Vittoria…”

Al largo di Levanto e Portovenere i genovesi, davanti all’isola di Tino fra l’incredulità del nemico, si prendono rivincita sconfiggendo nell’estate del  1242 i due De Mari e i Pisani.

Ursone da Sestri, notaro, diplomatico ed annalista del Comune, così descrisse nell’ “Historia de victoria quam Ianuenses habuerunt contra gentes ab imperatore missas”, in maniera propagandistica ma certo accorata e partecipe, la fuga del nemico:

“Apre la fila, con le prospere insegne della croce e il comandante a bordo, la nave ammiraglia che solca leggera le acque; segue poi il resto della flotta mantenendo l’ordine e la velocità prestabiliti… così avanza a forza di remi la flotta, desiderosa di precipitarsi sul nemico. Con quale gioia e baldanza, vigore e contegno, con quale convinzione va in guerra l’inclita gente! Come fu desiderosa e pronta a prendere le armi! Com’è bene armata la schiera delle navi! Come risplende di scudi, da quanti eroi è protetta!

Sembra l’esercito di un regno, non di una sola città, tanto è il numero dei manipoli e delle coorti…

“L’isola di Tino davanti alla Palmaria”.

Mentre si avvicinano, pensano già di piombare sui nemici, spezzarne con il ferro le vane minacce, di soffocare con la destra la loro vuota loquela: per loro è vergognoso combattere a parole e vincere con la lingua, senz’armi! Mentre sulle prue vengono alzate le insegne, che annunciano l’imminente conflitto e un concreto presagio di guerra, il nemico freme di paura, e all’istante abbandona il litorale lasciando deserta la spiaggia; ma non impunito… Di fronte a schiera così imponente, a insegne sfolgoranti sul mare, a navi così perfettamente armate per la guerra, il nemico non osa volgere le prue in direzione dello scontro, teme di affidare la vita ad un incerto destino; immemore dell’antico fasto e delle precedenti vanterie, e senza più rispettare i suoi vani proclami, inverte la rotta e fugge tremante, solca il mare con i remi affidandosi alla fuga invece che al proprio valore… Dove fuggi, Pisano? Dove scappi Aquila imperiale, dove ti affretti? Non vieni a combattere? Ammaina le vele, lascia i remi e incrocia le spade in battaglia! Fermati, cessa la fuga, ricordati delle tue minacce! Perché fuggi con gli scudi ancora vergini e le armi intatte? Non arrossisci a scappare dopo aver tanto abbaiato? Inverti la rotta miserabile, comportati da uomo! Vergognati, dopo tanti proclami, a esser vinto senza lotta. Allora a gran forza Genova insegue i fuggiaschi, li incalza da tergo e aggiunge le vele ai remi, si affligge e rammarica di una vittoria senza combattimento, si affanna e smania e sempre più si adira di un successo ottenuto senza spargere sangue, di un cammino aperto senza usare la spada, di non avere usato le armi, incrociato le armi, scaraventato sui nemici le aste, lasciando sui loro scudi i segni della sua spada”.

L’anno successivo sale al soglio pontificio Sinibaldo Fieschi, al secolo Papa Innocenzo IV che, come il suo predecessore incarica nuovamente i genovesi dell’organizzazione del Concilio. La flotta genovese nel 1244, al comando del Podestà Filippo Vicedomino, dopo infinite schermaglie, sfugge al controllo imperiale e a Civitavecchia imbarca il Pontefice, travestito da cavaliere e tutti i Cardinali superstiti alle rappresaglie imperiali. Giunti a Genova l’illustre corteo prosegue verso Lione da dove il Papa scomunicherà Federico II e tutti i suoi alleati. La rivincita è completata e il Concilio, finalmente realizzato, segnerà l’inizio della fine del sovrano alemanno, sconfitto poi definitivamente  nel ‘48 nei pressi di Parma, grazie anche al decisivo contributo di 600 agguerritissimi Balestrieri genovesi.

Da allora, dopo questa leggendaria impresa, i Genovesi rispolverarono con rinnovato orgoglio le insegne, in realtà in vigore già dal 1193, con l’inequivocabile motto: “Griphus ut has angit, sic hostes Ianua frangit”.

