Dietro la casa di Colombo, sotto le torri di Porta Soprana, si trova uno degli angoli più apprezzati dai turisti in città: si tratta del Chiostro di S. Andrea, protagonista di romantici scatti fotografici, nell’immaginario collettivo silente testimone della presenza del futuro esploratore.
Pochi sanno però che in precedenza si trovava nella zona occupata dall’attuale Piazza De Ferrari e che se non fosse stato per l’opposizione dell’architetto D’Andrade, sarebbe anch’esso andato distrutto come, qualche decennio dopo, sarebbe accaduto alla casa natale di Niccolò Paganini.
Nel 1905 in occasione dei lavori di ampliamento dell’attuale Via XX Settembre, venne quindi smontato e, in attesa di trovargli nuova locazione, ricoverato in S. Agostino e lì dimenticato fino al 1923 quando, con perizia e passione venne rimontato dallo studioso Angelo De Marchi.
Dell’originario chiostro romanico facente parte del monastero benedettino di S. Andrea resta solo la parte interna, il resto è andato perso nei secoli.
Nel 1810 il Chiostro, venne sbarrato da pesanti grate di ferro per impedirne, visto che nel frattempo il complesso era stato convertito in carcere, l’accesso ai detenuti.
La struttura è a colonne binate con 32 coppie di capitelli e sei colonne per angolo. I capitelli sui lati sud ed ovest sono originali dell’epoca romanica mentre quelli a nord e ad est risalgono al tardo ‘200.
Numerose e singolari sono le sculture che lo adornano, si notano in particolare; un cavaliere accompagnato da una dama con mantello; un pastore, un cane e tre caproni all’interno di una scena bucolica; un contadino che ara il campo con i buoi; un carro trainato da un cavallo e muli che trasportano pesi; un’adorazione dei Magi; Adamo ed Eva; Daniele nella fossa dei leoni; due centauri; diverse figure di angeli; una donna che tiene per le corna un ariete; un mostro che ingoia una colonna, due aquile ad ali spiegate ed un cervo.
Molto significativi e suggestivi ad esempio, perché simili a quello scolpito all’ingresso del portale destro della cattedrale sono, entrando da destra, due cagnolini incisi sulla base delle colonnine ad angolo. Tre cagnolini dormienti concepiti, a guisa di sigla, dai maestri dello scalpello.
Re Luigi XII, occupata Genova nell’aprile del 1507, decise di dotarla di una poderosa fortezza che, insieme a quella del Castelletto, gli avrebbe consentito di tenere in scacco la Superba. Osservando infatti il litorale dal Molo vecchio aveva intuito che, posizionandola ai piedi della Lanterna e fornendola di adeguate artiglierie, avrebbe controllato l’accesso al porto e dominato la città.
Il Sovrano oltre a sottomissione e fedeltà pretese dalla cittadinanza il favoloso esborso di 40000 scudi necessari per l’erezione del “chateau neuf” da posizionarsi sul promontorio di Capo di Faro.
Il progetto iniziale prevedeva una costruzione a pianta quadra di circa 60 passi per lato e l’abbattimento del vecchio Faro. Fortunatamente il Senato genovese, preoccupato per quanto stabilito, donò 200 scudi d’oro al progettista dei lavori, l’ingegner De Spin, affinché rinunciasse allo scellerato proposito di demolizione della Lanterna.
Per iniziare i cantieri giunsero in città, ingaggiati dai francesi, oltre mille operai e numerose maestranze antelamiche provenienti dalla Lombardia.
I lavori furono completati nell’ottobre dell’anno successivo e gli invasori la battezzarono, con l’inquietante appellativo di “Mouvesine de Co’ de fa”. I genovesi invece da subito la identificarono come la Briglia” per simboleggiare l’oppressione nemica o, più semplicemente in ragione della sua collocazione, “Fortezza della Lanterna”.
Così la descrive lo storico Uberto Foglietta: “sporge lungamente nel mare dal quale è quasi tutto bagnato, e col quale si tiene con la terra è separato da lei con un’altra apertura a a terra, e in mezzo vi sino due dirupate grotte, si che per niuna maniera si può accostare ad esso contro la voglia di quelli che tengono lo scoglio”.
Le cortine e i bastioni della Briglia si alzavano a picco sul mare assecondando la morfologia della scogliera. Era ritenuta una delle più imponenti ed inespugnabili fortezze d’Europa, fornita di artiglierie di ultima generazione, sorvegliata agli ordini del comandante Houdetot, da un presidio di 100 arcieri, 150 soldati e 50 bombaroli.
I genovesi, con l’aiuto degli spagnoli, si ribellarono alla dominazione foresta e, sotto la guida del Doge Ottaviano Fregoso, ripresero la città. Iniziò così uno snervante assedio lungo 16 mesi volto a conquistare la rocca e ad espellere definitivamente il contingente nemico. Le artiglierie francesi però risposero colpo su colpo alle batterie genovesi del Molo e di Sampierdarena, rendendo vana ogni speranza di cedimento.
Nonostante il blocco navale imposto dal Doge al fine di impedire i rifornimenti al fortilizio, i transalpini inviarono in soccorso una nave, partita da Marsiglia, carica di vettovaglie e munizioni per le truppe asserragliate.
Il comandante del legno francese nel marzo 1513 tentò di ingannare i genovesi issando il vessillo di S. Giorgio. Una volta giunto a tiro di cannone delle quattro galee poste a difesa dell’ingresso del porto, si aprì un varco a colpi di bombarda riuscendo ad attraccare alla Fortezza.
Se l’azione avesse avuto esito positivo l’assedio dei genovesi sarebbe stato vanificato; ma grazie al coraggio di due capitani Emanuele Cavallo e Andrea Doria che a bordo della loro nave, sfidarono il fuoco di sbarramento della Brigliae riuscirono ad agganciare l’imbarcazione francese, l’epilogo fu ben diverso.
