Nella centralissima Piazza Banchi si trova una delle chiese più amate e, senza dubbio alcuno, particolari di Genova. Fra le tante peculiarità di questo edificio religioso, appartenuto alla Repubblica e non alla Curia, assai suggestiva è quella legata alle vicende di una curiosa statua in gesso (calco servito per una fusione in bronzo). Di paternità ignota, la scultura, collocata nella cappella di destra, è stata trovata con le mani fortuitamente spezzate, nel magazzino di un marmista. Una volta restaurata è stata associata ai devoti versi della preghiera dell’anonimo fiammingo del XV secolo: “Cristo non ha mani – ha soltanto le nostre mani – per fare oggi le sue opere”. L’opera nota appunto come “Il Cristo senza mani”, oggi fa bella mostra di se valorizzata da un’appariscente drappo rosso che gli fa da scenografica quinta.
Cristo non ha mani,
ha soltanto le nostre mani
per fare oggi le sue opere
Cristo non ha piedi,
ha soltanto i nostri piedi
per andare oggi agli uomini.
Cristo non ha voce,
ha soltanto la nostra voce
per parlare oggi di sé.
Cristo non ha forze
ha soltanto le nostre forze
per guidare gli uomini a sé.
Noi siamo l’unica Bibbia
che i popoli leggono ancora.
Siamo lì’unico Vangelo
scritto in opere e parole.
Davanti all’Ospitale di San Giovanni di Prè, a tutti noto come Commenda, sono affisse due targhe a ricordo di altrettanti illustri soggiorni. La prima rammenta la sosta di Papa Urbano V dal 13 al 20 maggio 1367, durante il suo viaggio di rientro da Avignone. La seconda, la permanenza di oltre un anno, tra il 1385 e il 1386, del Pontefice Urbano VI.
Quest’ultimo, fuggito dal castello di Nocera dove era assediato dalle truppe di Carlo III, re di Napoli, si era rifugiato a Genova portando con sé come prigionieri alcuni cardinali che avevano congiurato contro di lui. Costoro proprio alla Commenda saranno giustiziati nel dicembre 1385 (o nel gennaio 1386) e sepolti in un luogo prossimo alla chiesa. I loro resti furono rinvenuti nel 1829 durante lavori in un terreno adiacente al complesso.
Re Carlo scomunicato dal Papa aveva promesso una lauta ricompensa di 10000 fiorini a chi glielo avesse consegnato vivo o morto.
Intanto a Genova il Doge Antoniotto Adorno si stava arrovellando nel tentativo di trovare il modo di riscattare la Superba ancora scossa dalla recente sconfitta veneziana di Chioggia sancita dall’insoddisfacente Pace di Torino del 1381.
Antoniotto fece una scelta coraggiosa allestendo una flotta di dieci galee, ma non per catturare Urbano VI e consegnarlo all’imperatore, bensì per condurlo a Genova sano e salvo e salire così agli onori del mondo. L’audace impresa venne affidata al fratello Raffaele che imbarcò il Santo Padre insieme a nove illustri prigionieri e, nel settembre 1385, fece ritorno in patria.
Rifugiatosi così a Genova il Papa venne accolto con tutti gli onori ed ospitato, per sua stessa richiesta, presso la Commenda che diverrà la sua residenza ufficiale per oltre 15 mesi. Urbano VI aveva scelto l’edificio dei cavalieri gerosolimitani per potervi tenere incarcerati i cardinali ritenuti traditori, per cinque dei quali, di lì a poco, avrebbe emanato la sentenza di morte.
Il Doge sperava con questa operazione, oltre che di far riguadagnare prestigio alla sua Repubblica, di incrementare il flusso di pellegrini e godere del relativo giro di affari che ne sarebbe conseguito. Speranze disilluse perché il Vicario di Cristo non solo non si prestò ad iniziative o manifestazioni pubbliche, ma anzi si barricò nella Commenda uscendone solo quando, sollecitato dal Doge stesso che gli fornì due galee, riparò a Lucca.
I benefici ottenuti da questa impresa, soprattutto se comparati al costo del mantenimento del Papa e della sua corte a carico del Doge, furono davvero irrisori per la Repubblica di San Giorgio: di fatto quantificati nel solo acquisto del mercato di grano di Corneto commutato in piccoli feudi ecclesiastici sottratti ad Albenga e Savona e Noli.
Inoltre l’eco per il crimine commesso non era stato accettato per nulla di buon grado dall’oligarchia genovese che aveva dunque esercitato pressioni sul governo affinché il Papa venisse allontanato dalla città.
Leggenda narra che la notte dei morti il sangue di quell’efferato delitto riaffiori sul millenario pavimento dell’ospitale ma di leggenda appunto si tratta perché in realtà i prelati furono si giustiziati ma non passati a fil di lama nelle segrete di San Giovanni, bensì impiccati sulla scogliera del Molo.