Sul relativo stendardo il Grifone artigliava con una zampa l’aquila simbolo imperiale alemanno e, con l’altra, la volpe simbolo dell’odiata nemica, Pisa.

In copertina galea genovese del XVII sec.

“La Congiura dei moccolotti”…

Verso la metà del ‘200 Genova è al centro delle mire imperiali di Federico II. Poiché il governo cittadino è filo papale anche all’ombra della Lanterna si ripropone così il conflitto fra Ghibellini e Guelfi che qui si chiameranno Mascherati i primi, Rampini i secondi.

Papa Grergorio IX indice per la Pasqua del 1241 il Concilio generale a Roma e incarica i genovesi di occuparsi del trasporto via mare dei prelati del nord Italia e dell’Europa Occidentale. Naturalmente, fiutando i lauti guadagni che avrebbe garantito la commessa, e non solo per spontaneo afflato religioso, i nostri avi accettano di buon grado la proposta.

La fazione imperiale intestina alla città, nascosta (da qui forse il termine “mascherati”), capitanata dagli Spinola e dai Doria, trama contro i pontifici propositi.

L’imperatore si mette in contatto con i suoi seguaci attraverso un arguto ed ingegnoso stratagemma: nasconde le pergamene arrotolate delle missive in moccolotti di cera.

I moccoli erano destinati alla zona delle Grazie dove il materiale proveniente dal nord Europa veniva lavorato dalle numerose botteghe artigiane presenti nel quartiere.

In questo modo i ghibellini, certi di non destare sospetto, riescono a comunicare con gli infiltrati e ad essere informati sulla rotta che avrebbe dovuto tracciare la flotta genovese.

“Macchinario dell’antica ditta chiavarese di ceri Bancalari & Bruno dal 1592″. Alle Grazie, oltre tre secoli prima, l’ambiente non doveva essere molto diverso”.

Volle il caso che il comandante di un corpo di guardia del vicino presidio lamentasse ad uno di questi artigiani, la cattiva qualità della partita di ceri forniti. Fu così che rompendone uno accidentalmente, si accorse del compromettente contenuto.

Il piano imperiale viene smascherato ma ormai è troppo tardi: la flotta genovese di Jacopo Malocello viene sorpresa e schiantata presso l’isola del Giglio da quella pisana, in forza all’Impero e dalle galee dei fratelli Ansaldo e Andreolo, a questa alleati. I due ammiragli genovesi fuoriusciti speravano così, con il favore dell’imperatore alemanno, di sostituirsi a capo degli attuali governatori cittadini. Delle trenta navi cariche di cardinali solo cinque si salvano dalla cattura rendendo di fatto impossibilitato il Concilio. Gli illustri prigionieri verranno sbarcati a Napoli e rinchiusi nel Castel dell’Ovo.

Allo scoramento e alla delusione si sostituiscono presto la rabbia e la voglia di vendetta contro i traditori, in particolare i bottegai, rei di aver collaborato con il nemico.

Costoro riescono, per loro fortuna, a dimostrare la propria innocenza ed estraneità ai fatti e, per confermare la veridicità delle loro parole, si offrono di illuminare anche di notte, a loro spese, i cantieri sulle spiagge e contribuire così all’ambizioso progetto di ripristinare la flotta nel minor tempo possibile.

In un breve periodo, con zelo e velocità impensabili, vengono così approntate cento navi di cui ben 83 galee in assetto da guerra al comando delle quali si pone il Podestà bresciano Corrado di Concessio…

continua…

In Copertina: Illustrazione trecentesca del miniaturista lucchese Giovanni Sercambi.

Il Castello nascosto…

“La freccia della cartolina indica la posizione del castello alle spalle dell’ospedale di Santa Tecla, vicino al nascente San Martino”.

Sul colle di Santa Tecla, nascosto fra i padiglioni dell’ospedale di S. Martino, si trova il duecentesco castello di Simone Boccanegra che fu nel 1339 eletto primo Doge della Repubblica. La parte più antica della villa, a quel tempo in campagna fuori le mura, risale al ‘200. Il complesso venne ampliato nel ‘300 e, caduto poi per secoli nel dimenticatoio, utilizzato addirittura come stalla.