Durante il duro scontro il capitano francese tuffatosi in mare cercando la fuga, venne catturato insieme ad altri 32 marinai e, con essi, imprigionato; sei furono gli impiccati. La nave sequestrata ai nemici fu ancorata nel porticciolo sotto Sarzano.
Andrea Doria, rimasto ferito, per il coraggio dimostrato ebbe onori e rinnovati incarichi, Emanuele Cavallo la riconoscenza del Doge e l’esenzione perpetua dalle tasse per sé e per gli eredi.
La guarnigione francese, nonostante la carenza di provviste, continuò eroicamente la resistenza ad oltranza. In un primo momento si pensò diminare la “Mouvesine” dalle fondamenta, poi di incendiarla, ma entrambi i tentativi ebbero risultati deludenti.
Il 16 marzo 1514 il presidio francese provato dalla fame e abbandonato dalla madrepatria, finalmente si arrese. II Doge, ordinò nonostante le suppliche francesi di risparmiarla, l’atterramento della Briglia. All’ingente spesa preventivata per l’abbattimento della Fortezza contribuì personalmente in maniera significativa Fregoso stesso. Allo spettacolo della demolizione affidata agli artificieri e ai maestri antelami, assistettero nobili e principi giunti da tutta Italia.
Oltre alla Briglia purtroppo anche la torre del Faro era rimasta gravemente danneggiata e solo nel 1543 i Padri del Comune deliberarono di ripristinarla.
La Lanterna venne restaurata utilizzando sia pietre provenienti dalla cava di Carignano, magistralmente lavorate dai “piccapietra” dell’omonimo quartiere, che i resti della Fortezza e, a lavori ultimati, elevata all’attuale altezza di 117 metri dal livello del mare. Venne decorata all’esterno sul prospetto orientale con il fregio del Comune (S. Giorgio e i Grifoni) dipinto dal maestro Evangelista da Milano.
Al suo interno a metà delle scale venne postala famosa lapide scritta, a celebrazione della definitiva libertà conquistata poi nel 1528 ad opera di Andrea Doria, dal letterato e annalista Jacopo Bonfadio:
“Anno della nascita di Cristo 1543, e quindicesimo della restituita libertà; Pietro Gio Battista Lercari e Luciano Spinola, Padri del Comune, riedificarono questa Torreche i nostri padri avevano costruita e che rimase distrutta nel1512dai proiettili, nell’assedio della rocca della Lanterna”.
Nel 1626 la Lanterna divenne il fulcro e parte integrante del nuovo progetto delle Mura Nuove terminate nel 1639, l’ultima cinta muraria della città.
Sul finire del ‘200 i rapporti fra le due monarchie si erano inaspriti per via delle rivalità sorte fra i Normanni, nuovi sudditi francesi e i marinai spagnoli di Baiona, al servizio del Regno d’oltre Manica. I Francesi, imparentatisi con i regni del nord (Danimarca e Norvegia), confidavano nell’aiuto di quest’ultimi per sconfiggere i nemici ma, a causa dello scoppio di una guerra, costoro furono costretti a rivolgersi ai genovesi, signori del Mediterraneo, per fronteggiare gli inglesi nell’Atlantico. Come in passato già aveva fatto Luigi il Santo al tempo delle sue crociate, conferendo per la prima volta il titolo di ammiraglio di Francia ad Ugo Lercari e Guglielmo da Levanto e a Guglielmo Boccanegra la costruzione del porto di Aigües Mortes, a Filippo il Bello parve scontato ingaggiare Benedetto Zaccaria.
Fu così che sul finire del 1294, per volere del sovrano francese, Benedetto prese il comando della flotta con il titolo di “amiraus géneraus”. Ispezionò i porti e stabilì che questi dovessero essere organizzati come quello di Siviglia.
Stilò un preventivo di spesa molto preciso e documentato per allestire la flotta, ingaggiare i marinai risistemare i porti e formare il personale.
Aumentò la paga mensile degli equipaggi da 35 a 40 soldi perché, parole sue “il soldo dei buoni marinai è guadagnato, quello dei cattivi è perduto”. Impose, per avere più opzioni nell’arruolamento, il divieto di navigazione. In questo modo avrebbe avuto maggiori richieste d’imbarco e più possibilità di scelta. .
Presentò al re un piano d’azione articolato in quattro punti:
1) ordinaria guerra sul mare.
2) saccheggio costante dei porti nemici e rogo di ogni galea conquistata.
3) ovunque possibile, effettuare sbarchi e causare devastazione.
4) rifiuto dello scontro a terra con i nemici finalizzato a risalire rapidamente a bordo per ripetere la stessa aggressione in altro luogo.
Così facendo il nemico, non sapendo quando e dove sarebbe stato attaccato sarebbe stato costretto, a causa della paura, ad aumentare il presidio delle coste con conseguente incremento delle spese per la difesa del litorale. I sudditi, insoddisfatti per l’eccessivo esborso delle tasse necessario per mantenere le armate, si sarebbero ribellati mentre gallesi e scozzesi avrebbero trovato terreno fertile per rinfocolare le loro mire secessioniste. Le richieste del genovese furono esaudite, anzi di gran lunga superate, visto che il monarca armò 57 galee e 223 navi in grado di ospitare a bordo circa 7000 uomini.
Forte dell’alleanza con l’Olanda e con le città basche, 500 anni prima di Napoleone, Benedetto replicò in grande quanto realizato contro Pisa , mise in atto il blocco continentale alla perfida Albione, ma l’isola riuscì a sopravvivere grazie al consolidamento dei canali commerciali con le Fiandre. Benedetto allora si concentrò sugli scali del mare del nord indebolendo la flotta mercantile fiamminga.
Nel frattempo i due stati, stanchi di combattersi, nel 1298 avevano stabilito una tregua e in quel periodo suggellarono matrimoni di stirpe: Edoardo d’Inghilterra impalmò Margherita di Francia e il di lei figlio Edoardo II la sorella di Filippo il Bello.