In copertina: Il Campanile della Commenda. Foto di Leti Gagge.
… “E quando Roma ha voluto regalarsi una comoda via per passeggiare nel suo dominio e legarselo per l’eternità, è arrivato in quei luoghi il console Aurelio. Un console grasso e pieno d’ira che spingeva avanti a colpi di gladio, con la sapienza e la crudeltà che hanno come dote naturale i tracciatori d’imperi, un’altra immensa carovana cicalante di diecimila e più tra schiavi e picchettini e sterratori e camalli, operai e ingegneri, e puttane e bestie da soma e da sell, tutti quanti a ritmare per la parte che gli toccava l’infinita cantilena della strada che avanza. E la strada avanzava diritta, avendo per limite soltanto il lontano fiume Oceano, oltre tutte le montagne, i fiumi, le pianure, oltre tutte le genti e ancora oltre.
E quando arrivò alla valle degli Apui, al console fu fatto notare che affioravano, mal sepolti fra i cavezzi e le mortelle della prataglia, i resti di cinquemila suoi commilitoni e del collega console Marcello. Dolente e furioso alzò lo sguardo al cielo dei suoi dei di vendetta e incontrò quel poggio disperato da dove, a quattro zampe, c’era chi li stava spiando.
Egli fece compiere allora alla sua Via una complicata manovra a serpente che, deviando dal percorso stabilito, invadesse i bozzi dell’acquitrino, bonificando ogni eventuale traccia di invendicata ferita romana. Ci morirono in parecchi tra i suoi, nel tirar su tra la polta malarica un terrapieno che tenesse l’armatura di una via consolare destinata a durare per l’eternità, ma infine ci riuscì tronfio e testardo.
Terminata l’opera, fece rifare i calcoli a suo comodo per collocare proprio nel punto che poteva essere visto dalle tane di quel poggio, un bel cippo militare in pietra bianca di quelle montagne con sopra incise quattro C in maiuscolo monumentale. Mai una strada si era spinta così avanti nel mondo nero dei barbari.
La notte che l’opera fu finita fu posato il cippo, dall’alto del loro recinto ormai definitivamente inchiavardato, quel poco di gente che c’era, vedeva spandere dalla pietra cavata dai suoi monti una luce più candida della luna, una luce che confondeva il cielo e abbagliava ogni possibile cammino nella valle. E quel bagliore se lo indicavano muti a vicenda”.
Non tutti gli Apuani furono deportati. Alcune comunità sopravvissero ancora nel territorio montano, tanto che ancora nel 155 a.C. (ben 25 anni dopo le grandi deportazioni che evidentemente non erano state risolutive) gli Apuani capeggiavano una coalizione di Liguri sconfitta dalle legioni del console Marcello in una guerra che non deve essere stata secondaria. Infatti il console ebbe l’onore del trionfo e i cittadini romani di Luni ringraziarono il generale romano dedicandogli una colonna rituale che celebrava la vittoria sugli Apuani (la stele è stata rinvenuta da scavi archeologici nell’area di Luni).
Racconta Livio “… partì per primo Quinto Marcio per raggiungere il territorio dei Liguri Apuani. Mentre li inseguiva addentrandosi in gole nascoste, che essi avevano sempre usato come nascondigli e rifugi, giunto in una strettoia che i Liguri avevano già precedentemente occupato, finì con l’essere circondato in una posizione sfavorevole. Furono uccisi quattromila soldati (…) il console, appena uscito dal territorio nemico, volendo evitare che apparisse chiaramente di quanto le sue truppe si erano assottigliate, ripartì l’esercito in diverse zone del territorio pacificato. Ma non gli riuscì di impedire che quella sconfitta acquistasse una sua rinomanza, perché i Liguri chiamarono Salto Marcio il luogo in cui lo avevano messo in rotta”. Livio XXXIX,20.
Nel 186 a.C. i Liguri Apuani inflissero una grave sconfitta al console Quinto Marcio Filippo, ed alle sue legioni, dopo averle attirate nelle strette gole della zona. Furono uccisi non meno di 4.000 legionari ed il luogo del disastro fu quindi successivamente chiamato “Saltus Marcius”, forse l’attuale località di Marciaso (che deriverebbe da Martii Caesio), forse le strette gole sopra Seravezza, nel territorio del comune di Stazzema. Tra Pontestazzemese e Cardoso esiste ancora oggi un colle denominato “Colle Marcio”, con un probabile riferimento al “saltus Marcius” (salto nel senso di dislivello e Marcius dal nome del console romano), nome che secondo Tito Livio avrebbe preso la località a seguito della battaglia.