Sul finire dell’800 l’architetto portoghese Alfredo De Andrade, lo stesso che ha operato a Palazzo San Giorgio e al Castello D’Albertis, ne ha tentato un primo recupero completato, poi in maniera più organica nel 1938 dal collega Ugo Nebbia.

“Interni del cortile”.

“Una delle numerose statue di benefattori, provenienti dallo scomparso ospedale di Pammatone, di cui sono disseminati giardini e viali interni a S. Martino”.

“Arcate ogivali in stile duecentesco”.

“Scorcio del castello con una delle statue di Pammatone”.

Oggi la struttura funge da biblioteca, archivio storico e, soprattutto da suggestiva location, per congressi e conventions.

Mampae e Giöxîe… e luce sia…

Una volta erano costruite con due semplici elementi: un telaio di legno e un lenzuolo bianco, che catturava e rifletteva la luce che filtrava tra i palazzi. Più tardi si sono evolute e sono diventati pannelli di lamiera, che funzionavano come uno specchio e favorivano meglio l’illuminazione delle stanze.

Un geniale tipo di serramento rivestito di lamiera  lucida al suo interno e scura all’esterno, utilizzato dai genovesi per strappare un po’ di sole e calore fra gli angusti tetti dei caruggi. Serviva infatti per catturare la luce dall’alto del vicolo verso l’interno della stanza. Alla sera i pannelli venivano ritirati verso la finestra fungendo, inoltre, da protezione.

Quei pannelli, protesi in fuori sono le mampae, termine che deriva dallo spagnolo “mampara” e che significa paravento, all’interno sono foderate in lamiera in modo da agevolare il riflesso della luce.

“Mampae chiuse in Via di Mascherona”. Foto di Leti Gagge.

“Le stesse mampae riprese da un’altra angolazione”. Foto di Leti Gagge.

Le mampae costituiscono tenace testimonianza della capacità di adattamento e dell’ingegnosità dei nostri avi. Un oggetto pratico e funzionale di cui ormai non se ne trova quasi più traccia. Le ultime sono in Piazza degli Embriaci, in Via Mascherona e presso i Macelli di Soziglia.

“Le mampae nella moderna versione di Renzo Piano”. Foto di Leti Gagge.

“Giöxîe, le persiane genovesi”. Foto di Leti Gagge.

Nel 1992 Renzo Piano ha voluto omaggiare questo singolare arredo riproponendolo in chiave moderna nell’edificio dell’Expo che da Via della Mercanzia si affaccia su Piazza del Mandraccio.

“Immagini riflesse fra le persiane di una finestra in Piazza Lavagna”.Foto di Leti Gagge.

Più recenti e diffuse anche ai giorni nostri sono invece le persiane, le rudimentali tapparelle a listarelle, simili a stuoie dette, in genovese, “giöxîe” (gelosie), quel particolare tipo d’imposta atta a proteggere dalla luce e dal calore senza impedire la circolazione dell’aria. Come la maggiorana l’erba aromatica, nella nostra lingua, si dice “persa” perché proveniente da quelle terre lontane, allo stesso modo il termine persiana, deriva dal francese “persienne”, (relativo alla Persia) perché originario di quegli stessi luoghi.

Mampae e “giöxîe” anche nel modo di procurarsi o proteggersi dalla luce, i Genovesi hanno saputo trasmettere i segni distintivi del proprio carattere… “Ahi Genovesi uomini diversi…. “ verseggiava Dante.

Santa Croce… la chiesa scomparsa…

E’ uno degli scorci più suggestivi di Genova, un luogo sospeso nel tempo dove luci ed ombre ingannano lo spazio giocando a nascondino. Si tratta di Via e Piazza di Santa Croce incastrate fra Sarzano e la collina di Santa Maria di Castello, il fulcro più antico del centro storico.

Qui, vegliati da una settecentesca edicola del Battista, si ha la possibilità di effettuare una passeggiata a ritroso nel tempo di quasi 900 anni nella scomparsa chiesa di Santa Croce.

“La settecentesca edicola di San Giovanni”. Foto di Leti Gagge.

L’edicola presenta un tempietto in marmi policromi con semi colonne ioniche e raffigura San Giovanni Battista nel deserto accompagnato da San Giovannino con in braccio l’agnello. La mensola poggia su un cherubino alato mentre la statua del santo presenta il braccio destro mozzato.

