Storia di un amore mendace…

… di un testimone altolocato, anzi… forse due..
In quel tempo un giovane gentiluomo faceva la corte ad una bella damigella.
Le sue intenzioni non erano serie, voleva solo godere delle sue grazie e, per questo, non mancò di ingannarla.
Nella pubblica piazza, sotto un Crocifisso, il giovane promise alla fanciulla che l’avrebbe sposata e così ottenne in anticipo quanto anelato.
Il Nobile si rifiutò di mantenere fede alla promessa fatta e venne quindi dalla damigella denunciato.
Non avendo ella testimoni dell’accaduto, il Giudice si era convinto di rigettarne la querela, quando questa si ricordò che i giuramenti erano stati fatti alla presenza del crocifisso.
Implorò che lo prendessero a testimone della verità e che fosse ascoltato dai giudici.
Il crocifisso, ovviamente, non rispose alle domande ma abbassò la testa in segno affermativo alle rimostranze della ragazza.
Per l’inesperto Don Giovanni non ci fu scampo, i giudici proclamarono le nozze per il giorno stesso e, forse, i novelli sposi vissero felici e contenti.
Il Crocifisso ligneo della leggenda si trova oggi vicino all’altare maggiore della Chiesa di S. Maria in Castello.

img_20160513_104214
“Il Cristo Moro nella versione barocca”.

Nel ‘600 venne addobbato con decorazioni barocche e dotato di barba e capelli veri.
Nel 1974, in occasione di un restauro, la Sovrintendenza si è accorta che, sotto quegli orpelli, si nascondeva un Cristo Moro, databile al tempo della prima crociata, quindi ben più antico rispetto all’epoca fino ad allora creduta, il ‘600.
Probabilmente questo Crocifisso, in origine rivestito di argento e portato dai genovesi nel 1095 era custodito in una cappelletta sottostante il limitrofo complesso di San Silvestro. Ne è stata realizzata una fedele copia riaddobbata come nel ‘600 e custodita nella teca di una cappella poco distante dall’originale.

In questo modo ognuno, in particolare le donzelle in cerca di marito, può venerare il crocifisso che più gli aggrada.

All’interno della vicina chiesa oggi scomparsa di Santa Croce, fulcro della comunità lucchese in città, era invece venerato un simulacro di un altro crocifisso legato al culto del “Volto Santo”,  tanto caro ai toscani, oggi conservato nella cattedrale di San Martino di Lucca.

Link utili:

Santa Maria di Castello

Storia di un Imperatore ligure…

… antesignano del commercio e dell’avarizia genovese.
Publio Elvio “Pertinace” così chiamato per la sua tenacia nel continuare i commerci paterni, nacque ad Alba Pompeia (odierna Alba in Piemonte), secondo altri storici invece, probabilmente, a Vada Sabatia (Vado Ligure).
In ogni caso (Liguria o Piemonte che sia) nella Regio amministrativa IX Liguria.
Terminati gli studi classici si dedicò alla carriera militare prestando servizio prima in Siria, poi in Britannia, quindi in Germania, Dacia e Nord Europa.
Al seguito di Marco Aurelio (l’imperatore del film “il Gladiatore” si distinse come valente generale e venne nominato console, successivamente promosso a governatore della Siria e, infine, senatore.
Alla morte di Marco Aurelio continuò il suo operato, fedele al nuovo imperatore Commodo, il quale, prima lo inviò in Britannia a sedare rivolte, poi lo nominò proconsole d’Africa e, infine, lo proclamò prefetto.
A sessantasei anni, deceduto Commodo, assassinato dai congiurati, Pertinace venne acclamato imperatore.
Gli storici del tempo così lo descrivono:”… era un vecchio dall’aspetto venerando, con barba lunga e capelli crespi, un po’ panciuto, anche se la sua alta statura gli conferiva un aspetto veramente imperiale.”
Da buon ligure in soli tre mesi, tanto durò il suo regno (a sua volta assassinato dai militari), riorganizzò e risanò il pubblico erario.
Ancora raccontano di lui:”… Poteva sembrare cordiale, ma di fatto era tutt’altro che generoso, anzi era tanto spilorcio da offrire ai suoi commensali solo carciofi e mezze lattughe… era tanto sobrio nello spendere quanto avido di guadagno… anche da imperatore continuò, tramite i suoi incaricati, a commerciare lana e legname… come privato cittadino venne accusato di aver ampliato troppo i suoi possedimenti in Liguria, dopo aver oppresso e praticato l’usura sui piccoli proprietari.
Come console vendette cariche e congedi militari e trasse profitto da ogni sua attività divenendo, in pochissimo tempo, ricchissimo.
Insomma la nostra attitudine al commercio, “Genuensis ergo mercator” (genovese quindi mercante) diranno nel Medioevo e la nostra proverbiale parsimonia hanno radici molto lontane.