Questo insomma è l’anno di gloria degli Apuani che riescono a battere i Romani grazie ad un’imboscata. Comunque, dopo tante sconfitte, gli Apuani riescono finalmente a prendersi una rivincita prima della tragedia finale. Il coraggio e la fierezza di questo popolo che non scende a compromessi è davvero ammirevole.
I successi dei Liguri Apuani, però, furono di breve durata: tra il 180 a.C. ed il 179 a.C. gli Apuani sopraffatti vennero in gran parte deportati nel Sannio (Macchia di Circello), in due scaglioni ed anni successivi composti, se vogliamo dar credito alle cifre trionfalistiche di Tito Livio, di 40.000 e 7.000 individui per convoglio.
Nonostante la provvisorietà delle loro vittorie gli Apuani, uomini e donne, furono ricordati a lungo come valenti guerrieri dai romani e alcuni storici romani li descrivevano così: “Le donne combattono come gli uomini, spietate e feroci come fiere” e ancora, con riferimento alla sconfitta romana del 186 a.C., “si stancarono prima gli Apui di inseguire, che i romani di fuggire”. Ma i Romani erano destinati a tracciare un solco indelebile nella storia. Di lì a poco avrebbero dato la civiltà al mondo costruendo ponti, acquedotti e strade.
Strade come la via Aurelia l’antica via consolare iniziata, alla metà del III secolo a.C. dal console Gaio Aurelio Cotta, per congiungere Roma a Cerveteri e poi prolungata fino a collegare le nuove colonie militari sul litorale tirrenico.
Quel selciato puntellato di sampietrini sta lì a ricordarci questa meravigliosa storia scritta con il rosso scarlatto del sangue dei suoi eroici protagonisti, i nostrani Asterix ed Obelix che, forse, sarebbe meglio chiamare Albiorix (il dio celto ligure delle montagne) e Obelin.
In Copertina: Striscia di Asterix in lingua genovese.
Fin da bambino i fumetti di Asterix e Obelix sono stati patrimonio del mio immaginario, in particolare da quando mio padre, nella speranza di farmi appassionare al latino, materia nella quale deficitavo, me ne aveva persino regalato un volume nella lingua degli antichi romani. Al latino mi sono appassionato poco, in compenso molto di più alle avventure dei due eroi per i quali ho sempre, nonostante l’esilarante simpatia degli invasori romani, fatto il tifo.
Eppure questi personaggi sono realmente esistiti ma non erano Galli come nella striscia di René Goscinny e Albert Uderzo bensì Liguri montani, più precisamente Apuani fedeli alleati, al tempo delle guerre puniche, dei Cartaginesi. Al posto della misteriosa e corroborante pozione magica del Druido sorbita per combattere il nemico, mi sono immaginato i nostri eroi consumare abbondanti porzioni di basilico e di agliato pesto, magari spalmato sugli archetipi dei loro gustosi testaroli.
Roma caput mundi ha impiegato circa 250 anni per occupare quella terre e sfaldare la coriacea resistenza di quelle popolazioni, molto più coraggiose e indomabili rispetto a quelle di altre celebrate nazioni. Una vittoria sui Liguri era considerata talmente provvisoria e temporanea che nella Città Eterna venne coniata, a sottolinearne il carattere aleatorio, l’espressione “… come un Trionfo sui Liguri”.
Maurizio Maggiani nel suo celebre romanzo “Il Coraggio del Pettirosso” ne racconta magistralmente le vicende attingendo a piene mani dalle fonti di Strabone e Tito Livio:
“Era un popolo quello Apuo che abitava la valle di un dolce grande fiume, con molte fiumane che gli si precipitavano addosso dalle gole profonde di un giogo di montagne aguzze e franose. Le montagne erano bianche, di un marmo morbido e poroso che diventava d’oro scarlatto quando raccoglieva il sole basso del tramonto. La valle arrivava al mare per un’ampia piana, ricca di tutti gli umori necessari a far crescere le piante e gli animali. Erano un popolo di bestie, senza una città e senza una scrittura; per questa ragione non c’è mai stato nulla in nessun luogo che parlasse per loro. Né hanno mai voluto in qualsivoglia modo parlare direttamente ai rappresentanti dell’impero di Roma in caccia di nuovi possedimenti, quando, è come se li vedessi qui davanti a me, si sono presentati in pompa magna per chiedere il pegno del vassallaggio, cercando di spiegare a quelle teste di pietra il vantaggio che ne sarebbe derivato. Non hanno mai avuto idea di parlamentare o trattare. E questo lo dicono i cronisti di Roma. E dicono anche che è stata una gran follia non voler capire dove stava tirando il vento, una sciagura da addebitarsi al fatto che quel popolo non era di veri uomini, quanto piuttosto di mostri selvatici e indecifrabili. Allora si procedette come di consueto in queste faccende d’insubordinazione. Le legioni spianarono l’erba grassa della piana, i carri da guerra ararono la valle per tutta la sua lunghezza e i cavalli asciugarono le fiumane con la gran sete dei conquistatori.