Quest’area costituiva un tempo l’antico complesso di Santa Croce, vicino all’attigua omonima porta, una delle tante strutture del litorale cittadino, atte al ricovero dei pellegrini da e verso la Terrasanta.

“La Piazza di Santa Croce”. Foto di Leti Gagge.

“Interni del locale La Passeggiata”. Foto di leti Gagge.

All’interno del locale, nomen omen, “La Passeggiata” al civ. n. 21r ne sono testimonianza i resti ancora visibili di brani della pavimentazione originale, di porzioni del muro perimetrale con un grande arco tamponato facente parte delle Mura del Barbarossa (1155) e una nicchia dove sono conservati dei reperti rinvenuti durante la ristrutturazione avvenuta qualche anno fa.

“Porzione del muro perimetrale del tempo del Barbarossa”. Foto di Leti Gagge.

In questo edificio, luogo di culto della comunità lucchese, era custodito un simulacro del crocifisso, da non confondersi con il Cristo Moro, del celebre “Volto Santo” tanto venerato in patria dai toscani. Il crocifisso del Cristo Moro così caro ai genovesi, oggi ricoverato in S. Maria di Castello, invece un tempo si trovava in una cappelletta sottostante il vicino monastero di San Silvestro.

Il complesso di Santa Croce, con annesso ospitale venne gravemente danneggiato durante il bombardamento del re Sole del 1684 e successivamente ricostruito in forme barocche nei primi anni del ‘700. Nel 1805, a seguito degli editti napoleonici, venne definitivamente soppresso ed inglobato nei palazzi di abitazione. La vicina San Salvatore ne incorporò nel 1809 il titolo, i beni e gli arredi.

“Le quattro colonne ottocentesche”. Foto di Leti Gagge.

“Brani della pavimentazione originale”. Foto di Leti Gagge.

“La nicchia contenente i reperti”. Foto di Leti Gagge.

Le quattro scenografiche colonne di pietra e laterizi fanno invece parte della ristrutturazione ottocentesca quando la chiesa venne trasformata in abitazioni private.

“La Salita della Seta”. Foto di Leti Gagge.

Prima d’incrociare con lo sguardo Salita della Seta con la sua pendenza tutt’altro che morbida, al civ. n. 33 s’incontra lo spettacolare portale in ardesia ristrutturato e ricostruito su modello rinascimentale. Sul fastigio un’aquila a due teste che tiene con le zampe il globo e una fiaccola, lo stemma nobiliare degli Spinola. Sul trave l’epigrafe “Flangar non flectar” (mi spezzerò ma non mi piegherò), il motto così adatto alle secolari vicissitudini della Repubblica.

“Il portale al civ. 33”. Foto di Leti Gagge.

“Antica stampa del complesso di santa Croce”.

La chiesa di Santa Croce non c’è più ma la si può lo stesso immaginare lì, seguendo il percorso dello stretto caruggio che costeggia le mura di contenimento del Castello. Rivolta verso il mare e inglobata dalle case costruite sopra le Grazie sita, proprio come allora, in una posizione invidiabile.

“La Spada nella teca”…

A testimonianza del grande prestigio ottenuto in tutto il mondo occidentale ad Andrea Doria nel 1535 venne concesso il massimo riconoscimento a cui un militare cristiano potesse ambire. Fu il Papa Paolo III in persona a voler conferire all’ammiraglio la Gran Spada d’onore che gli venne consegnata da una fastosa delegazione della Santa Sede presentatasi in pompa magna al Palazzo del Principe.

Tale arma veniva assegnata solo ai migliori uomini d’arme della cristianità che così acquisivano il simbolico titolo di “Defensor” della Santa Croce.

“La cripta dei Doria con il mausoleo scolpito dal Montorsoli”.

Si trattava di una magnifica spada con pomo e cintura d’oro. L’elsa era inoltre incastonata di pietre preziose di inestimabile valore. Sulla lama di pregevolissima fattura era inciso, oltre al nome del Papa e lo stemma pontificio, anche l’epigrafe “con raro artificio scolpito”.

L’ammiraglio la indossò fieramente per 25 anni fino al 1560, anno della sua morte, in tutte le cerimonie ufficiali. Come da disposizione testamentaria volle che fosse posta accanto a se nella cripta di San Matteo nel mausoleo dove venne sepolto insieme alla moglie Peretta e al nipote prediletto Giannettino ucciso durante la congiura dei Fieschi del 1547.