Costei, Isabella di Francia, fece deporre e assassinare il marito. Edoardo loro erede concorse alla successione del trono di Francia contro Filippo di Valois dando origine alla guerra dei cent’anni.
In questo mutato e complesso contesto il compito di Benedetto non aveva più ragion d’essere quindi, rispettati gli impegni presi con la corona e imposto ai nordici la forza dei genovesi anche sull’Atlantico, nel 1300 si dimise dal ruolo di ammiraglio supremo.
Sarà comunque un suo concittadino Ranieri Grimaldi nel 1304 a portare a termine l’interrotto progetto di ridimensionamento della flotta mercantile fiamminga.
Era giunto il tempo per Benedetto di tornare, ancora una volta, ad occuparsi delle proprie faccende in Oriente.
In quegli anni infatti le orde mongoliche avevano tolto ai musulmani i territori della Siria e l’ammiraglio partì entusiasta per aggregarsi, lieto di riprendere il discorso interrotto in precedenza con l’Egitto. Quando ormai le armate del sultano sembravano sul punto di cadere sconfitte sotto i colpi del Khan Ghazan, questi fu richiamato in patria per soffocare una rivolta intestina e la spedizione fallì miseramente.
I successivi tentativi di organizzare altri interventi furono soffocati sul nascere da papa Bonifacio VIII che temeva che dietro a questi propositi di riconquista si celassero solo gli interessi di singoli individui e non dell’Occidente intero.
Ad aggravare la situazione i veneziani sconfitti da Lamba Doria a Curzola nel 1298, per rivalsa, avevano preso a devastare i domini della Repubblica in oriente, possesso di Focea incluso. Da troppi anni infatti Zaccaria mancava dai suoi feudi e il mare di Bisanzio era tornato ad essere infestato da pirati, turchi e catalani, resisi baldanzosi a causa di un’imbelle marineria greca. Anche i traffici di allume che tanto avevano arricchito Benedetto cominciarono ad essere in pericolo. Il genovese, stanco di aspettare il supporto del re di Costantinopoli, più volte chiamato in causa, decise di farsi giustizia da sé e, con abile colpo di mano, da fine e coraggioso stratega quale era, rinforzò le difese di Focea ed occupò l’isola di Scio.
Riuscì così ad annoverare fra le sue proprietà due dei principali prodotti del levante, oltre all’allume di Focea, ora anche il mastice di cui l’isola era l’unica produttrice. Il mastice era molto apprezzato in oriente per gli elaborati aromatici, per la realizzazione di un liquore e per profumare e candeggiare i denti. In Europa veniva utilizzato invece per rendere le vernici trasparenti e per scopi farmaceutici.
Benedetto aveva conseguito il monopolio dei commerci di allume e mastice, con le sue navi ancorate dal Mediterraneo all’Atlantico aveva mercanteggiato pellami, armi, grano espezie in tutto il mondo. Aveva trattato alla pari con i re, ricoperto le massime cariche militari per conto di Spagna e Francia, ridotto all’impasse gli inglesi, combattuto, sfidato e vinto quasi tutti i popoli del mare, imponendo la legge dei genovesi. A chi gli ricordava le difficoltà che avrebbe incontrato durante le sue battaglie, spesso molto ardite, probabilmente avrà risposto: ”io sono genovese, in mare, sono gli altri a doversi preoccupare di me”.
Ma sicuramente l’impresa di cui, in cuor suo, andava più fiero era la leggendaria vittoria della Meloria sui pisani, occasione in cui aveva reso eterno onore e prestigio alla sua città natale.
Nel 1307, ormai vecchio, stava ancora progettando l’ennesimo viaggio in oriente quando si ammalò gravemente.
Morì nei primi mesi dell’anno successivo a casa sua, a Genova proprio di fronte al porto, con lo sguardo rivolto lontano verso il mare, il suo mare.
Benedetto salpò da Genova il 10 giugno 1288 con le due sole navi avute in dote dalla Repubblica e, sapendo che si sarebbe dovuto confrontare con forze ben maggiori, si diresse subito alla volta di Focea dove ingaggiò altre due navie in otto giorni allestì la sua nave preferita, la “Divizia”.
Davanti al porto di Tripoli, oltre alla flotta della principessa Lucia che rivendicava per ragioni ereditarie il possesso della città, si schierarono la galea del gran maestro dei Templari, una di quello degli Ospitalieri, una del siniscalco del Regno gerosolimitano e un’armata comune allestita da pisani e veneziani.
Il genovese non si scompose, entrò nel porto a gonfie vele pronto a sfidare chiunque e il giorno dopo intimò la resa al contingente nemico che, seppur superiore di numero, non osò opporre resistenza ben conoscendo la forza dello Zaccaria.
Nel nome di S. Giorgio stipulò trattati commerciali privilegiati e accordi vantaggiosi con i rappresentanti della città e ne sottopose la giurisdizione alla Repubblica.
Genova però, non accolse il dono con piacere perché sapeva, come temuto, che ciò gli avrebbe cagionato danni nei rapporti con l’Egitto; quindi non solo non nominò il podestà ma nemmeno inviò soccorso al suo ammiraglio, intendendo così dimostrare la propria estraneità ai fatti.
Zaccaria coinvolse il re del vicino stato confinante di Cipro (interessato a mantenere la zona nell’area d’influenza cristiana) sancendo un accordo sia economico che militare in base al quale la Repubblica si impegnava a fornire una flotta di presidio. Analogo patto mercantile stipulò anche con il monarca d’Armenia.
Il Senato genovese si rifiutò di ratificare tale accordo preferendo scontentare il sovrano di Cipro che non il sultano del Cairo.
Nel frattempo l’Egitto aveva mosso le sue soverchianti forze contro la città ed una coalizione di ciprioti, veneziani e cristiani in genere aveva provato a resistere. Preso atto della disperata situazione i veneti abbandonarono la lotta e Benedetto, temendo che costoro gli portassero via le galee, li seguì a ruota non prima di aver imbarcato più uomini, donne e bambini possibile.