Perché Roma non la ferma nessuno. Così che gli Apui si fecero ancora più lupi di com’erano e si issarono sulle montagne più impervie e resistettero. Durarono a guerreggiare 250 anni, ed è una cosa inaudita che possa essere successo. Avranno mangiato pane fatto con la farina macinata dalla pietra del marmo per poter durare così tanto, si saranno mangiati tra loro, o avranno sbranato i lupi loro cugini. O forse erano lupi, se è vero quel che dicono i Romani. Che un giorno piovvero a branchi da ogni lato del cielo sul grande accampamento fortificato alle pendici del Monte Caprione e fecero a pezzi cinquemila tra fanti e cavalieri. Rapinarono cento carri carichi di vettovaglie, e salmeria e bagasce a frotte, con il console Marcello nascosto fra le loro sottane dorate. E si sentivano i buoi mugghiare per il dolore di vedersi mangiati vivi. Cinquemila in un giorno solo: che gran inviperimento al senato di Roma e che rabbia.
E infatti non si badò a spese e di conseguenza gli stolidi Apui, gli abominevoli rigettatori della clemenza di Roma, vennero debitamente sterminati. Furono arsi i boschi, avvelenati i sorgivi, spazzolati i recessi e le tane con la striglia delle ottanta centurie del console Claudio, l’élite delle armi, lo scudo inflessibile della sacra difesa dell’impero. Ogni accorgimento fu approntato perché non rimanesse nessuno, non un bambino, una puerpera, un vecchio, che non fosse stato toccato dalla mano della vendetta. Per chi ne uscì vivo fu organizzato un convoglio in catene per consegnarlo, possibilmente con ancora un po’ di fiato nell’anima, alle miniere di rame del sannio, all’altro capo dell’Italia.
Bisognava averlo visto quel corteo di diecimila semi uomini che attraversava l’Italia tenuto per la catena. Che figliava, che si straziava di dolore, che avvizziva di rabbia, che cresceva e moriva, che forse faceva l’amore . E mangiava, dormiva e cagava sotto la scorta del trionfo di Roma. Spettacolo a imperitura memoria per tutte le genti che lo hanno visto passare per la durata di un anno e forse più, per la lunghezza di mille miglia e forse più”.
Il toponimo di Vico Mele ha una genesi incerta. Secondo alcuni trarrebbe origine dalla famiglia proveniente dall’omonimo paesino sulle alture di Voltri, per altri, molto più semplicemente perché qui avevano sede le botteghe e i magazzini del succoso frutto.
Al vicolo è legata anche una curiosa leggenda che racconta di una misteriosa meretrice, bruna di capelli, di pelle ambrata e dalle prosperose forme che fa girar la testa e, soprattutto, sparir il portafoglio degli incauti clienti.
Al civ. n. 6 si trova il Palazzo Brancaleone Grillo conosciuto anche, dal nome dei successivi proprietari, come Serra. Dentro al cortile di accesso al loggiato si trova una meravigliosa rappresentazione quattrocentesca di Madonna con il Bambino, calco di una delle più affascinanti edicole del centro storico. Realizzata in forma allungata e in un raffinato stile gotico francese presenta nella nicchia il rilievo della Vergine con il Bambinello in braccio.
L’immagine nel suo insieme, e il gioco di sguardi in particolare, trasmettono un intimo senso di complicità. Sotto la mensola, su una pigna con motivi floreali, campeggia lo stemma del casato. Data l’importanza dell’opera, per preservarla dalle intemperie e dai vandalismi, l’originale è conservata presso il Museo di S. Agostino.
Il portale del palazzo, attribuito alla sapiente mano di G. Gagini, offre la classica effige di San Giorgio che sconfigge il drago sdraiato sotto il cavallo con la principessa in preghiera. Sullo sfondo due figure femminili alate che reggono in mano la fiaccola e il giglio e sotto gli scudi con gli stemmi nobiliari. La tavella risulta infine impreziosita da una ricca cornice con girali e putti. Alla base l’iscrizione recita:
La facciata presenta la tradizionale alternanza di conci di marmo bianco e nero sulla quale sono visibili alcune colonne murate, poggioli con colonnine di marmo e archetti trilobati che proseguono anche sul lato di Vico Colalanza e Vico San Luca. All’interno lo scenografico scalone marmoreo che, a seguito delle successive ristrutturazioni, s’interrompe al primo piano.
