Le Mura del ‘500…

Nel ‘500 dopo il nefasto Sacco della città avvenuto nel 1522 Genova dispone l’ampliamento della precedente e obsoleta cinta muraria affidandone la realizzazione all’ingegnere Olgiati e all’architetto Sangallo. Si tratta della sesta delle sette cinte murarie della storia della città:

la prima risalirebbe all’epoca romana in risposta alla distruzione operata nel 205 a. C da Magone, la seconda del 935, a seguito del saccheggio musulmano predetto dal leggendario episodio della fontana del Bordigotto, la terza, la più celebre, quella detta del Barbarossa perché eretta come deterrente per le bellicose mire dell’imperatore tedesco, la quarta del 1276 – 1287, al tempo delle lotte fra le Repubbliche marinare in pieno periodo di scontro con Pisa e Venezia, la quinta del 1320, sorta dopo “la congiura dei moccolotti” e la minaccia della marcia di Castruccio signore di Lucca, promossa dalla fazione ghibellina, la settima del 1626 – 1639 detta delle “Mura Nuove”.

L’ultima, l’ottava, al tempo della dominazione piemontese, in pieno ‘800 merita un discorso a parte perchè legata principalmente ai forti.

Uno dei principali sostenitori dell’opera è l’ammiraglio Andrea Doria che, dopo aver liberato nel 1528 la Superba dai Francesi, intende proteggerla con mura e bastioni adeguati, da possibili futuri attacchi.

Fu così che, a partire dal 1536, vennero erette o rinnovate sei porte: Porta di S. Tomaso che da allora sarà anche detta del “Principe” in omaggio all’ammiraglio Andrea (sita più o meno nella zona in cui sorge oggi la Stazione Marittima), di Carbonara lungo il corso dell’omonimo rivo in zona tra S. Agnese e il Carmine, del Portello a protezione della zona delle Fontane Marose, dell’Acquasola o di Santa Caterina, del Molo o Cibaria e dell’Arco o di S. Stefano.

Quest’ultima un tempo situata all’incirca dove oggi si trova il Ponte Monumentale, trovandosi nelle vicinanze della chiesa di S. Stefano, nel linguaggio comune ne aveva assunto il nome.

    “Porta degli Archi o di S. Stefano nella sua originaria collocazione presso l’attuale Ponte Monumentale. In alto si riconoscono le forme e il campanile dell’omonima chiesa”. Cartolina tratta dalla Collezione di Stefano Finauri.

Alla costruzione della porta lavorarono i maestri Giovanni Orsolino, Pietro Antonio, e Giacomo da Corona. Nel 1605 il Senato commissionò a Taddeo Carlone la statua di S. Stefano da apporre sul frontespizio. Nel 1897 con la realizzazione del Ponte Monumentale, come ricordato da apposita targa, venne trasferita, o meglio nascosta, nell’odierna Via Banderali presso le Mura delle Cappuccine dove la si può ancora ammirare in tutta la sua imponente e rassicurante presenza.

“Porta degli Archi o di S. Stefano nella sua attuale collocazione di Via Banderali in Carignano”. Foto di Leti Gagge.

Questa Porta / Disegnata da Gio Maria Olgiato /

decorava il Varco orientale della Mura cittadine del 1536/

Fu demolita per Sostituirvi il Ponte Monumentale/

e qui ricomposta /

per deliberazione della giunta municipale /

10 giugno 1896

“Santa Caterina posta a custodia della Porta dell’Acquasola:  La scultura regge nelle mani la palma e la ruota simboli che stanno a ricordare il martirio.. Ai piedi la testa dell’imperatore Massimino che ne aveva decretato la morte”. Foto di Franco Risso

La Porta Murtedo (sita nell’odierno Largo Lanfranco) appartenente alla cerchia del tempo del Barbarossa nel 1511 venne atterrata e sostituita da quella detta dell’Acquasola. La nuova porta (locata dove oggi si staglia la discussa statua equestre del re sabaudo in Piazza Corvetto) venne rinnovata per meglio adattarsi al nuovo assetto murario e decorata con una preziosa statua di Santa Caterina d’Alessandria, opera di Guglielmo della Porta (oggi conservata in una nicchia di fronte allo scalone del primo piano dell’accademia Ligustica) e da un bassorilievo, opera di Gian Giacomo della Porta, raffigurante il Salvatore oggi conservato a Palazzo Bianco.