Storia dell’altra Lanterna…

… di un faro che non c’è più … ormai dimenticato…
Nel 1324 i “Salvatores portus et moduli” deliberano la costruzione di una nuova torre destinata a presidiare il lato levantino del porto.
È tempo dunque che madre Genova partorisca e che la Lanterna abbia una sorella.
Viene posizionata nella zona degli attuali Magazzini del Cotone, davanti al Baluardo e alla Malapaga.
Il suo nome deriva dal fatto che, quello di S.Marco al Molo, il quartiere dove viene eretta, è la zona dove i mercanti greci avevano le loro abitazioni e vi gestivano traffici e merci.
Per circa 300 anni la Torre dei Greci ha coadiuvato la Lanterna nel difficile compito di proteggere il porto e difendere la città.

torre-dei-greci
“La Torre dei Greci” dettaglio del 1520 circa…

Nel ‘600, in seguito ai lavori resisi necessari per l’ampliamento del Molo, è stata demolita.
Di tutto ciò resta solo il prezioso ricordo testimoniato da numerose “vedute” di quadri, stampe e incisioni, come quella qui rappresentata del 1520.

In copertina dettaglio del quadro di Cristoforo Grassi del 1597. La tela rappresenta il ritorno della flotta dalla spedizione di Otranto del 1481, avvenuta l’anno successivo.

Storia di leggende… seconda parte…

misteri… e fantasmi… seconda parte…
Si aggira in Via di Francia chiedendo l’elemosina e inveendo contro chi non lo accontenta, per poi sparire nel nulla, lo spettro del “Monaco errante”.
Meno aggressivi sono invece gli spiritelli che infestano, scambiandosi effusioni e bisbigli amorosi, i parchi di Villa Piantelli nei pressi dello stadio Luigi Ferraris lato distinti, o quelli di Villa Saluzzo Bombrini, detta “Il Paradiso” (nella quale alloggiarono due grandi poeti Byron e De André).
Come non ricordare poi la vicenda di Forte Sperone dove, nel corso di una seduta medianica, si qualificò lo spirito di un assassino reo confesso di aver trucidato un’innocente.
In seguito a ricerche di archivio si accertò che lì, circa duecento anni prima, effettivamente era stata uccisa una giovane pastorella.
In San Donato si trascina invece l’anima senza requie di Stefano Raggi che nel ‘600, ricercato per aver cospirato contro la Repubblica, cercò salvezza nascondendosi nel campanile dell’omonima chiesa.
Catturato dalle guardie e rinchiuso nella Torre Grimaldina si suicidò con un pugnale procuratogli da una guardia, celato dentro ad un crocifisso.
In molti affermano di averlo visto nelle sere autunnali camminare a passo svelto, avvolto in una tunica rosso porpora, proprio nelle vicinanze della chiesa stessa.
E che dire poi del mio fantasma preferito, quel Branca Doria colpevole di aver assassinato il suocero per impadronirsi dei suoi beni e collocato da Dante, ancor vivo all’inferno?