I musulmani presero la città, la razziarono, la rasero al suolo e uccisero tutta la popolazione maschile. Donne e bambini furono ridotti in schiavitù. Benedetto sbarcò a Cipro i superstiti di Tripoli e ribussò vanamente alle porte dei regni cristiani d’Oriente per riprendersi il maltolto. Un aiuto insperato gli giunse solo dalla colonia genovese di Caffa che inviò tre galee. Ben poca cosa per affrontare la potenza egiziana ma, forte del rinforzo ottenuto, per pura rivalsa, attaccò un legno recante le insegne del sultano.
Merci e prigionieri furono condotti a Genova e consegnati come trofeo di guerra. Genova sprofondò nel terrore, come giustificare al principe orientale tale oltraggio? Un’ambasceria guidata da Alberto Spinola fu inviata ad Alessandria per restituire merci e uomini con tanto di umilianti scuse. Fu giurato che nulla mancava al carico e che il danno sarebbe stato risarcito. Il sultano, soddisfatto, rinnovò le convenzioni commerciali e diplomatiche con la Superba.
A partire da quest’episodio in poi Benedetto non godette più della stima di prima da parte dei suoi concittadini ma, per riconoscenza e rispetto dell’impresa della Meloria, nessuno osò proporre l’onta dell’esilio.
Ripulito il Mediterraneo dai pirati, il Bosforo dai corsari, sconfitta Pisa e preso atto che la sua città non poteva o non voleva veramente opporsi all’avanzata saracena dell’Egitto (suo antagonista nel commercio dell’allume) rivolse la sua attenzione alla Spagna dove era stato chiamato per combattere altri saraceni, i temibili marocchini. Costoro infestavano lo stretto di Gibilterra danneggiando i traffici della Castiglia e foraggiando le truppe moresche per la conquista dell’Europa.
Entrò in carica nel 1291 con una formazione di dodici galee con l’obiettivo di contrastare la pericolosa flotta africana. Compito non facile visto che nel 1285 cento navi spagnole si erano ritirate di fronte alle trentasei dell’emiro.
Accortosi che il naviglio nemico era molto più agile e maneggevole del suo e che per questo riusciva a sfuggirgli, apportò una storica modifica, l’introduzione del “terzarolo” cioè del terzo rematore (da qui anche il verbo “interzare dei veneziani”). Questo accorgimento avrebbe compensato la carenza di agilità con una maggiore potenza dinamica.
Benedetto, forte di questa innovazione tattica, fece quello che nessun ammiraglio castigliano fino ad allora aveva anche solo provato ad immaginare: il giorno di S. Sisto, il 6 agosto 1291, sette anni esatti dopo la Meloria, con le sue 12 galee si parò davanti alle 28 saracene remando con la solita andatura in modo da non insospettire i nemici.
Quando le vele marocchine furono a tiro di balestra Benedetto diede ordine di attaccarsi ai remi e, prima che potessero raggiungere la riva africana e sfuggirgli, le raggiunse e ne catturò 12 davanti ad un incredulo e impotente emiro che, da terra, assistette alla disfatta. Gli equipaggi delle rimanenti 16, una volta sbarcati, furono massacrati dai loro stessi compagni in quanto colpevoli dell’umiliazione patita. Le 12 imbarcazioni catturate invece, attraverso il Guadalquivir, furono portate fino a Siviglia come bottino e donate al re Sancio IV di Castiglia. Fu la leggendaria battaglia di Marzamosa che fruttò al genovese la massima delle onorificenze, il titolo di “almirante mayor de la Mar”, alloro conquistato ai danni dei catalani che si tramandavano il titolo da generazioni.
Il sovrano comprese che la sua scelta era contraria al tentativo di forgiare e premiare una stirpe ispanica comune quindi diede l’appalto ai catalani per costruire nuove navi e acquistò quattro delle sette galee del genovese. Inoltre nominò “adelantado mayor de la frontera” un suo fedele connazionale, il comandante Mahte de Luna. Questi prese gradualmente il comando sia delle operazioni terrestri che di quelle marittime di fatto sminuendo il ruolo del genovese. Benedetto non poté, lui figlio di una città in cui la carica di ammiraglio era di gran lunga superiore a quella di qualsiasi comandante terrestre, fare altro che rinunciare all’incarico. Il comandante Mahte de Luna non riuscendo a convincere Benedetto a sottostare alle sue dipendenze lo denunciò come traditore e si impossessò delle quattro navi con i relativi equipaggi.
Le imbarcazioni furono sequestrate ma i marinai si rifiutarono di obbedire, pronti alla morte, agli ordini degli spagnoli. “Prendiamo ordini solo da Benedetto Zaccaria, il vero e unico almirante mayor” dissero i capitani. Per intervento reale Benedetto e i suoi equipaggi furono rilasciati.
Gli spagnoli continueranno la loro guerra contro i Mori senza particolari successi fino a quando un altro genovese Egidio Boccanegra nel 1334 si impossesserà della roccaforte di Algesiras.
Benedetto Zaccaria intanto proseguirà la sua avventura in Francia al servizio di Filippo il Bello per conto del quale sfiderà, prima di far vela nell’olimpo dei signori del mare, i popoli del Nord….
Nel 1282 era scoppiata la guerra che si trascinò per due anni con esito incerto; la vittoria arrideva ora ai genovesi, ora ai pisani. Questi ultimi sembravano in vantaggio, ormai padroni della Sardegna e, a differenza dei liguri lacerati da lotte intestine, uniti e per questo vicini al successo.