Venne purtroppo sacrificata nel 1830 dall’architetto Carlo Barabino per ampliare la scenografica passeggiata che collegava l’omonimo parco con la villetta del marchese Gian Carlo Di Negro. La struttura venne definitivamente rimossa negli anni ’70 dell’ottocento. Di passeggiata e Porta sono rimasti solo i  ricordi.

La lapide attribuita all’umanista Pietro Bembo su incarico del Senato recitava:

DUX GUBERNATORES PROCURATORESQUE /

AMPLISSIMI ORDINIS DECRETO  UT TUTELA AD HOSTI

BUS REPUBBLICA /

JUCUNDISSIMA LIBERTATE FRUATUR  SUMMA IMPEN

SA / INGENTIQUE STUDIO MONTIBUS

EXCISIS, / ET LOCI NATURA SUPERATA

PER DIFFICILI OPERE URBEM FOSSA/

MOENIBUS  AGGERIBUS  PROPUGNACULISQUE

INCREDIBILI CELERI MUNIERUNT/

ANNO DOMINI MDXXXVIII / RESTITUITAE
VERO LIBERTATIS X.

“Il Doge, i Governatori e i Procuratori, / per decreto di tutto il Senato,

Onde proteggere la Repubblica di nemici, /

E poter godere della carissima libertà,

con ingentissima spesa, / scavati i  monti con grande cura, / e vinta la natura del luogo con lavori assai difficili, / i confini della città di mura, bastioni e baluardi, con incredibile velocità munirono. /

Nell’anno del signore 1538 /

Anno decimo della restaurata libertà”.

“Brani delle mura cinquecentesche nel tratto dell’Acquasola dietro il Palazzo di Giustizia”. Foto dal web.
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“Stampa ottocentesca della Porta di San Tomaso vista dall’interno”.

Analoga lapide venne posta sopra Porta di San Tomaso che, esistente già dal 1345, assunse caratteristiche simili a quelle della Porta dell’Arco. Anche la statua del Santo, raffigurato nell’atto di toccare il costato del Salvatore, venne scolpita da Guglielmo della Porta. Nel 1749, per celebrare la cacciata degli austriaci in memoria dell’eroica impresa del Carbone, venne arricchita con una statua raffigurante la Madonna. La porta e l’omonimo attiguo monastero, furono demoliti a metà dell’800  nell’ambito dei lavori di ampliamento di Ponte dei Mille e Ponte Federico Guglielmo per far posto a fine secolo alla Stazione Marittima. La statua del santo è stata preservata ed è custodita nella chiesa di San Tomaso in Via Almeria, quella della Madonna, presso il Seminario del Righi.

“Lo scomparso Monastero di S. Tomaso”.

Infine Porta Siberia, o meglio Porta del Molo Vecchio, che venne costruita su progetto dell’Alessi fra il 1553 e il 1555 per fungere da raccordo fra le mura del Mandraccio e quelle della Marina e chiudere così la cinquecentesca cinta a levante. Ornata in pietra di Finale sul fornice alla sommità dell’arco reca una lapide attribuita al letterato Jacopo Bonfadio:

AUCTA EX S.C. MOLE EXTRUCTAQ.

PORTA PROPUGNACOLO MUNITA

URBE CINGEBAT MOENIBUS

QUACUMQUE ALLUITUR

MARI ANNO MDLIII.

“Per decreto del Senato, dopo aver prolungato il molo, costruita la porta e averla munita con difese (i cittadini) cingevano con mura la città lungo tutta la parte ove è bagnata dal mare”.

“Porta del Molo Vecchio”. Foto di Leti Gagge.

Ho lasciato volutamente per ultime le restanti due porte di Carbonara e Portello perché sono quelle le cui notizie e testimonianze sono più scarne.