La sua anima inquieta si aggira furtiva fra le colonne e i palazzi di Piazza S. Matteo, in attesa di infilarsi in chiesa e di sparire, dopo essersi appoggiata con le mani insanguinate alla colonna che, ancora oggi, ne testimonia il violento passaggio.
Anche le vicende di altri traditori e i delitti d’amore meritano menzione ma, queste sono altre storie….
Fine seconda parte… continua

Storia di un Canto…

… e di due fieri artisti e patrioti genovesi …
I simboli hanno la funzione di sintetizzare valori, ideali e sentimenti condivisi.
L’Inno, anzi “Il Canto degli Italiani” meglio noto come “Fratelli d’Italia”, appartiene a questa dimensione.
mameli
“Ritratto di Goffredo Mameli”.

Composto e musicato nell’ambito dei movimenti risorgimentali, nell’autunno del 1847 da una coppia di giovani patrioti genovesi, Goffredo Mameli testo e Michele Novaro musica.
Fra i tanti canti del tempo, è stato scelto perché, a differenza di altre liriche, meglio interpretava il “comune sentire”, voglioso di libertà e indipendenza dall’oppressore straniero.
Criticato perché troppo aulico nel testo e superficiale nelle note è, dal 1946, inno ufficiale della neonata Repubblica italiana.
Il 10 dicembre 1847 circa 30000 patrioti si riunirono a Genova per celebrarne l’anniversario della cacciata austriaca.

Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta,
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

(Evviva l’Italia
Dal sonno s’è desta
Dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa
Dov’è la vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò).


In quell’occasione, sul sagrato del Santuario di Nostra di Oregina (da cui prende il nome il quartiere, appunto intitolato alla Madonna Regina della città), davanti ad una moltitudine di patrioti provenienti da ogni angolo della penisola, venne per la prima volta eseguito pubblicamente l’Inno.
Michele Novaro morirà sessantasettenne povero e dimenticato da tutti ma non dai suoi allievi che, riconoscenti al Maestro, raccoglieranno la somma necessaria per edificargli un degno monumento funebre nel Cimitero di Staglieno, vicino a quello dell’amico Giuseppe Mazzini.
Goffredo Mameli invece spirerà nel 1849, a soli ventidue anni, difendendo Roma, dove oggi è ancora sepolto, dall’assalto francese e portando alto il Tricolore perché non cadesse in mano nemica…


“Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò, Si!”

Storia di un superbo figlio della Superba…

… uomo di profonda cultura… e di grande coraggio…
Nacque a Genova nello stesso giorno di Giuseppe Mazzini (le coincidenze della vita) del quale diverrà amico fraterno.
A soli venti anni si laureò in legge e collaborò in uno studio notarile.
L’ascesa fu rapida e, in breve tempo, divenne vice presidente del tribunale della Prefettura.
Ma Jacopo era un giovane dagli alti ideali e, profondamente insoddisfatto, si iscrisse alla facoltà di medicina, disciplina nella quale, con l’aiuto di Giacomo Mazzini, padre di Giuseppe, conseguì la laurea a 25 anni.
Fu in questo periodo che, insieme al fratello Giovanni, aderì alla Carboneria e iniziò a frequentare l’armatore Raffaele Rubattino e il poeta Gian Carlo Di Negro.
Anima della Giovine Italia si distinse sia nel ruolo di medico al Pammatone che di cospiratore nei salotti cittadini.

Scoperto dalla Polizia Sabauda, grazie a due delatori, il progetto insurrezionale di Genova di cui fu a capo, la notte del 13 maggio 1833, Jacopo venne arrestato e condotto nel carcere della Torre Grimaldina.
  
Qui, interrogato al fine di rivelare il nome dei suoi compagni d’avventura, subì un mese di violenze d’ogni sorta sulle quali, per decenza e rispetto, non mi dilungo.
La mattina del 19 giugno venne trovato morto suicida con la gola recisa con una lama che si era procurato tramite un carceriere.
Sulla parete della sua cella è ancora oggi leggibile, scritta con il sangue del patriota e impressa nell’eternità, la frase: “Ecco la risposta: lascio la vendetta ai miei fratelli!”
Nella Torre Grimaldina, in onore del Grande Genovese, a riconoscimento del suo estremo sacrificio, è stata posta una lapide che recita: “Consacrò queste carceri il sangue di Jacopo Ruffini
mortovi per la fede italiana -1833”

Storia di un melograno…

… di una leggenda… e di una profezia..