Il 5 aprile del 1284 Benedetto Zaccaria issa lo stendardo di S. Giorgio e salpa al comando di 30 galee in assetto da guerra. Il 9 aprile si presenta davanti a Porto pisano provocando i nemici. Inizia a presidiare tutti i collegamenti con Corsica e Sardegna; nel giro di due mesi i convogli mercantili genovesi riprendono a navigare sicuri, mentre quelli pisani non osano uscire dal porto. Il genovese impone ai toscani il blocco commerciale con le isole e con le colonie del Levante e taglia loro i rifornimenti marittimi. I pisani allora tentano di far circolare le proprie merci su imbarcazioni appartenenti a nazioni neutrali come Amalfi, Barcellona e Venezia. Benedetto non chiede di meglio, esperto com’è nella guerra di corsa, in due mesi cattura numerosi vascelli, si impossessa di merci ed equipaggi, rendendo vano anche questo tentativo dei rivali.
Costoro, esasperati, proclamano podestà il veneziano Morosini, nella speranza che ciò serva a guadagnarsi il supporto dei veneti. Venezia invece, fedele ai patti, rimane neutrale e le due repubbliche tirreniche devono sbrigarsela da sole. I toscani giocano il tutto per tutto allestendo una poderosa armata di 65 galee e 11 galeoni, stabiliscono di uscire dal porto di sorpresa e di sterminare la flotta di Benedetto che, nel frattempo, dalla Corsica si preparava ad assediare Sassari in Sardegna. Avvertito del pericolo fa vela verso Genova mentre il Morosini contando di tagliargli la via per il ponente, lo attende vanamente al largo di Albenga. Zaccaria rientra invece per la riviera di levante.
Il 31 luglio i pisani si schierano davanti alla Superba dove ad aspettarli, pronte allo scontro, ci sono 58 galee al comando del capitano del popolo Oberto D’Oria. La sera stessa da Portofino giungono anche le navi dello Zaccaria, sfuggite all’imboscata dei nemici.
Ai pisani, presi in mezzo dalle due flotte, non resta altra scelta che la ritirata verso i propri lidi. La sera del 5 agosto le due flotte genovesi raggiungono i pisani nella loro baia ma Benedetto ha una geniale intuizione, ammaina le vele, nasconde gli stendardi e si mantiene a debita distanza, sparpagliando la flotta qua e là confondendola fra le imbarcazioni di supporto.
La mattina del 6 agosto, giorno di S. Sisto, i pisani credendosi più numerosi e incoraggiati della stanchezza dei rivali provati per l’inseguimento, attaccano battaglia. Quando lo scontro sembrava volgere a favore dei pisani, Benedetto entra in scena puntando direttamente la capitana del Morosini, strappandole lo stendardo. Catturata la nave ammiraglia dei pisani, accerchia i nemici facendone scempio: 7 galee affondate, 33 catturate, alcune migliaia i prigionieri (fra cui Rustichello autore sotto dettatura di Marco Polo del “Milione”), lo stendardo, il sigillo del podestà, il gonfalone del comune, lo strepitoso bottino.
Il 6 agosto 1284 Genova pone fine alle ambizioni marittime dei rivali. Benedetto a ringraziamento per l’epica vittoria dona, acclamato dalla folla festante, un prezioso pallio d’oro alla chiesa di S. Sisto di Via Prè.
L’anno seguente i Padri del Comune progettano di dare il colpo di grazia definitivo ai rivali inviando Oberto Spinola dal mare e sollevando loro contro fiorentini e lucchesi, secolari nemici, da terra. Il tentativo, per ragioni politiche, fallisce miseramente.
I pisani cercano di risollevare la testa imbastendo una guerra di corsa e piccola pirateria obbligando i genovesi a mantenere un manipolo di navi a presidio delle proprie rotte. Benedetto è ancora una volta il prescelto per il comando.
L’ammiraglio avrebbe voluto mettere in piedi però una risoluzione definitiva “Pisa delenda est” ma la Repubblica, comunque provata dalla lunga guerra, si accontenta della semplice supremazia.
Zaccaria è insoddisfatto, inoltre dai suoi feudi in oriente giungono notizie poco rassicuranti. E’ tempo di tornare a Bisanzio e riprendere in mano gli affari di famiglia, i commerci e le sue molteplici attività.
Prima però di congedarsi nel 1287 compie con 6 navi quello che tre anni prima non riuscirono a fare in 65: a bordo della sola “Divizia” viola il porto militare facendosi largo fra le torri di difesa, mentre un suo sottoposto (capitano Nicolino da Petraccio), al timone delle altre 5, entra nel bacino mercantile spezzandone le catene. Catene che furono, fino al 1860, appese alla chiesa di San Lorenzo. Benedetto rimase gravemente ferito durante l’eroico assalto ma in seguito alla sua coraggiosa impresa, impauriti, i pisani siglarono la pace. I patti furono talmente duri per i toscani che questi, non rispettandoli, videro nel 1290 il loro approdo definitivamente distrutto ed interrato ad opera di Corrado D’Oria. Alla stessa maniera le catene conquistate nel 1290 furono esposte sulle principali porte e chiese della Superba
Come a suo tempo auspicato da Benedetto “Pisa delenda est”.
Zaccaria, ristabilitosi dalle ferite e rientrato dall’oriente dove in pochi mesi aveva sistemato le sue faccende private, viene richiamato a Genova.
I successi dello Zaccaria gli procurarono molti onori ma anche parecchie invidie. Le gesta dell’ammiraglio rimbalzavano dal Tirreno a Costantinopoli, così i padri del comune, colsero l’occasione della richiesta di aiuto proveniente da Tripoli, per allontanarlo dal Tirreno dove la sua fama ormai precedeva le sue galee. La colonia del regno latino versava in grave difficoltà oggetto delle mire di varie nazioni; la Repubblica lo nominò Vicario del Comune in Oltremare, affidandogli però due sole galee. La missione era ambigua e rischiosa perché avrebbe potuto risultare invisa agli interessi “in loco” sia dei veneziani che degli egiziani.
in questo modo sia che il suo mandato fosse fallito o riuscito, sarebbe stato facile dimostrare, a seconda dell’occorrenza, l’estraneità della Repubblica e riversare tutta la responsabilità sull’ammiraglio, come se avesse agito per interessi personali e privati, senza compromettere quindi le relazioni diplomatiche del Comune.