Gli interni del piano nobile offrono affreschi, a tratti sbiaditi, di Luca Cambiaso, “Nozze di Amore e Psiche e Augusto assiso in trono” e di Lazzaro Tavarone, “Mosè con gli Ebrei nel deserto”, opere che permettono al palazzo(a quel tempo di proprietà di Nicolò Spinola) di inserirsi a pieno titolo, già a partire dal 1576, nel rodato sistema dei rolli.
Le numerose colonne con relativi capitelli tamponate lasciano presagire quanto imponente fosse il loggiato originario. Al civ. n. 11 esisteva un analogo portale a quello precedentemente descritto che venne acquistato e trasferito nel suo castello dal Capitano D’Albertis.
All’angolo con Vico San Sepolcro ecco un altro antico portale in pietra nera di promontorio che rappresenta il Battista nel deserto al cospetto del Dio padre che affida la sua famiglia alla protezione divina. Il bassorilievo ricco di simbologie orientali e pagane rappresenta un’allegoria della famiglia proprietaria che volle affidarsi direttamente al Divino senza troppe intermediazioni.
A destra una cicogna, forse uno struzzo vicino ad un leopardo sdraiato a terra davanti ad uno sfondo di alberi e rocce. Sulla sinistra San Giuseppe accompagna con la mano una figura femminile alata che esce da uno scudo. La scena rappresenta la presentazione del casato al cospetto del Dio Padre che appare all’estrema sinistra pronto ad accogliere benignamente la richiesta.
Sotto l’archivolto De Franchi ci si imbatte in un’altra Annunciazione in pietra nera decorata con stemmi abrasi del XVI sec.
All’angolo con Vico Spinola antiche tracce di una loggia tamponata con archi in pietra del XIII sec.
Nella piazzetta di San Sepolcro sorgeva, come testimoniato da apposita lapide, un antico oratorio oggi sostituito da una mediocre costruzione del dopoguerra.
Sul muro al civ. n. 2, vicino ai resti marmorei della decorazione dello scomparso portale, la lapide che attesta la proprietà del palazzo:
Dom / Hec Plateola Cvm Domo Magna Oposita / Est Mag. Ci et Potenti.mi Militis. D. Lvce Spin / Vle Q. S. P. D. Io; Baptiste Hoc Anno Em / pta Ab Heredibvs Q Brancaleonis / et Antoniotis De Grilis Die pma Sept / Embris MCCCCLXXXXVI (1496).
La nobile schiatta ebbe origine da un certo Uberto valoroso capitano che nel 806 fu il primo a salire sulle mura di Costantinopoli durante l’assedio della città. L’imperatore Niceforo (dal greco significa “Colui che porta la vittoria”) testimone del fatto lo indicò come esempio ai suoi soldati: “Vedete voi quel grillo con quanta celerità sale sui muri?”. Da questo episodio l’origine del cognome dei suoi discendenti che ricoprirono ruoli di assoluto prestigio: cardinali come Geraldo nel 1134 , Oberto nel 1155 e Ottone 1251; ammiragli quali Simone vittorioso nel 1264 sui veneziani, Accellino che nel 1310 con sole dieci galee espugnò Rodi; padroni di territori e titoli nobiliari come Manfredo signore di Cassano Spinola nel 1306, Antonio di Piacenza nel 1317, Antonio di Sigismondo di Lerma nel 1396.
Nel 1528, con la riforma voluta da A. Doria, formarono il nono albergo. Molti ancora, per tutto il ‘600 e il ‘700, furono i membri di questa illustre casata che ricoprirono di prestigiosi incarichi e che di allori si fregiarono.
… molto carina. Senza soffitto senza cucina. Non si poteva entrarci dentro. Perché non c’era il pavimento. Non si poteva andare a letto. In quella casa non c’era il tetto. Non si poteva fare pipì. Perché non c’era vasino lì. Ma era bella, bella davvero. In via dei matti numero zero”… così recitava la prima strofa della celebre canzone di Sergio Endrigo. Per fortuna nella casa di cui vi voglio parlare c’è quasi tutto e risulta tuttora essere una delle attrazioni turistiche più gettonate della Superba. Sita proprio davanti allo scenografico ingresso di Porta Soprana, uno dei due principali varchi ancora esistenti delle Mura del Barbarossa, ecco la presunta Casa di Colombo.
Presunta si, perché secondo gli studiosi qui avrebbe abitato Domenico Colombo, padre del più celebre, a quel tempo giovinetto, Cristoforo. Si ipotizza di conseguenza che, insieme al padre, vi avrebbe dimorato anche il futuro esploratore che, all’epoca, avrebbe dovuto avere circa quattro anni.