“Piazza e chiesa di S. Matteo”. Foto di Leti Gagge.

Nel 1566 la spada venne rubata e a nulla valse la ricca ricompensa di 200 ducati d’oro voluta da Giovanni Andrea Doria, erede e nuovo capo famiglia, perché l’arma fosse restituita.

“Come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca” giunse la soffiata giusta e venne individuato il ladro: un tal Mario Calabrese sottocomito di galea proprio sulle navi dei Doria. Egli rifiutò di rivelare dove avesse nascosto l’arma e di ammettere il furto. Si decise così, proprio come in “Geordie”, la struggente ballata di De Andrè, di impiccare il reticente con una corda d’oro in contrappasso al fatto di aver rubato qualcosa di molto prezioso. L’esecuzione ebbe luogo nella Piazza di San Matteo, pochi giorni prima che la lama della spada venisse rinvenuta abbandonata in una fogna di Ponte Calvi. Del pomo, della corda e della sfarzosa elsa con relative pietre preziose da allora non si ebbe più traccia. Probabilmente fuse le prime, utilizzate per nobilitare qualche altro gioiello, le seconde.

“Quel che resta delle statue dei Doria, Giannettino a sinistra, Andrea a destra, danneggiate durante la Repubblica Democratica”.

La spada, con un’elsa dipinta in sostituzione di quella originale, tornò a vegliare il mausoleo dell’ammiraglio fino al 1797 quando, con il sorgere dell’effimera Repubblica Democratica Ligure, venne messa al sicuro nella Villa del Principe dove è rimasta fino ai primi decenni del secolo successivo. Tale precauzione si era resa necessaria poiché i sostenitori del nuovo corso, in preda alla furia distruttiva avevano danneggiato i simboli della Repubblica (Stendardo di S. Giorgio e Libro d’oro della nobiltà) e decapitato le statue dei Doria poste davanti a Palazzo Ducale.

“Interni e altare maggiore della chiesa di S. Matteo”. Foto di Leti Gagge.

Passata l’ondata rivoluzionaria la spada venne riportata nella primitiva sede, appesa al baldacchino dell’altare maggiore della chiesa.

Negli anni ’70 del ‘900, con il pretesto di un improrogabile restauro, è stata trasferita nella galleria del Museo Nazionale di Palazzo Spinola e dimenticata come un cimelio qualunque. Dopo decenni di oblio oggi la Grande Spada d’Onore è tornata, custodita in una scenografica teca di vetro antisfondamento, nella sua collocazione originaria accanto all’ammiraglio a protezione dei suoi cari.

In Copertina: la Spada nella teca conservata nella chiesa di San Matteo. Foto di Giuseppe Ruzzin.

Vico dei Notari… il caruggio degli scriba occidentali…

Storia di un caruggio… di una farmacia… di edicole… di un ninfeo… di una bomba…

Anticamente vico dei Notari era conosciuto, per via del fatto che qui si redigevano gli atti notarili (i più antichi documenti e cartolari privati occidentali di cui si abbia notizia), come il “caroggio di scriven” e si diramava fino al piano di S. Andrea. Oggi costituisce solo un breve tratto che collega Canneto il Lungo angolo Vico delle Erbe fino alla farmacia Tettoni.

Con le demolizioni di inizio Novecento la via si è allargata e divisa su due livelli per permettere a Piazza Matteotti lo sbocco di Via Meucci con Via Dante. E’ scomparso così il millenario Borgo Sacco o Sacherio con il Vico Paglia, il “Carrubeus Sant’Ambroxi” delle mappe medievali. Così tutta la via fino alle torri ha assunto il nome di via di Porta Soprana.

“La farmacia del Ducale. Nei due tondi le sagome in ferro battuto”. Foto di Leti Gagge.

All’esterno della farmacia Tettoni fondata nel 1725 ad opera dei gesuiti (di stanza nella vicina chiesa del Gesù) con il nome di “Spezieria Monastica”, sono poste due nicchie con peducci in pietra nera di Promontorio che contenevano, un tempo, due secolari anfore ad uso dei monaci farmacisti, ora sostituite da sagome in ferro battuto.