Ma Benedetto troppo avvezzo agli intrighi di corte era uomo dalle mille risorse…
In copertina: La Battaglia della Meloria. Illustrazione tratta dalle trecentesche Croniche del lucchese Giovanni Sercambi.
Il mondo intero onora Cristoforo Colombo l’esploratore delle Americhe, molti conoscono Andrea Doria il difensore della cristianità, alcuni ricordano Guglielmo Embriaco il conquistatore di Gerusalemme.
Quasi nessuno, sa di Benedetto Zaccaria, l’eroe della Meloria, eppure questo straordinario personaggio poliedrico merita di essere posto sullo stesso piano dei suoi illustri concittadini; politico, diplomatico, mercante, ammiraglio. Il suo campo d’azione è sbalorditivo da Genova, all’Impero Bizantino, dalla Francia al nord Europa, dalla Castiglia a Tripoli dove, deluso per non essere riuscito a ripristinare l’antica roccaforte genovese, per rappresaglia, sfida e umilia le navi saracene. Al comando della flotta castigliana sconfigge l’invitto stuolo del Marocco, di quella francese devasta la terra di Albione, sotto l’insegna di S. Giorgio distrugge i legni pisani alla Meloria e, sprezzante del pericolo, entra da solo in Portopisano violando lo scalo nemico. Al servizio dei re francesi, 500 anni prima di Napoleone, organizza il blocco continentale ai danni degli inglesi.
Eppure l’esordio non fu dei più promettenti infatti, il giovane Zaccaria, rampollo di una nobile famiglia possidente nella zona De Castro (S. Maria di Castello) nel 1259 ricevette il suo primo incarico dalla Repubblica: la difesa del porto di Tiro in Libano dalle mire nemiche. Fu così che i veneziani si presentarono forti di 24 galee mentre i genovesi ne contavano solo 20, di cui 10 al comando di Benedetto e 10 di un altro ammiraglio: Zaccaria uscì dal porto e affrontò i veneti, mentre il collega, inspiegabilmente rinunciò allo scontro. Catturato dai nemici, impressionati per il coraggio dimostrato, venne incarcerato per mesi e rilasciato solo in cambio della promessa che mai più avrebbe osato affrontare le insegne di S. Marco. Sarà questa l’unica sconfitta della sua gloriosa carriera. Il genovese rimarrà a cercar fortuna in oriente dove, al servizio dell’imperatore di Bisanzio, avrà modo di perfezionare e dimostrare la sua arte marinara.
Le coste vengono ripulite da pirati, corsari, saraceni e da chiunque osi ostacolare i commerci. Con i proventi dei suoi traffici allestisce una flotta in grado sia di trasportare merci che di dar battaglia. La sua galea, la “Divizia” armata come una corazzata, rinforzata nei fianchi, potenziata nelle vele, diviene il terrore del Bosforo. L’imperatore, riconoscente, gli concede in feudo il porto di Focea. Divenuto consigliere e ambasciatore per conto di Bisanzio amplia la produzione e il commercio dell’allume di rocca, prezioso minerale presente sul suo territorio. Questo prodotto serviva ai conciatori di cuoio, a pittori e mosaicisti, ai farmacisti che lo usavano come emostatico ma, soprattutto ai tintori che, come prescritto in appositi statuti lo utilizzavano per fissare e rendere più brillanti i colori sui tessuti (possedeva egli stesso una rinomata tintoria lungo il Bisagno). Il pregiato composto proveniva anche dall’Italia, dal nord Africa, dall’Egitto e dall’Asia Minore ma Benedetto acquistò gran parte delle miniere concorrenti, esercitando un vero e proprio monopolio che ne fece uno degli uomini più ricchi del suo tempo. Ma non era questo il solo commercio in cui il genovese primeggiava: le sue navi caricavano grano e cereali in Ucraina e Bulgaria, sete e pellami in Oriente, vendeva armi, in particolare spade e coltelli, in Corsica acquistava il sale per rivenderlo nel Levante ed essendo questo monopolio di Genova, seppe lucrarvi sopra con delle vere e proprie speculazioni finanziarie. L’unica mercanzia, in quel tempo molto in voga, della quale non v’è invece traccia, è la tratta degli schiavi.
Acquistò un fondaco privato a Caffa, stipulò accordi privilegiati con l’Armenia, Cipro, la Siria, instaurò contatti e avamposti sul Mare di Azov, operò ad Alessandria d’Egitto. Le sue imbarcazioni frequentavano Maiorca, Almeria, Siviglia, Cadice e Ceuta in Spagna, Marsiglia ed Aigues Mortes in Francia, Bruges nelle Fiandre, ovunque ci fosse un lembo di mare c’era una galea del genovese.
Passano gli anni, ormai la fama di Benedetto Zaccaria, non ha più confini. Dopo 25 anni è tempo di ritornare, Genova, nel momento del bisogno, per la resa dei conti con Pisa, l’eterna rivale, si affida al suo più illustre ammiraglio…
La storia della Sardegna affonda le proprie radici in tempi antichissimi, quando ancor prima dell’avvento dei Greci, era nota con il nome di Ichnusa. A me però interessa narrare delle sue vicende a partire dall’epoca medievale quando nel 534 l’isola fu conquistata dal generale bizantino Belisario.
Già dall’VIII sec. i coraggiosi guerrieri dell’impero d’Oriente, nonostante la strenua difesa, non poterono impedirne l’occupazione da parte araba. Soltanto nel 1022 grazie all’aiuto di genovesi e pisani i sardi riuscirono finalmente a liberare la loro terra costringendo gli invasori alla ritirata. Fu così che nel 1175 le due potenti repubbliche si spartirono l’isola: Genova a nord e Pisa a sud.