Domenico infatti, a causa dei mutamenti politici avvenuti in seno al governo cittadino, aveva perso il suo tranquillo lavoro di custode presso la Porta dell’Olivella ed era stato costretto ad inventarsi un nuovo impiego. Si era quindi riciclato artigiano lanaiuolo e per praticare tale attività che, proprio nella contrada dei Lanaiuoli presso Vico Dritto di Ponticello aveva il suo fulcro cittadino, vi si era trasferito.
Fra il 1455 e il 1470 l’antica dimora avrebbe dunque ospitato l’esploratore dove il padre, per arrotondare e riuscire a sbarcare il lunario, oltre ai tessuti, smerciava vini e formaggi.
Ai foresti lasciamo pure l’illusione di quel “presunta” ma in realtà, essendo l’abitazione originale andata distrutta nel maggio 1684, gli storici concordano nel decretarne la non autenticità. Insomma un “falso storico” acclarato.
Fu infatti il devastante bombardamento navale francese ordinato da Re Sole, Luigi XIV, a radere al suolo senza alcuna pietà la costruzione primitiva che era costituita da due o tre piani dei quali il primo adibito a bottega e gli altri due ad abitazione.
Nel ‘700 sulle macerie di quella originaria la casa fu ricostruita, più o meno fedelmente, nella versione che possiamo ammirare ancora oggi e nel corso dei secoli successivi venne ulteriormente modificata con la sopraelevazione di altri piani fino al raggiungimento dei cinque.
Nel 1887 il Comune ne divenne proprietario impegnandosi, per fortuna, a preservarla dai futuri sconvolgimenti che avrebbero interessato la zona. Nel 1898 infatti le case di Vico Dritto di Ponticello vennero abbattute e con esse i tre piani posticci che, appunto, poggiavano sulle costruzioni limitrofe. Nei primi decenni del Novecento con la risistemazione del quartiere e, di fatto, la sparizione degli antichi borghi di Ponticello e del Morcento (attuale Via Ceccardi) la casa di Colombo è rimasta isolata e avulsa dal suo originale e vitale contesto.
Sul prospetto che oggi consideriamo principale campeggia la lapide marmorea sotto lo stemma cittadino protetto da due orgogliosi Grifoni che recita:
“Nulla Domus Titulo Degnior Paternis In Aedibus Christophorus Columbus Pueritiam Primamque Juventam Transegi”. “Nessuna casa è più degna di considerazione di questa in cui Cristoforo Colombo trascorse, tra le mura paterne, la prima gioventù”.
L’ingresso principale originale era invece posto verso il lato oggi occupato dal chiostro di S. Andrea la cui presenza in loco costituisce anch’essa, sebbene la conformazione sia assai suggestiva, un falso storico. Peccato perché l’immagine del futuro grande esploratore assorto sotto le colonne del chiostro del XII sec. intento nello studiare le sue ardite rotte era molto suggestiva.
Le ormai millenarie pietre vennero salvate dall’architetto portoghese Alfredo d’Andrade che si adoperò per recuperarle.
Nel corso infine di un restauro condotto nel 2001 sono stati effettuati importanti ritrovamenti di carattere storico archeologico che hanno portato alla luce tracce di muratura di probabile origine romana e una canaletta medievale sotterranea per lo smaltimento delle acque, una sorta di primitivo impianto fognario. La gestione della casa museo è oggi affidata all’Associazione Culturale Genovese “Porta Soprana” che al suo interno ha predisposto un percorso didattico “sulla rotta”, è il caso di dirlo, dell’Ammiraglio.
Varcata la Porta Soprana, all’angolo fra Via Ravecca e Salita del Prione, proprio sul Piano di S. Andrea, si staglia un curioso palazzo decorato con un’imponente edicola. Si tratta dei resti di quella che un tempo era una torre, la Turris Matonorum, interamente di pietra appartenente alla famiglia Embriaco fatta erigere da Guglielmo nel 1128.
Dei due archi tamponati sul lato del Piano, quello di destra nasconde gli archetti originali di una quadrifora. Sul versante di Via Ravecca invece, sopra ai terrazzini, si notano degli archetti di bifore in marmo liscio. All’angolo, al livello del piano strada, si intuiscono i resti dei conci di pietra che costituivano la base della torre, oggi irriconoscibile per via delle continue trasformazioni che ha subito nei secoli. Un presidio probabilmente costruito per dare supporto ai poderosi torrioni dell’attigua Porta Soprana.
Sul lato del Prione, impossibile non notare la grande edicola barocca del sec. XVII – XVII, un dipinto su tavola che rappresenta la Madonna seduta con il Bambino in braccio, attorniata da vari santi e fedeli. Nonostante sia stata, circa un decennio fa, restaurata i colori risultano sbiaditi e l’edicola nel suo insieme trasmette trasandatezza e mancanza di cura. Del grande angelo poi che sovrastava il timpano è rimasto solo il tronco.