In Piazza Campetto al Civ 2, oggi sede di un grande magazzino, si trova il Palazzo Casareto De Mari, meglio noto come del Melograno.

“Il Melograno”. Foto di Nino Nicolini.

Commissionato dalla famiglia Imperiale all’architetto Bartolomeo Bianco nel 1586 è passato nei secoli nelle mani dei Sauli prima, dei De Mari poi e, dei Casareto infine.
Al suo interno possiamo ammirare, fra le tante opere d’arte in esso custodite, un Pregadio di Bernardo Schiaffino e una statua di Ercole di Filippo Parodi, oltre ad affreschi, purtroppo in gran parte andati perduti, di Domenico Piola.
Intorno all’etimo di questa dimora patrizia sono sorte nei secoli diverse leggende:
La prima narra l’episodio secondo il quale un De Mari avrebbe vinto il palazzo al gioco puntando tutti i suoi averi proprio sulla carta del melograno.
La seconda invece, più intrigante, racconta di un seme di melograno trasportato, quattrocento anni fa, da un vento di tramontana e germogliato sul timpano del portale del palazzo.
La pianta ha superato indenne guerre, rivolte e bombardamenti…
e, ancora oggi, fiorisce e gode di ottima salute.
Per noi Genovesi è intoccabile anche perché la sua sopravvivenza è legata ad una profezia che ha vaticinato, con la scomparsa del melograno, la fine della Superba.

Storia… di una famiglia di marinai…

… e dell’ultima delle vigne…
Come testimonia il toponimo stesso di S. Maria delle Vigne, la zona, anticamente, era adibita alla coltivazione della vite.
Era usanza diffusa infatti conservarne tralci sulle terrazze come prova del benessere familiare.
Se si eccettua il quartiere del Carmine 
l’ultima vite rimasta nel centro storico è quella che si arrampica in Piazza dei Leccavela, vicino ai SS. Cosma e Damiano.
La Piazza prende il nome dalla prestigiosa famiglia di marittimi Genovesi, il cui simbolo araldico raffigurava tre vele triangolari, che in quel tempo qui, avevano le loro dimore.

Storia di due straordinari…

benefattori nostrani… di tre ospedali… anzi quattro… di due palazzi… un museo… tre moli… di duecentododici appartamenti…

duchessa galliera
“La Statua della Duchessa Maria Brignole Sale del 1898, opera di Giulio Monteverde, posta nel cortile esterno dell’ospedale.”

Già il marchese Raffaele De Ferrari, Duca di Galliera e Principe di Lucedio si era distinto per aver fondato le case operaie (tre casermoni in Via Venezia e Lagaccio, duocentododici  appartamenti in tutto), per aver dato impulso all’Accademia Ligustica di belle arti e, soprattutto, per aver contribuito in maniera determinante (20 milioni di lire, una cifra impronunciabile per l’epoca) alle opere di ammodernamento del porto, resesi necessarie per rimanere competitivi (fra le altre i moli Galliera, Giano e Lucedio).
Così la moglie, la Duchessa Maria Brignole Sale, rimasta vedova nel 1876, non volle essere da meno donando alla città la dimora di sua proprietà il celebre Palazzo Rosso e lasciando in eredità anche il Palazzo Bianco, al fine di costituire l’embrione del polo museale di Strada Nuova, oggi Via Garibaldi.

La nobildonna finanziò anche la costruzione dell’ospedale San Raffaele di Coronata, quello di San Filippo (intitolato al terzogenito) presso San Bartolomeo degli Armeni e infine il S. Andrea (in nome del secondogenito scomparso prematuramente) sorto sul preesistente monastero delle Clarisse, presso le Mura di Santa Chiara, a tutti noto come il Galliera.

galliera
“Ospedale di S. Andrea, al centro dietro alla statua, il Galliera, in fondo a sinistra il padiglione pediatrico  San Filippo. (che ha ereditato il titolo dall’omonimo ospedale di San Bartolomeo degli Armeni)”.

