Il 1522, come ricordato in apposito racconto, è l’anno del terribile Sacco di Genova.
Ciò non impedisce ai bigotti reggitori del Governo di occuparsi di frivole facezie come quella di proibire la canzone popolare, probabilmente di origine provenzale, detta del “Balaridone”.
Ecco il goliardico testo:
SI TROVASSE UNA DONNA,
CHE MI VOLESSE AMARE,
E POI VOLESSE FARE
CON MI LA PAVANELLA.…
ALHOR PER LA MIA PATRONA
IO LA VORREI CHIAMARE
E POI CON LEI CANTARE:
DE TOCA LA CANELLA
O DOLCE PASTORELLA
OYME’, CHE l’E’ PUR BELLA
DA FAR BALARIDON
DOGHE ( don) DOGHE ( don).
Così recita il decreto di messa al bando:
“La maledetta canzone de Balaridone, quale contamina la mente non solum de’ secolar de’ religiosi, cosci homini come done, che la odeno, soto pena di multa o fustigazione.
E se saranno puti, li saranno date tante patte”.
A Genova con la parola “Albergo” si identificava una consorteria nobiliare.
La nascita di tale istituto prese spunto dalla Compagna e curava gli interessi dei nobili.
Di contro i popolani costituirono le loro forme associative, chiamandole “Conestagie”.
Il primo esempio di Albergo risale al 1346 ed è quello della Maona (che in arabo significa “indennizzo”) dei Giustiniani.
Numerose famiglie signorili si riunirono allora sotto un unico cognome, formando una sorta di clan, il cui pretesto era raccogliere investimenti e risorse per conquistare territori da cedere poi, previo compenso, alla Repubblica.
Nel ‘400 gli Alberghi aumentarono il loro raggio d’azione assumendo anche rilevanza politica.
Nel 1528 Andrea Doria diede loro pieno riconoscimento giuridico e ratificò la tradizione di rinunciare al proprio cognome a favore di quello dell’Albergo prescelto.
La riforma dell’ammiraglio ne limitò il numero a ventiquattro:
Calvi, Cattaneo, Centurione, Cibo, Cicala, Doria, Fieschi, Gentile, Grillo, Grimaldi, Imperiale, Interiano, Lercari, Lomellino, De Marini, Di Negro, Negrone, Pallavicino, Pinelli, Salvaghi, Spinola, Usodimare e Vivaldi.
A queste famiglie dalla nobiltà di origine feudale si aggiunse la ventiquattresima di provenienza popolare, i De Fornari.
Nei decenni successivi si unirono, portando il numero a ventotto, altre quattro casate popolari:
Giustiniani, Promontori, Sauli e De Franchi.
Già nel 1576 una nuova riforma, di fatto, ne decretò la fine, limitandone l’autonomia politica e imprenditoriale.
In sostanza con la scomparsa degli Alberghi cessò, in favore di quella bancaria e finanziaria, la componente commerciale e mercantile che così ricca aveva reso Genova.
Nel ‘600 i nobili Genovesi scelsero una nuova forma associativa più consona alle nuove esigenze iscrivendosi nel “Libro d’oro”.
Libro che, con la Costituzione della Repubblica democratica incoraggiata da Napoleone, venne bruciato pubblicamente come vituperato simbolo del secolare potere oligarchico.
A proposito di Paganini, cui la Chiesa negò funerale e sepoltura perché convinta che avesse stipulato un patto con il Diavolo per primeggiare nella sua arte…..
Il celebre compositore rifiutò, dopo un’esibizione davanti a Carlo Felice a Torino il bis, pronunziando la famosa frase ancor oggi intesa come espressione di arroganza.
Fu per questo espulso dal Regno e tutte le sue future date, annullate.
In realtà il violinista intendeva dire che, essendo lui un virtuoso dell’improvvisazione, sarebbe stato impossibile riprodurre l’esibizione precedente.
Vico Gattamora dove è nato questo genio delle corde non esiste più, demolito e asfaltato dalla cementificazione che ha prodotto il Centro Direzionale dei Liguri (dopo soli quarant’anni già fatiscente), in luogo dei millenari quartieri della Marina e della Madre di Dio…..
Come recita una lapide (sul modello delle colonne infami) voluta dagli abitanti del Centro Storico, ad eterno ricordo dello scempio perpetrato:
“Non ci sarà mai più un secondo Paganini”.
Franz Liszt.
In Copertina: Locandina dell’esibizione di Paganini al Covent Garden di Londra.