Il tabernacolo, seppur poco profondo, è di grande dimensioni ed incornicia la scena con motivi floreali modellati con lo stucco. Il timpano spezzato s’inserisce nella raggiera dove angeli in volo e teste di cherubini completano l’immagine.
Le Mura degli Zingari con relative calate furono costruite nella seconda metà del’ 800 grazie al munifico contributo del Marchese Raffaele De Ferrari, Duca di Galliera, che fece ammodernare il porto, riportandolo all’antico splendore. Per la faraonica impresa il Duca donò alle esangui casse del comune venti milioni di lire, una cifra impronunciabile per l’epoca.
Oltre alla costruzione dei Moli Galliera, Lucedio e Giano il Duca finanziò tutta una serie di interventi minori fra i quali, gli approdi di Santa Limbania, San Lazzaro (Ponte Colombo) e, appunto quello relativo alla risistemazione del tratto compreso fra la chiesa di San Benedetto del Molo e la Villa del Principe proprio davanti alla Stazione Marittima.
Questo un tempo era il sito della Porta e annessa chiesa di San Tommaso, il leggendario varco che permetteva all’ammiraglio Andrea Doria di accedere direttamente all’imbarco dove sempre erano schierate le sue dodici galee in assetto da guerra pronte a salpare.
Il tratto di mura si trova sotto il piano stradale di Via Adua, all’altezza di quelli che erano un tempo i giardini degradanti sul mare della Villa del Principe. Ne resta traccia nella spettacolare Loggia della quale restano solo nove degli originari dodici filari di colonne.
La zona, nonostante periodiche bonifiche, versa nel più completo degrado, sporca e occupata dai senza tetto come residenza. Nel corso degli anni è stata utilizzata come rimessa e officina dei mezzi dell’Amt e deposito delle auto sequestrate dai vigili. Oggi il cinquecentesco loggiato ospita persino macchinari di una centrale termica.
D’altra parte il toponimo del sito deriva dal fatto che questo era il luogo deputato ad accogliere le carovane di gitani quando transitavano o sostavano in città.
La leggenda narra che i genovesi eressero in soli otto giorni, 53 secondo altre fonti, le poderose mura della terza cinta muraria, quella del 1155 detta del Barbarossa.
In realtà si tratta di una metafora poiché ci vollero 8 anni e furono completate nel 1163. Devono il loro nome all’Imperatore Federico I di Svevia, Imperatore del Sacro Romano Impero, dal quale i genovesi volevano proteggersi per difendere la propria autonomia.
Per finanziare la colossale impresa i denari pubblici non erano sufficienti. Perciò il Comune raccolse donazioni e finanziamenti di privati e prestiti di banchieri piacentini. Persino l’Arcivescovo Siro II contribuì, in cambio di una considerevole somma, vendendo parte degli arredi sacri delle chiese della città.
La narrazione epica dei fatti è fornita negli “Annali” del Caffaro in cui il cronista racconta come le mura esistenti, quelle delle Grazie e della Marina, fossero state rafforzate.
“Uomini e donne tutti, in Genova, non ristando, dì e notte, di portar pietra d’arena, avean le mura a tal punto avanzate in solo otto giorni, che qualsiasi altra città d’Italia, pur con lode non sarebbe riuscita ad altrettanto”.
Queste esistevano già prima dell’anno Mille. Il nuovo tratto saliva dal Molo fin sopra Campo Pisano e terminava, percorrendo Via del Colle, a Porta Soprana. (Vico Sotto le Murette e Via del Colle).
Dalla torre sud della porta, riedificata per l’occasione, comincia il tragitto, oggi interrotto da un cancello, delle Murette.
Queste si possono comunque raggiungere passando da Salita della Coccagna dove s’incontra la scaletta che conduce al camminamento.
Nel primo tratto le abitazioni, ormai addossate alle mura, dal lato di levante impediscono l’originaria vista verso la valle del Rivo Torbido che scorre sotterraneo. A ponente si notano ancora, fra le altre, le case danneggiate dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Valicato un piccolo dosso si apre un maestoso panorama sulla collina di Carignano dominata dalla Basilica di santa Maria dell’Assunta con il ponte vecchio di Via Ravasco, uno scorcio di mare e, a monte, dove un tempo v’era il quartiere della Madre di Dio, le palazzate di Piazza Dante e gli orribili Giardini Baltimora.
Proseguendo si varca l’archivolto della Fava greca, dal nome del diffuso legume simile alla cicerchia. molto usato, a quel tempo, nelle zuppe.
Qui è possibile ammirare brani delle antiche mura senza la sovrapposizione successiva di case. Giunti in Via Ravasco, lungo le scalette, si notano i resti dell’antico acquedotto che percorreva ingegnosamente tutte le mura fino al Molo Vecchio.