Per la Superba, se da un lato la Corsica rappresentava un imprescindibile baluardo difensivo, dall’altro la Sardegna significava un territorio da sfruttare. Quest’ultima infattiera fonte di lana, formaggi, sale, grano, ferro e pellame tutti prodotti molto appetibili per gli interessi mercantili dei genovesi. Pisa e Genova non erano le sole a nutrire ambizioni sull’isola infatti, nel 1073 papa Gregorio ne rivendicò la sovranità, unitamente a quelle di Corsica, Spagna e Ungheria minacciando nel 1080 i sardi che, se non si fossero sottomessi alla sua volontà, sarebbero stati ceduti ad una di queste potenze straniere.
Nel XII sec. genovesi e pisani ottennero dalle rispettive Chiese (le arcidiocesi delle due Repubbliche erano potentissime), a parziale indennizzo dell’attività prestata durante le Crociate, importanti tenute agricole e corposi privilegi fiscali quali l’esenzione daziaria.
A quest’epoca risale la ripartizione della Sardegna in quattro giudicati(unità amministrative completamente autonome): Torres o Logudoro, Gallura, Cagliari e Arborea. I genovesi si insediarono a Cagliari e poi a Torres mentre i Pisani occuparono il Logudoro e la Gallura.
A metà del ‘200 anche l’imperatore Federico Barbarossa decise di intromettersi nella questione cercando, a seconda degli alleati del momento, di infeudare il Regno di Sardegna prima a Guelfo VI di Toscana, poi a Barisone d’Arborea e infine al comune di Pisa. Naturalmente i Genovesi non la presero bene e, una volta tramontata la stella degli Hohenstaufen, se ne rimpadronirono sconfiggendo alla Meloria nel 1284 l’eterna rivale.
Nel 1297 papa Bonifacio VIII pose fine alle diatribe attribuendo la sovranità della Sardegna all’Aragona. Le grandi famiglie genovesi, fra le quali gli Spinola e i Doria ne presero atto “obtorto collo” ma per conservare le loro signorie, misero in atto una intelligente strategia; prima che gli spagnoli si impossessassero realmente dell’isola nel 1325, organizzarono numerosi matrimoni misti con la nobiltà locale, tramandandosi così il titolo di Giudice nei vari territori e mantenendo così una certa autonomia.
La famiglia che ne trasse i maggiori vantaggi fu quella dei Doria che a partire da Andrea (solo un antenato omonimo del celebre ammiraglio) fu sempre presente nell’amministrazione dell’isola. All’inizio del XIV sec. addirittura Branca Doria, quel personaggio a cui si deve la celebre invettiva di Dante, prima provò ad ottenerne l’investitura da parte della Santa Sede, poi di farsi nominare re nel 1311 dall’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo.
Oggetto delle questioni politiche erano il controllo delle saline di cui la Repubblica di Genova deteneva il monopolio e il possesso delle miniere di piombo argentifero di Villa Chiesa.
Nonostante la Sardegna sia rimasta nell’orbita spagnola fino al trattato di Utrecht del 1713, quando venne ceduta all’Austria, i Genovesi seppero tutelare con astuzia i propri interessi. Nel 1720 dopo tre anni di guerre la Quadruplice Alleanza (Francia, Inghilterra, Impero, Olanda) siglò la pace di L’Aia. In ottemperanza di questo trattato Filippo re di Spagna rinunciò alle sue pretese isolane in cambio della promessa austriaca della successione a Parma, Piacenza e Toscana del figlio Carlo. In questo contesto Vittorio Amedeo II di Savoia ricevette dall’Austria la Sardegna in cambio della Sicilia e ottenne di commutare il titolo di re di Sicilia che già deteneva, in quello di re di Sardegna. Con l’avvento dei Savoia Genova gradualmente andò a perdere i privilegi consolidati da secoli fino, con l’ignomignoso trattato di Versailles del 1814, a diventare essa stessa, acquistata dagli inglesi, parte del Regno diPiemonte e Sardegna.
…. di un trono… di giochi di potere… di un Arcivescovo e di un Doge…
La nomina di Stefano Durazzo ad Arcivescovo di Genova nel 1635 da parte della Santa Sede fu causa di attrito con le autorità civili della Repubblica.
Questi infatti, per circa due anni non mise piede in città delegando la carica ad un suo fidato Vicario.
Il Cardinale, una volta decisosi ad impossessarsi della sua cattedra, pretese di entrare in San Lorenzo in baldacchino e di essere chiamato con il titolo di “Eminenza”.
Il Senato rigettò tale richiesta e questi, per tutta risposta, si rifiutò di incoronare quello che avrebbe dovuto essere il primo Doge con tutte le attribuzioni regali, Agostino Pallavicino. Il novello Doge venne così incoronato, fatto inaudito, dall’Abate di Santa Caterina, nell’omonima chiesa e non in Cattedrale, dall’Arcivescovo.
Non contento l’alto prelato respinse anche la richiesta del Senato di erigere, in posizione rialzata rispetto a quella vescovile, un baldacchino da collocarsi, all’interno di San Lorenzo, al posto della cattedra episcopale.
Genova, infatti, da circa un anno aveva eletto a pro
pria Regina, la Madonna e riteneva queste iniziative necessarie per ottenere riconoscimenti formali, in merito al nuovo titolo regale, da parte delle altre potenze europee.
La misura era colma… ormai lo scontro fra l’autorità ecclesiastica e quella civile rischiava di portare ad un incidente diplomatico con il Vaticano.
Fu così che, nel 1640, Papa Urbano VIII richiamò a Roma il Cardinale per destinarlo come legato pontificio a Bologna.
Otto anni più tardi nel 1648, Durazzo rientrato a Genova fu, a causa di un’altra diatriba, di nuovo oggetto di domanda di espulsione da parte del Senato.
Questa volta però il Papa Innocenzo X non accolse la richiesta e il Cardinale regnò per altri sedici anni, governando con pugno energico e fermo, la Curia genovese.