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“Porta di Carbonara in una veduta  ottocentesca di P. Domenico Cambiaso. Da notare il casotto delle guardie e l’immancabile edicola votiva”.

Della prima si sa che, come la Porta di San Tomaso, esisteva già nel 1345 costruita nell’ambito del progetto di ampliamento delle mura verso ponente che prevedeva l’erezione di tre nuove porte (oltre a S. Tomaso e Carbonara, Pietraminuta). La porta era affiancata da una torre che controllava la porzione di territorio lungo l’omonimo rivo, compresa tra S. Agnese e il Carmine sotto il Castelletto.

“Cartolina di inizio novecento di Via Caffaro al cui imbocco nel ‘500 si trovava la Porta del Portello”. Immagine tratta da genovacollezioni.it”.
“Il Ponte Reale con l’omonima Porta di accesso proprio di fronte a Palazzo S. Giorgio”.

Anche della seconda si conosce poco. Si sa che si trovava nell’odierna omonima piazza all’imbocco dell’attuale Via Caffaro, al di fuori della quale v’erano ulivi e terreni coltivati. Posta a protezione e accesso, tramite un caruggio tra i palazzi Imperiale Lercari e Cambiaso, alla monumentale Strada Nuova, odierna Via Garibaldi. Da una parte la semplicità di oliveti ed orti, dall’altra l’opulenza della famiglie patrizie e della borghesia mercantile.

“I Ponti Calvi e Spinola. Acquaforte settecentesca.  Collezione topografica del Comune”.
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“Il Molo Vecchio con sulla destra la Porta del Molo e quella dei Cattanei”.
“Il Ponte Reale e quello della Mercanzia. Acquaforte settecentesca, Collezione topografica del Comune”.
“I Ponti Spinola, Reale e Calvi. Acquaforte settecentesco. Collezione topografica del Comune”.

Oltre alle principali sei porte citate ve ne erano altre cinque minori in porto collocate in corrispondenza degli omonimi moli: Porta Ponte Cattanei, Porta della Mercanzia, Ponte Reale, Ponte Spinola e Ponte Calvi.

In Copertina: “Porta degli Archi o di S. Stefano nella sua attuale collocazione di Via Banderali in Carignano”. Foto di Leti Gagge.

“Una città sepolta da scoprire e rivalutare”.

Negli ultimi mesi del 2021 durante i lavori di preparazione per i la sistemazione del Museo della Città di Genova nella cinquecentesca Loggia dei Mercanti in Piazza Banchi è emerso uno straordinario ritrovamento archeologico.

Reperti. Foto di Armando Pittaluga

“Ad oggi il cantiere di scavo condotto dalla Soprintendenza ha messo in evidenza due isolati della città medievale, sepolti al momento della costruzione della Loggia nel 1595, separati da vicoli e fiancheggiati da un’antica strada, corrispondente all’attuale via degli Orefici. L’eccezionalità del rinvenimento consiste nello straordinario stato di conservazione degli ambienti, sigillati al momento dell’abbandono: una bottega e un fondaco, conservato con elevati che superano i 3 m di altezza. Al loro interno le strutture di approvvigionamento idrico (condutture, canalizzazioni, pozzi e cisterne) e gli apprestamenti per le attività commerciali e artigianali (banconi che sostenevano tavolati di lavoro e di stoccaggio delle merci).

Scavi. Foto di Armando Pittaluga.

La lettura delle stratigrafie murarie consente di valutare come il primo impianto medievale possa risalire già alla metà del XII secolo, cui seguirono successive modifiche e ristrutturazioni fin quasi al momento della demolizione alla fine del ‘500. La ricerca d’archivio, ancora in corso, ha consentito di individuare la proprietà degli immobili appartenente ad antichi gruppi nobiliari (gli Usodimare, i De Nigro e gli Imperiale), e ricostruire la maglia insediativa di questo specifico settore della città, centro della vita economica e finanziaria, con le attività dei notai, dei cambi valuta e le vendite pubbliche all’asta, tra cui le famose compere del Banco di S. Giorgio.