I lavori iniziati nel 1878 terminarono giusto in tempo, dieci anni dopo, prima della scomparsa della Duchessa.
Gli ospedali di San Filippo e S. Andrea comunemente identificati con il nome generico di Galliera, costituiscono ancora oggi il secondo ricovero cittadino.

Statua del Marchese Raffaele De Ferrari, Duca di Galliera, opera di Giulio Monteverde nel 1896, dell'originaria collocazione in Piazza Principe. Poi trasferito in Piazza Fanti d'Italia... Ora restaurato in attesa di collocazione giace nei depositi comunali di San Quirico." Cartolina tratta dalla "Collezione di Stefano Finauri".
Statua del Marchese Raffaele De Ferrari, Duca di Galliera, opera di Giulio Monteverde nel 1896, dell’originaria collocazione in Piazza Principe. Poi trasferito in Piazza Fanti d’Italia… Ora restaurato in attesa di collocazione giace nei depositi comunali di San Quirico.” Cartolina tratta dalla “Collezione di Stefano Finauri”.

Ma le opere della nobildonna non si fermarono qui perché a Meudon, vicino Parigi, istituì un orfanotrofio e un dormitorio per anziani, tuttora perfettamente attivi.
I palazzi parigini della Casata sono tra i più prestigiosi che si possano ammirare: le Palais Galliera ospita il Museo della moda mentre l’Hôtel Matignon è la sede del primo ministro francese.
Per questo Genova ha dedicato a questi due straordinari benefattori ospedali, musei, statue e moli, oltre che dal 1877, la principale Piazza cittadina.

 

 

 

 

 

Storia di Ospedali…

… di balestrieri… di benefattori e di ribelli…
Nel quartiere di Portoria, nella zona di Piccapietra sorgeva, fin dal ‘400, il più antico ospedale cittadino (se si eccettuano quelli collegati alle Crociate) del Medioevo, l’ospedale di Pammatone.
Proprio in uno dei luoghi dove un tempo (Pamathlon significa palestra) si esercitavano i gloriosi Balestrieri della Repubblica (l‘altro era il Vastato presso la Nunziata), il notaio Bartolomeo Bosco acquistò alcuni immobili ed eresse il ricovero, prima quello femminile, poi quello maschile.
In pochi decenni, anche grazie ad altri lasciti, la struttura s’ingrandì fino a diventare il principale ospedale cittadino e ad inglobare, ad inizio ‘500 il Ridotto degli infermi, che poi sarebbe diventato l’ospedale degli Incurabili di Ettore Vernazza, fra i primi esempi in Europa di assistenza a pazienti cronici, dove fra l’altro, prestò la sua opera S. Caterina Fieschi Adorno.
Nel ‘700 l’edificio, grazie al contributo dei marchesi Pallavicini, venne ingrandito (venne demolita anche la confinante abitazione presso l’Olivella di Domenico Colombo, padre dell’ammiraglio) e arricchito del porticato che, tuttora, risulta inglobato nel moderno Palazzo di Giustizia.

"Pamattone".
“Pammatone”.

Nel luogo esatto, proprio davanti a Pammatone dove avvenne l’episodio del mortaio del 5 dicembre 1746 venne posta, in ricordo della celebre rivolta, la statua del Balilla.
L’ospedale continuò la sua attività fino ad inizio ‘900 quando la struttura di San Martino ne raccolse l’eredità come testimonia la maggior parte delle statue dei suoi benefattori, sparse lungo i viali del nuovo nosocomio.
Dopo essere stata sede della Facoltà di Economia e Commercio Pammatone fu gravemente danneggiato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Nel quadro della risistemazione della zona di Piccapietra fu definitivamente demolito a cavallo degli anni ’60 e ’70.
In suo ricordo rimangono, all’interno del moderno Palazzo di Giustizia lo scalone di accesso, il colonnato e alcune statue di benefattori.
Fuori Perasso, oggi come allora, è pronto a scagliare il suo sasso… “Che l’inse”.

In Copertina: Dipinto del XVII secolo del pittore fiammingo Cornelis de Wael raffigurante la “festa del Perdono” ambientata negli spazi dell’Ospedale di Pammatone. Genova, Musei di Strada Nuova – Palazzo Bianco