Nel 1637, alla presenza dell’ Arcivescovo, presso la Cattedrale di S. Lorenzo, viene officiata solenne funzione a seguito della quale il Doge consegna alla Madonna i simboli del Potere (corona, scettro e croce degli Zaccaria).
La nuova cinta muraria viene dotata, presso le principali porte, di statue raffiguranti la Regina e il motto “posuerunt me custodem”.
Certo Genova, fin dal XII sec, aveva un forte legame con la Madre di Gesù per via dell’intercessione di S. Bernardino durante la guerra con Pisa, divenendo una delle prime città a professare il culto mariano.
Inoltre, nel corso dei secoli, il popolo aveva spesso invocato e attribuito la salvezza della città, in situazioni disperate, all’intervento ultraterreno.
I motivi però di tale scelta sono ulteriore testimonianza della lungimiranza e dell’astuzia dei nostri avi.
La Repubblica di Genova infatti, con l’espandersi delle Monarchie (francese, inglese e spagnola) rischiava di perdere i suoi antichi privilegi quali, ad esempio, il diritto di precedenza assoluta in qualsiasi Ambasciata.
Con questo geniale escamotage i Padri del Comune mantennero e rafforzarono questo privilegio.
Chi, nell’Europa Cattolica e Cristiana avrebbe mai potuto vantare titoli e prestigio superiori alla Madonna?
Chi avrebbe mai potuto impossessarsi per via ereditaria o matrimoniale della Repubblica?
Da allora e fino alla fine della gloriosa Repubblica, il grido di guerra ” Pe Zena e pe San Zorzo” fu sostituito dal “Viva Maria”.
In Copertina: la statua della Madonna Regina di Bernardo Carlone. Originariamente sormontata la Porta della Lanterna. Oggi è custodita nell’atrio di palazzo San Giorgio.
Nell’area dove oggi ci sono Piazza Villa e il celebre Belvedere Montaldo, sorgeva un tempo la maestosa fortezza del Castelletto da cui prende nome l’omonimo quartiere.
Posto in posizione centrale e strategica sulla sommità del Monte Albano fu eretto dai genovesi intorno al 952 d.C. e, successivamente, puntellato con due possenti torri per proteggere la città dal suo interno.
Nel ‘400 il Maresciallo di Francia Boucicault, che aveva in signoria la città, lo rinforzò con imponenti bastioni trasformandolo nella roccaforte della guarnigione francese e in simbolo dell’oppressione straniera.
Fu teatro di numerose sommosse e rivolte fino a quando nel 1528 l’ammiraglio Andrea Doria lo fece, come già avvenuto precedentemente con la Briglia (la fortezza che, ai piedi della Lanterna, controllava l’accesso alla città via mare) radere al suolo.
Furono i Piemontesi nel 1819 ad incaricare il Maggiore Andreis della sua ricostruzione e a rinnovare il simbolo dell’occupazione foresta.
I Sabaudi infatti, sebbene legalmente legittimi padroni della città, vennero sempre mal visti per la loro incapacità nel curarsi delle “cose di mare”.
Così, a seguito della celebre insurrezione del 1849, allorché Genova subì l’ignobile Sacco del La Marmora, il Castelletto venne a quel tempo definitivamente abbattuto.
“… Perché mai nessun foresto oppressor potesse tenere in scacco la Superba”.
Dal Belvedere accarezzando con lo sguardo la creuza di Salita della Torretta si può ancora oggi ammirare, nel muro di contenimento, ciò che resta della poderosa Fortezza.
A differenza di quasi tutte le altre città occidentali Genova non possedeva una piazza principale sede dei poteri pubblici, ma un groviglio di vicoli e piazzette che rappresentavano altrettante delimitate zone di potere delle singole famiglie.
Si formarono così delle libere associazioni di marinai e mercanti con scopo di solidarietà corporativa dette, appunto, Compagne.
In origine furono tre:
1) di Castello da Sarzano a Ravecca 2) di Macagnana da S. Ambrogio a Canneto 3) di Piazzalonga da S. Bernardo e S. Donato a Giustiniani, poi aumentarono a sette;
4) di S. Lorenzo dalla Cattedrale alle zone circostanti 5) della Porta da S. Pietro ai quartieri limitrofi 6) di Sussilia dai macelli alla zona di Banchi 7) di Prè da Fossatello a S. Agnese e, in ultimo, divennero nel 1134, otto, con l’aggiunta di 8) Portanuova da S. Siro alla Maddalena.
Quattro dentro e quattro fuori le Mura.
Ciascuna veniva rappresentata da Consoli che erano ad un tempo giudici, governatori e generali.