“L’edicola dell’Assunta”.

In Via della Porta Soprana al civ. n. 1 la scenografica edicola della Madonna Assunta. Il tempio di forma neoclassica è del XVIII-XIX sec. La statua invece è anteriore del XVII-XVIII sec. Un chiaro omaggio all’Assunta del Puget della ex chiesa dell’Albergo dei Poveri. Due cariatidi femminili sorreggono il timpano triangolare. La statua che rappresenta la Vergine posta su una nuvola con angeli e cherubini è protetta da un vetro. Una raggiera le incornicia la testa. Alla base portava in origine l’epigrafe: “HORNATUS HIC / Et PIETATE  Et PLACIDO / Et Ad BENEPLACITUM ILL. DD. COMIS. 1852”.

L’edificio, detto casa Massuccone, venne progettato dopo il 1776 da un giovanissimo emergente architetto, Carlo Barabino. Sul trave del portale marmoreo con semicolonne doriche l’epigrafe: “Animus Aequus Satis”.

“Il loggiato nel cortile del civ.n. 5 di Via Porta Soprana”.

Al civ. 5 dentro ad un anonimo portone ornato da una cornice marmorea con ovale del trigramma di Cristo, si percorre uno stretto ed angusto corridoio che conduce ad un ampio quanto impensabile cortile privato con quattro ordini di logge. Sul fondo il ninfeo con la statua di Nettuno. Non si conosce l’architetto di tale dimora ma si sa che, datato metà del ‘500, è molto simile allo stile adottato per il Palazzetto Criminale di Via Tommaso Reggio. Lo scalone che si arrampica lungo i piani loggiati offre scorci, punti di vista e giochi di luce assai suggestivi.

“Il ninfeo con la statua di Nettuno”.

“Edicola della Madonna Immacolata al civ. n. 19”.

Al civ. n. 19  l’edicola della Madonna Immacolata del sec. XVIII-XIX scolpita in una nicchia con cornice a delicati motivi floreali.

Nell’atrio del palazzo al civ. n. 23 è custodita, incastonata nel muro, una palla di cannone la cui sottostante lapide recita:

“Palla di cannone e lapide nell’atrio del civ. n. 23″. Foto tratta da XIX TV.”

“Questa Palla fu Lanciata in / Questa Casa dalla Batteria della / Lanterna dai Soldati del Generale / Alfonso La Marmora / il 5 Aprile 1849”.

“Primo piano della palla di cannone”.

Tangibile monito e ricordo di quello che è passato alla storia come il sacco di Genova. In quell’occasione i Savoia con l’aiuto dal mare della flotta inglese bombardarono la città. Scagliarono 30000 bersaglieri contro i suoi 90000 inermi abitanti che erano insorti contro il loro malgoverno. A nulla valsero gli eroici atti di resistenza della Guardia Civica comandata dal capitano De Stefanis. I Piemontesi entrarono con l’inganno e ripristinarono l’ordine.

Questa è una delle innumerevoli bombe che per 36 ore consecutive ferirono la Superba, distrussero interi quartieri e causarono migliaia di vittime. La furia omicida dei soldati di Vittorio Emanuele II, agli ordini del generale Alfonso La Marmora, non risparmiò nemmeno, sventrato da 16 devastanti proiettili, l’ospedale di Pammatone.

Genova prende nota ma… non dimentica…

In Copertina: Via di Porta Soprana. Foto di Leti Gagge.

Via San Lorenzo come Abu Simbel… seconda parte…

” Palazzo Bandinelli Sauli. La balaustra impreziosita dagli otto illustri genovesi”. Foto di Leti Gagge.