Strade, porte, scale, muri. Foto di Armando Pittaluga.

Si tratta di un sito medievale di grande valore, collocato in un contesto urbano eccezionale, che lascia presagire ulteriori nuove e interessanti scoperte che permetteranno di arricchire la storia della città nelle epoche più remote: dagli scavi emergono infatti le prime strutture e i livelli di vita di epoca romana, ricchissimi di frammenti di anfore provenienti dalle navi che attraccavano in porto, testimonianza preziosa di come la zona di Banchi attraverso i secoli abbia svolto il fondamentale ruolo di crocevia strategico tra il porto e la città.”.

Il sito da un altro punto di vista. Foto di Armando Pittaluga.

La descrizione, nelle parti a mio parere più significative, è presa dal sito del Comune di Genova:

https://smart.comune.genova.it/comunicati-stampa-articoli/eccezionali-scoperte-archeologiche-alla-loggia-di-banchi

Per tre giorni, a partire dal 17 febbraio, il sito sarà aperto al pubblico. Grazie ad Armando Pittaluga e Lorenza Rossi per la loro preziosa testimonianza fotografica.

Proprio il 17 febbraio del 2017 se ne andò il Professore che per primo intuì le straordinarie potenzialità della nostra città.

“Una città sepolta da riscoprire e rivalutare”

Cit. Ennio Poleggi professore, storico (Genova 1927-2017).

L’eccidio al forte San Martino

“Questa notte ho riunito il Tribunale Militare Straordinario, presieduto dal più alto ufficiale in grado presente nel Presidio, il quale ha emanato sentenza di morte, mediante fucilazione, di otto rei confessi di congiura contro lo Stato in zona di operazioni e di condanna a 20 anni di carcere militare di altri due sovversivi.

“La sentenza è stata eseguita all’alba”

Con queste asciutte e tragiche parole il prefetto Carlo Emanuele Basile annunciava di aver dato seguito al suo precedente comunicato.

I due antifascisti condannati a vent’anni di carcere erano Guido Pinna e Guido Carpi. I condannati alla pena capitale si chiamavano:

Dino Bellucci, professore, di anni 32;

Giovanni Bertora, tipografo, di anni 31;

Giovanni Giacalone, straccovendolo, di anni 53;

Romeo Guglielmetti, tranviere, di anni 34;

Amedeo Lattanzi, giornalaio, di anni 35;

Luigi Marsano, saldatore elettrico, di anni 33;

Guido Mirolli, oste, di anni 49;

Giovanni Veronello, operaio, di anni 57.

“Nelle prime ore del 14 gennaio 1944 il comandante della Legione dei Carabinieri di Genova mi ordinava, per telefono, di recarmi con un plotone di venti carabinieri al forte di San Martino, per eseguire un urgente servizio di ordine pubblico”

Parole del tenente Giuseppe Avezzano Comes, ufficiale incaricato di espletare il compito richiesto, che prosegue:

“Giunto sul posto, trovai la località deserta; senonché, dopo aver atteso per circa un’ora, e mentre mi accingeva a rientrare in caserma, vidi arrivare, con alcune macchine, un folto gruppo di ufficiali tedeschi e fascisti che accompagnavano otto persone in ceppi.

Nel frattempo venivo chiamato da un colonnello della milizia fascista in divisa, il quale qualificandosi per il Console Grimaldi, mi ordinava di procedere all’esecuzione immediata mediante fucilazione di otto “traditori” che il tribunale fascista aveva condannato a morte per vendicare un attentato in Genova del giorno innanzi, in cui era stato ucciso un un ufficiale tedesco.

A tale ordine opponeva un secco rifiuto, insistendo sulla illegittimità sia di chi me lo impartiva, sia del Tribunale che lo aveva emesso. Nonostante l’intervento di altri ufficiali fascisti e tedeschi che mi minacciavano di processo sommario e di fucilazione sul posto insieme agli altri condannati, mantenni fermo il mio atteggiamento di rifiuto; tanto che il Grimaldi dopo avermi accusato di codardia, per mezzo di due tedeschi delle SS mi fece allontanare dai miei uomini e sospingere in una casamatta.