Il Caffaro racconta come, probabilmente già da prima ma, certamente dal 1099, queste costrinsero la nobiltà feudale a giurare fedeltà alla Compagna Comunis e ad eleggere la propria dimora all’interno delle mura, dando origine alla nuova organizzazione del libero Comune.
In Copertina: Genova a metà del XV sec.”.
Da notare oltre alla Torre dei Greci, sorella minore della Lanterna a destra dell’ingresso del porto, sul Molo Vecchio, le due torri della Darsena, il castelletto, e la particolare copertura piramidale di S. Lorenzo.
Incisione in legno realizzata nel 1493 dalla bottega di Michael Wolgemut e successivamente colorata a mano.
Per il “Liber Chronicarum” (Cronache di Norimberga) di Hartmann Schedel, stampato a Norimberga il 12 luglio 1493 da Anton Krobergerl.
di un re, di un viaggio… di un Vessillo, il VESSILLO.
Già nel 700 d. C. era presente in città una guarnigione di soldati bizantini che aveva il compito di mantenere le coste libere da scorrerie piratesco musulmane. Erano così ben integrati e accetti nel tessuto sociale cittadino che, quando portavano in processione lo stendardo del loro Santo (S. Giorgio)nell’omonima chiesa, a loro si univa spontaneamente la popolazione. Venerati quindi, da tempi remoti, S. Giorgio e la sua croce, il cui utilizzo è già attestato dal 1096 divennero, dopo le imprese dell’Embriaco nel 1099 simbolo ufficiale della nascente Repubblica.
Nel 1190 Riccardo Cuor di Leone, sovrano d’Inghilterra, chiese ai genovesi navi, marinai, ammiragli e scorte per trasportare il suo esercito a Gerusalemme. Durante la traversata si accorse che musulmani, turchi, spagnoli, francesi e catalani se ne stavano ben alla larga. Incuriosito ne chiese il motivo all’ammiraglio Lercari comandante della spedizione, il quale probabilmente dette una risposta simile a questa: “Vede Vostra Maestà, indicando la Croce di S. Giorgio, tutti sanno che chi osa attaccar battaglia contro un legno difeso da questa insegna, incorrerà in morte certa” (il corpo dei Balestrieri, di cui erano dotate le galee genovesi, incuteva infatti rispetto e terrore in tutti i mari). Il re chiese allora, versando un canone annuale, di poter battere nel Mediterraneo e nel Mar Nero la bandiera genovese, in modo che nessuno osasse attaccar briga. Dopo un paio di secoli, a seguito dei buoni rapporti instauratisi, i genovesi regalarono agli inglesi l’uso della bandiera che, ancora oggi è simbolo dell’Inghilterra, di Londra e della Marina Militare britannica. Questa è la versione tramandata dalla successiva storiografia cinquecentesca (Annali del 1537 del Giustiniani) a scopi propagandistici alla quale si affianca un’altra curiosa aneddotica storiella.
Tale leggenda narra che agli inglesi, i genovesi abbiano venduto anche le spoglie del Santo (un Moro imbalsamato vestito da crociato) e addirittura il drago (un gigantesco coccodrillo del Nilo, animale che in Europa pochi conoscevano, anch’esso imbalsamato).
Storie suggestive e affascinanti ma purtroppo non dimostrabili.
Spesso il confine tra storia e leggenda è labile ma, in questo caso, è facilmente tracciabile. Ad oggi infatti, non esiste alcuna prova che attesti l’esistenza di questo -è il caso di dirlo- sbandierato canone.
Non solo: è inoltre appurato che gli inglesi, come testimoniato dal celebre arazzo di Bayeux (1070/1080) che rappresenta la battaglia di Hastings del 1066 e dalla cronaca della spedizione di conquista di Guglielmo di Poitiers (“Gesta Guillelmi”), usassero ben prima del 1090 la bandiera con croce rossa in campo bianco denominata a quel tempo di San Pietro e solo successivamente di San Giorgio.
È importante infatti precisare che fino al 1242 coesistevano sia la bandiera del Comune (Croce rossa in campo bianco) di San Giorgio, primitivo vessillo di San Pietro, che il vessillo, citato per la prima volta nel 1198, (gonfalone del santo a cavallo che uccide il drago).
Anzi, fino a tale data, il vessillo di San Giorgio era identificato esclusivamente con il gonfalone mentre lo stendardo rosso crociato era associato solo al Comune.
L’associazione del Vessillo di San Giorgio alla rappresentazione della bandiera è quindi posteriore al 1242.