Questa costruzione (Palazzo Bandinelli Sauli) venne eretta con il preciso intento di conferire maggiore dignità alla piazza principale della città dell’epoca, quella appunto prospiciente il suo più importante luogo di culto. Per questo motivo il Comune impose dei rigidi vincoli all’architetto; più precisamente stabilì che il palazzo dovesse avere un portico pubblico lato piazza. Oggi questo grande porticato è ridotto a triste e disadorno luogo di passaggio con le vetrine chiuse. Il palazzo si presenta apparentemente, su tre piani. In realtà ne ospita ben otto, di cui due rivolti verso il cavedio e il fianco di Vico del Filo. Sopra il portico una cornice marmorea di triglifi alternati a metope scolpite con elmi. Il primo piano nobile alterna alle finestre delle lesene ioniche a reggere il cornicione marcapiano ornato con conchiglie e ghirlande. Negli archi delle finestre, all’altezza del piano ammezzato nascosto, le figure allegoriche della Fama e della Vittoria. Il secondo piano nobile è a lesene corinzie a reggere il sontuoso cornicione. Sull’attico la balaustra ospita otto statue di illustri personaggi: Barabino, Viviani, Badano, Traverso, P. Piola, Assarotti, Garibaldi e Cambiaso. Il fianco verso la via San Lorenzo appare quasi identico, a parte la presenze delle finestrelle dei piani ammezzati, decorate con putti seduti e cornucopie.

“La targa che ricorda la dimora di Goffredo Mameli”. Foto di Leti Gagge.

In Via San Lorenzo, largo G. A. Sanguineti 11, il Palazzo Senarega  Zoagli sul cui prospetto è affissa una lapide commemorativa che ricorda come questa fu la casa di Goffredo Mameli, nato al 30 di Piazza San Bernardo: “Dava il Sangue alla Patria / Ai Secoli il Canto / Goffredo Mameli / che in Queste case / ebbe (cancellato) Dimora / 1827 – 1849 / La Democrazia Genovese Poneva / il 30 Luglio 1876”.

“L’edicola sotto l’archivolto del Gesù”. Foto di Leti Gagge.

A fianco, sotto l’archivolto di Vico Gesù, rivolta verso Canneto il Lungo, un’edicola marmorea racchiusa in un piccolo ovale che conteneva un dipinto andato perduto del volto di cristo. In basso i resti di una cassetta delle elemosine in marmo. Nello stesso vicolo, dove vige il più completo abbandono, un piccolo portale al civ. n. 2 con stipiti decorati e intrecci con testina sul trave (sec. XVIII).

“Quel che resta della sottostante cassetta delle elemosine”. Foto di Leti Gagge.

“L’elegante stemma dei De Ferrari, “. Foto di Leti Gagge.

“Il bel portale di Palazzo Fieschi”. Foto di Leti Gagge.

Al civ. n. 17 forse l’edificio più famoso, il Palazzo di Sinibaldo Fieschi, noto anche come De Ferrari Ravaschieri. Opera dell’architetto Bartolomeo Massone lo possiamo ammirare con la facciata sostanzialmente immutata dal 1618. Nel 1839,con l’allargamento della via, venne interamente smontata e riassemblata tre metri più indietro, sconvolgendo l’assetto degli interni e comportando l’innalzamento di un piano. Al piano nobile sono stati restaurati e, in parte ridipinti, gli affreschi che altrimenti sarebbero apparsi mutili. Il palazzo è l’unico della via a liste in conci bicromi per tutta la sua altezza, reminiscenze dei fasti medievali della Repubblica e dei privilegi del casato. Il portale marmoreo con semi colonne doriche è scolpito nelle metope a bucrani ed elmi, alternate da sei mensole con testine. Il timpano è sostituito da una trabeazione piana con le statue di Marte sul leone e Nettuno sul cavallo marino.

Al centro campeggia il grande stemma nobiliare dei Fieschi coi sette gigli e la corona. A fianco due cherubini alati con elmi. Sul fornice a tutto tondo il cartiglio con il testo. “Lvx Dei VestigiVm”. I mascheroni ghignanti, simili a quelli di palazzo Tursi, sono opera di Taddeo Carlone. Sono stati concepiti a coronamento dei timpani ad arco spezzato delle finestre del primo piano rialzato e del piano nobile. Altre testine appaiono sui portalini dei negozi al livello della strada. Nell’atrio una grande lapide narra le vicende del palazzo, dall’acquisto dell’area, all’edificazione nel 1611, ai lavori per l’ampliamento di Via San Lorenzo e infine, alla vendita al marchese Tomaso De Ferrari nel 1879.

“Nelle tre immagini i Mascheroni Ghignanti opera di Taddeo Carlone”. Foto di Leti Gagge.