Dalle feritoie della stessa, potrei osservare quello che avvenne dopo: il Grimaldi fece schierare di spalle al muro del cortile del forte gli otto condannati e ordinò lui stesso ai carabinieri di fare fuoco.

Ma tutti i militari rivolsero palesemente le armi in alto, tanto che uno dei giustiziati, il Prof. Bellucci, ebbe a dire ad alta voce: “ragazzi fate presto, mirate dritto al cuore. Se non mi uccidere voi mi uccideranno gli altri”.

“Cerimonia della commemorazione”.

A questo punto il Grimadi radunò gli altri militari tedeschi e fascisti presenti e procedette lui stesso all’esecuzione. Fece disporre i condannati di fronte, a due alla volta, costringendoli a salire sui corpi dei compagni caduti mentre ancora si sbattevano per terra in agonia.

Il massacro veniva completato con il colpo di grazia, pietosamente esploso per ognuno dei moribondi da un ufficiale medico presente. Ad esecuzione avvenuta, tedeschi e fascisti lasciavano immediatamente la località, allontanandosi con gli stessi mezzi con i quali erano venuti.

Uscivo allora dalla casamatta, disponevo il piantonamento dei patrioti caduti e con il resto dei carabinieri rientravo in caserma”.

Qui il tenente riuscì a distruggere la nota di servizio con i nomi dei Carabinieri insieme a lui al Forte, così da evitare rappresaglie nei loro confronti da parte delle SS.

“Per intervento del Prefetto Basile venni messo agli arresti e allontanato da Genova.

“Intitolazione dell’officina deposito della Metropolitana di Genova”.

Successivamente fui sottoposto ad inchiesta formale ed infine arrestato dal comando della Feld Gendarmeria tedesca di Albenga, dal quale fui trattenuto in prigione fino alla liberazione, subendo a mia volta torture e sevizie”.

Liberamente tratto dal volume “Una città nella Resistenza!” di Carlo Brizzolari, Valenti editore.

Nel 1984 il sindaco Fulvio Cerofolini gli concesse la cittadinanza onoraria e dal gennaio 2019 gli è stata intitolata l’Officina Deposito della Metropolitana di Genova:

al Tenente dei Carabinieri Giuseppe Avezzano Comes, “Combattente
della Libertà”, come recita la frase riportata sulla targa commemorativa collocata all’interno dell’ampio spazio dedicato alle lavorazioni dei treni.

Hanno preso parte alla cerimonia il vice sindaco Stefano Balleari, l’amministratore unico di AMT Marco Beltrami, il comandante provinciale dei Carabinieri Col. Riccardo Sciuto e Massimo Bisca, presidente Anpi Genova.

In copertina: reparto dei Carabinieri che si rifiutò di sparare sugli ostaggi condannati dal tribunale fascista. Foto presa dal volume sopra citato.

Gli arazzi della battaglia di Lepanto

A palazzo del Principe sono collocati tre straordinari cicli di arazzi quattro e cinquecenteschi: il primo dedicato alle storie di Alessandro Magno, il secondo ai mesi dell’anno, o meglio, alle divinità ad essi associate, il terzo alla battaglia di Lepanto.

Quest’ultimo ciclo è costituito da sei panni e due tramezzi conservati nella sala del Naufragio del palazzo.

Gli arazzi furono commissionati da Giovanni I Andrea D’Oria, nipote di Andrea, che fu tra i protagonisti del celebre scontro navale.

Ad elaborare i bozzetti preparatori venneri incaricati addirittura Lazzaro Calvi che disegnò le scene centrali e Luca Cambiaso che si occupò delle incorniciature e delle figure allegoriche.

La stesura degli arazzi avvenne a Bruxelles e furono consegnati a Genova nel 1591.

La sequenza degli episodi rappresentati ha inizio con La partenza da Messina della flotta cristiana, nel quale si descrive la partenza delle navi cristiane dal porto siciliano, sotto il comando supremo di Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V.