Come detto in altre occasioni, il Vessillo di S. Giorgio inteso come gonfalone veniva dunque consegnato, dopo solenne processione e cerimonia al capitano della Galea ammiraglia (per poter issare la bandiera dovevano salpare minimo cinque navi in assetto da guerra con a bordo almeno venti balestrieri) al grido di battaglia: “PE ZENA E PE SAN ZORZO”(del quale non vi sono tracce scritte ma che viene tramandato oralmente da secoli), con l’impegno di onorarlo in battaglia e di riportarlo a casa, a qualunque costo.
Nonostante le sconfitte, a volte subite in 500 anni di guerre, il VESSILLO è sempre tornato sano e salvo.
Le origini di questo animale si perdono nella notte dei tempi: anticamente infatti custodivano miniere d’oro, oro con il quale costruivano nidi dove covare uova di smeraldo ed erano sacri al Sole.
Nella Roma augustea il Grifone, divenuto protettore dell’Impero, simboleggiava coraggio, forza e vigilanza.
Nel mondo cristiano rappresentava Cristo trionfante sui demoni; metà aquila, metà leone, con orecchie da cavallo il Grifone incarnava la potenza in cielo e la forza in terra.
Quando nel 1248 Genova riuscì a sconfiggere i tedeschi di Federico II e i suoi alleati da terra e i pisani dal mare, rispolverò con orgoglio l’antico stendardo, in vigore dal 1193, del Grifone nell’atto di artigliare l’Aquila (simbolo dell’Impero tedesco) e la Volpe (simbolo di Pisa), unito al motto:
“Griphus ut has angit sic hostes Ianua frangit.
“Come il Grifone artiglia queste, così Genova distrugge i nemici”.
Nel 1580 i Grifoni divennero due, posti a sorreggere lo scudo di S. Giorgio a protezione della città.
Ecco cosa rappresentano i Grifoni per Genova, quasi ottocento anni di storia, orgoglio, coraggio e LIBERTÀ.
di un Principe, di una Regina, di una croce invincibile e di un rostro…
1) In piccolo, sopra la Corona, Giano bifronte principe troiano, leggendario fondatore della città.
2) La Corona, prima simbolo del potere dogale, poi di quello regale della Madonna, eletta nel 1637 Regina di Genova.
3) I Grifoni, adottati nel 1248 allorché i nostri avi sconfissero l’arroganza imperiale tedesca e la spavalderia pisana, significano orgoglio coraggio e libertà.
5) Il rostro a forma di testa di cinghiale di una nave romana rinvenuto nel porto nel ‘600, simbolo dell’antica e gloriosa vocazione marittima della città.
Nello stemma sono quindi riassunti i simboli millenari di un Popolo.
Nell’anno del Signore 1778, un abate polceverasco di nome Bartolomeo Maggiolo, divenne oggetto, in seguito a sospette segnalazioni, di indagine da parte della Curia genovese.
L’Abate infatti, sempliciotto di modi e favella, cominciò improvvisamente a parlar forbito e a comportarsi in maniera anomala.
Fu stabilito, dopo un breve soggiorno all’ospedale dei pazzi, che fosse trasferito nella sua dimora di campagna nei pressi di Murta, nella speranza che il cambiamento d’aria gli fosse di giovamento.
Il religioso, per tutta risposta, cominciò a parlare in tedesco, francese, greco ed ebraico e ad occuparsi con arguzia,di argomenti politici, religiosi e filosofici.
Sentendo “odor di zolfo” la Curia ritenne opportuno inviare due esperti esorcisti ai quali il Maligno si dichiarò con il nome di Asmodeo.
Il diavolo resistette mesi alle sedute dei sacerdoti prendendosi gioco di loro e, addirittura, mettendoli in grave imbarazzo, svelando alcune loro passate malefatte.
Il Diavolo, forte dei suoi successi, fece una profezia, in perfetto latino, secondo la quale affermava che avrebbe ceduto solo “il giorno che non ha notte” e, sempre più sicuro di se, che si sarebbe arreso solo al “custode delle capre”.
Uno dei presenti si ricordò allora che, nel poco distante Monastero della Chiappetta, abitava un frate savonese, tal padre Becco (becco significa “custode delle capre”).
Asmodeo fu condotto nella chiesa del frate e, dopo una lunga lotta, dovette arrendersi e abbandonare il corpo dello stremato Maggiolo.
Era l’8 settembre 1779, il giorno consacrato alla natività di Maria;
il giorno “quae noctem non habet”, che non conosce la tenebra…
Svelato… il diabolico enigma!