Questo è quello che ancora oggi rimane dell’antico tracciato, il resto che non esiste più aveva un’altezza media di circa dieci metri, si dipanava da Porta Soprana.
Da qui raggiungeva una torre posta dove è l’attuale sbocco di Via XX, un tempo Via Giulia, con Piazza De Ferrari. Saliva per Piccapietra e la Torre Fiorente (o Friorente), posta a protezione del portello di Sant’Egidio, situata nell’attuale Via Vernazza, (fu dapprima inglobata nei vicini palazzi e infine demolita con lo sterro del colle e l’ampliamento di Piazza De Ferrari dopo il 1892) fino alla Porta Aurea e si congiungeva nell’odierna Piazza Corvetto con la Porta dell’Acquasola.
Le Mura s’inerpicavano nei terreni oggi occupati dal Museo Chiossone nella Villetta Di Negro, dove raggiungevano all’altezza della Torre di Luccoli il punto più alto, scendevano lungo l’attuale Salita delle Battistine. Qui quelle visibili ancora oggi appartengono al bastione cinquecentesco di Santa Caterina.
Nel 1926, nel tratto iniziale della salita durante i lavori di ampliamento della galleria Portello/Corvetto, venne rintracciato un varco archiacuto risalente appunto al XII sec.
Dal Portello si saliva lungo l’attuale Salita Inferiore di San Gerolamo fino a raggiungere il Castelletto, oggi Piazza Villa.
La cinta era dunque costituita da tre principali porte munite di poderose torri: Porta Superana o di S. Andrea (Piano di S. Andrea), Porta Aurea (Piccapietra), Porta Sottana, dei Vacca o di S. Fede (Darsena).
Esistevano anche tre porte minori fornite di torretta: Portello (Piazza del Portello), Pastorezza (Largo della Zecca) e S. Agnese (Nunziata) e, infine, di due varchi minori Castello o S. Croce, (Sarzano dalla chiesa di S. Croce) e Murtedi (Largo Lanfranco, S. Caterina), privi di torrioni.
Dalla Porta Soprana la nuova cinta muraria ampliava notevolmente la porzione di città racchiusa in essa, rispetto a quella precedente del X sec. più che duplicata racchiudendo un territorio di 55 ettari.
Il risultato fu più che soddisfacente e legittimo l’orgoglio dei genovesi per l’impresa compiuta. Tanto è vero che ancora Caffaro annotò: “l’impeto di tutta Italia e Alemagna, purché non fosse contrario Iddio, non vi avrebbe dischiuso un passo”.
In Copertina: un tratto delle Mura del Barbarossa sul Ponte di Carignano nei pressi di Sarzano. Foto dell’autore.
Nell’anno del Signore 711 Prospero Arcivescovo di Tarragona con il suo seguito fu costretto a fuggire dalla sua terra d’origine a causa dell’invasione araba che stava interessando tutta la regione.
L’alto prelato spagnolo portò con sé le ceneri di quello che era stato il primo Vescovo della sua città: San Fruttuoso.
Secondo la tradizione infatti, un angelo guidò i fuggiaschi fino a Camogli, in Liguria, ove trovarono riparo in un’insenatura; la grotta, nascosta dalla vegetazione e ricca d’acqua grazie alla presenza di una sorgente, fu scelta quale dimora dalla piccola comunità che vi edificò una chiesuola.
Prospero morì alcuni anni dopo proprio a Camogli, secondo la leggenda esattamente nel luogo ove nel XIX secolo fu edificato il grande monastero a lui dedicato.
I resti dell’antica chiesetta sarebbero stati individuati nella piccola località di Chiesa Vecchia, sulle alture del borgo ligure.
Nella basilica dell’Assunta è invece conservato uno strepitoso reliquiario cinquecentesco che ospitava le ceneri del santo.
Nelle varie cappelle della chiesa sono custodite numerose opere d’arte. Meritano menzione fra le altre; il Crocifisso con i santi Prospero e Caterina d’Alessandria e la pala d’altare raffigurante la scena della celebre Pesca miracolosa con San Pietro e San Fortunato (sopra le reliquie del santo), entrambe di Bernardo Castello; la pala con la Vergine col Bambino, Santa Caterina e San Giovanni, di Domenico Fiasella; le statue dei santi Pietro e Paolo di Francesco Schiaffino.
Ma nella penombra dell’altare intitolato a San Prospero colpisce la purpurea quinta della teca che fa da sfondo ad un capolavoro di alta oreficeria. Si tratta appunto del prezioso reliquiario argenteo realizzato nel 1514 dal maestro orafo di Albenga Domenico De Ferrari per accogliere i resti del santo.