Al civ. n. 19 il Palazzo de Franceschi, meglio noto come Palazzo Casaretto. L’edificio è il risultato di due palazzi contigui accorpati con il fronte arretrato di circa tre metri per l’apertura della nuova via. Il portale a lesene doriche con timpano triangolare e fregi nelle metope. Fornice a tutto tondo con lunetta in ghisa sopra il portone. Le stesse caratteristiche sono riportate nel finto portale al civ. 17° occupato da un negozio.

“Il portale di Palazzo de Franceschi”. Foto di Leti Gagge.

In tutti i tre piani del palazzo, le pareti delle scale e dei pianerottoli cono rivestite in azulejos e costituiscono uno degli esempi meglio conservati di questo suggestivo arredo. Le tre rampe di scale hanno volte a crociera con peducci in pietra nera, colonne e balaustre marmoree. Dai finestroni che danno su Canneto il Lungo è possibile ammirare, da un punto di vista privilegiato, la Torre dei Maruffo. Sul retro, in Via Canneto il Lungo, al civico 72 r, il primitivo ingresso del palazzo stesso.

“L’edicola in ardesia vuota posta sul lato di Vico San Gottardo”. Foto di Leti Gagge.

Sul lato di Vico San Gottardo, su un pilastro in pietra un’edicola a cornice quadrangolare che conteneva un dipinto su ardesia andato perduto i cui decori sono stari trafugati. La parte in ardesia è retta da mensole in ferro battuto. Sul lato di Vico Nostra Signora del Soccorso, sotto le sbeccature degli intonaci, si notano tracce dell’edificio originario del sec. XIII, con archi a conci bicromi tamponati e colonnine marmoree coperte dagli intonaci.

“La splendida edicola della Madonna della Misericordia”. Foto di Leti Gagge.

Sull’abside destra della Cattedrale al 48r, la Madonna della Misericordia del sec. XVII-XVIII. Due angeli sorreggono la raggera con la colomba che rappresenta lo spirito Santo. La Madonna incoronata, con ai piedi il beato Botta, è posta in un elegante tabernacolo, protetta da un vetro.

“Epigrafe e lapide sottostanti l’edicola della Madonna della Misericordia”.Foto di Leti Gagge.

Alla base l’epigrafe: “Avita Dei Param Religio Primum Decus Prolatae Viae”.

A fianco dell’edicola due lapidi che, in origine, erano site sull’abside della chiesa.

Al 105 r la farmacia Papa, un tempo Odero, che fu uno dei principali centri di cospirazione dei massoni ginevrini e dei giacobini alla fine del ‘700.

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La Farmacia Papa. Foto dal web.

O caroggio do fi u nu va ciù drito a San Loenso, ovvero Il caruggio del filo non va più dritto in San Lorenzo, vale a dire che, a volte purtroppo, le cose vanno storte e non più dritte come ai bei tempi!

Storia di un vaso di basilico… di un Duca…

… di un ambasciatore.

Che la stirpe dei genovesi sia tutta particolare ce lo hanno ricordato in tanti. Solo per citare i più noti, da Dante a Jean Le Meingre (Maresciallo Boucicault), dai primi viaggiatori anglosassoni a Montesquieu.

A questo proposito c’è un racconto che assai si confà all’intima essenza dell’animo orgoglioso, rude e “rustego” dei nostri avi, avvenuto al tempo in cui, purtroppo, la Superba ricadeva sotto la signoria della casata milanese.

Si narra che nel 1476 un tal Francesco Marchese venne inviato in qualità di ambasciatore presso la corte di  Gian Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano. Il rappresentante genovese aveva l’arduo quanto delicato compito di convincere il milanese a non ingrandire la fortezza del Castelletto, presidio dal quale quest’ultimo teneva in pugno, da monte, la città. Il previsto incontro diplomatico venne rimandato di qualche giorno causa improrogabili impegni del duca. I genovesi non la presero bene e pensarono un singolare dono, fuori da ogni protocollo, per rimarcare il loro disappunto.

Marchese gli aveva infatti fatto pervenire un vaso pieno di basilico. Galeazzo meravigliato e colto di sorpresa gliene chiese subito conto.

“La natura dei genovesi, signor duca, è simile al basilico. Maneggiato dolcemente profuma, maneggiato aspramente puzza e genera scorpioni”. Questa fu la lapidaria risposta dell’ambasciatore di San Giorgio.