Alla sua morte, avvenuta nel 1667, la Repubblica, soprannominandolo “il Borromeo genovese”, nonostante i frequenti attriti, intese riconoscerne le indiscusse doti e qualità… doti e capacità che, oltre ad Agostino Pallavicino, almeno una dozzina di Dogi ebbe modo di testare sulla propria pelle durante i suoi, seppur framezzati, ventinove anni di potere (dal 1635 al 1664).
Al tempo in cui il cielo si specchiava tutto il giorno nel mare e l’acqua e la terra si contendevano lo spazio, gli otto venti di Mediterraneo giocavano a rincorrersi, scherzavano con le onde, gareggiavano con i gabbiani e, come discoli troppo vivaci, non davano mai tregua.
Un giorno Mediterraneo, stanco dei loro capricci, andò lontano in cerca di quiete e trovò riparo in un golfo sconosciuto dove, come una perla incastonata nella roccia, sorgeva la bella Genova.
Non appena l’onda spumeggiò lungo il Mandraccio, sotto il colle di Sarzano, rimase ammirato dallo spettacolo che gli si parò davanti: mura maestose aggrappate ad imponenti montagne, campanili e torri che si arrampicavano gli uni alle altre, caruggi stretti e misteriosi e poi un porto brulicante di navi e di marinai affaccendati, colori nitidi e profumi inebrianti, persino il sole sbirciava curioso.
Mediterraneo non si era ancora ripreso dall’emozione quando giunsero i venti che lo avevano, dopo averlo cercato dappertutto, finalmente scovato. Anche gli otto fratelli, per un attimo, rimasero sbalorditi e si placarono, la bellezza di Genova, li aveva ammutoliti.
Ma subito Tramontana salì sulle montagne, prese la rincorsa, e si tuffò in mare schizzando Mezzogiorno che, alterato si scatenò da sud in una lotta veemente con il fratello. Accorsero Ponente e Levante per dividerli ma vennero allontanati, ciascuno verso la Riviera che da loro prende il nome. Anche Libeccio e Scirocco, dal caldo temperamento, iniziarono a soffiare forte contrastati dai freddi Maestrale e Grecale, nel frattempo, giunti da nord.
Eolo stesso non avrebbe saputo come fare per ripristinare l’ordine!
Così Il mare, preoccupato che le bufere, scuotessero la sua bella Genova la avvolse in un tenero e protettivo abbraccio. Da allora i due innamorati non si sono più separati, dal loro amore è nato Ligure e i venti, placati, si sono spartiti le stagioni.
Ancora oggi, ogni sera, Genova arrossisce all’appassionato tramonto che Mediterraneo inscena per la sua sposa, la signora del mare.
In copertina: tramonto sul Porto di Genova. Foto di Stefano Eloggi.
Il cadavere di Gian Luigi venne ripescato quattro giorni dopo restituito dalle acque della Darsena e, dopo essere stato esposto al pubblico ludibrio per due mesi appeso alla Porta di S. Tommaso, venne rigettato in mare non meritevole di sepoltura.
Con questo atto Andrea dava inizio alla resa dei conti: l’indulto concesso ai Fieschi venne revocato, confiscate le loro proprietà (come del resto a tutti gli altri cospiratori), il palazzo della casata di Via Lata, raso al suolo, distrutte le fondamenta.
Gerolamo, asserragliato nel castello di Montoggio con il suo seguito, dopo mesi di disperata resistenza, venne catturato e giustiziato per decapitazione.
Ma l’ammiraglio, come il Conte di Montecristo di Dumas, seppe consumare la propria vendetta anche nei mesi e negli anni successivi; eliminò uno ad uno per mano dei suoi sicari, tutti i principali componenti della rivolta, colpevoli dell’assassinio del nipote prediletto.
Verrina venne decapitato, gli altri congiurati uccisi, tutti i Fieschi cospiratori di sesso maschile ammazzati. Nemmeno il Duca di Piacenza scampò al suo nefasto destino, assassinato barbaramente il 10 settembre di quell’anno, perse il suo Ducato a vantaggio dei Gonzaga, alleati del Doria.
Il Principe, nonostante le insistenze del Figueroa che intendeva approfittare della situazione per instaurare un dominio spagnolo più diretto, si oppose fermamente alla costruzione della fortezza di Pietraminuta (all’incirca zona dove si staglia l’odierno castello D’Albertis) dalla quale il contingente ispanico avrebbe controllato la città. Lui che aveva cancellato la Briglia(la fortezza ai piedi della Lanterna)e il Castelletto (attuale area occupata da piazza G. Villa), simboli del dominio foresto dalla topografia di Genova, non avrebbe potuto tollerare questa sfacciata ingerenza. Inviò così a Madrid Adamo Centurione, il più potente banchiere del tempo (e finanziatore delle casse imperiali), per persuadere Carlo V a recedere dal proprio intento ricordandogli come le grandezze della casata asburgica fossero tali anche grazie al suo prezioso apporto: “Dubita forse sua Altezza che il Principe, ammiraglio supremo dell’Impero, fedele alleato di Spagna, signore del mare e terrore dei Turchi, non sappia mantenere l’ordine nella propria patria?”. Queste furono probabilmente le parole pronunciate dal Centurione.
L’Imperatore comprese e rispettò l’orgoglio dell’ ammiraglio genovese e diede ordine di ritirare la flotta ispanica nel frattempo accorsa per prendere possesso della Repubblica.
Doria, riguadagnato il sostegno di tutti per la risolutezza con cui aveva gestito la delicata situazione, promulgò un nuovo ordinamento giuridico detto del “Garibetto” per via del garbo e dell’intelligenza con cui, grazie queste leggi, seppe riappacificare nobili vecchi e nobili nuovi, privilegiando i primi senza scontentare i secondi, aprendo così un nuovo decennio di pace e prosperità per la Superba.