In basso a sinistra è rappresentata la “Capitana Nova” di Giovanni Andrea I, riconoscibile grazie alla presenza a poppa del fanale a forma di globo celeste, dono della moglie Zenobia.

A sinistra della scena centrale compare l’allegoria della Concordia, caratterizzata dagli attributi iconografici del caduceo e della lira, a destra si scorge invece la Nemesi, identificata dalla presenza di un metro e del freno che le viene offerto da un fanciullo.

Il secondo arazzo illustra la Navigazione lungo le coste calabre, mostrando l’avanzamento della flotta cristiana alla ricerca dello scontro con le navi turche. Il panno immortala il momento in cui la flotta della Sacra Lega costeggiò le coste della Calabria in direzione di Corfù, isola al largo dell’Epiro, caposaldo veneziano.  Da lì giunsero poi a Lepanto, nei pressi delle isole Curzolari, anticamente conosciute come Echinadi, dove ebbe luogo lo scontro con l’armata turca. Le figure allegoriche che accompagnano l’episodio sono la Vigilanza, a sinistra, con gli attributi del gallo, della testa di leone e della gru e, sul lato opposto, il Dominio sul mare, caratterizzata da una folta chioma agitata dal vento e dal tridente di Nettuno.

Il terzo panno raffigura lo Schieramento delle flotte. A destra si vede l’armata turca, organizzata in una formazione continua, pensata con l’intento di aggirare le navi nemiche. I cristiani, a sinistra, si divisero invece in quattro corni: al centro si posizionarono le galee di Don Giovanni d’Austria, a sinistra quelle veneziane di Agostino Barbarigo e a destra quelle di Giovanni Andrea I Doria. In seconda fila si scorgono le navi della retroguardia, al comando di Alvaro Bazan. Tra i due schieramenti si vedono le galeazze veneziane, navi dotate di una ragguardevole potenza di fuoco, che si rivelarono decisive per le sorti della battaglia. Le allegorie della Speranza e della Prudenza affiancano la scena centrale, la prima caratterizzata da un giglio e la seconda da tre teste di animali (lupo, leone e cane).

“La seconda e la terza scena”.

L’arazzo dedicato alla Battaglia vera e propria reca la rappresentazione dello scontro, che si rivelò estremamente sanguinoso. La vittoria della Lega Santa, in una battaglia le cui sorti rimasero a lungo in bilico, fu conquistata grazie alla superiore potenza di fuoco della flotta cristiana. Il panno mostra ai lati della scena centrale la figura della Fortuna, rappresentata in equilibrio su una sfera e accompagnata dall’emblema della cornucopia, e della Fortezza, caratterizzata dalla presenza di uno scheletro, di una corona e di un ramo di quercia.

Il penultimo panno è dedicato alla Vittoria cristiana e la fuga delle sette galee turche. Favorite dal sopraggiungere della notte, sette navi turche, comandate dal corsaro Uluç Alì, riuscirono a sfuggire alla cattura. Giovanni Andrea I, la cui nave si scorge impegnata nel vano sforzo dell’inseguimento, fu aspramente criticato per la sua scelta di interrompere lo schieramento cristiano nel tentativo di realizzare una manovra di aggiramento dei turchi. L’arazzo presenta diversi elementi di trionfo sul nemico, rappresentato in catene nella porzione inferiore del panno.

L’ultimo arazzo della serie raffigura il Ritorno a Corfù. La flotta cristiana, vittoriosa, trainò nel porto veneziano circa centotrenta navi turche prese prigioniere durante la battaglia. In primo piano è rappresentata la Capitana Nova di Giovanni Andrea con una preziosa preda di guerra: la nave ammiraglia turca. A corredo della scena vi sono la Gloria, caratterizzata dalla presenza di un cigno, e la Fama, con i suoi attributi della tromba, della lancia e le ali tempestate di occhi, orecchie e lingue.

Dopo questa dettagliata ed erudita descrizione tratta pari pari (sarebbe stato presuntuoso togliere o aggiungere altro) dal sito doriapamphilj.it, riporto questa divertente storiella citata sulla relativa monografia del Prof. Barbero che la dice lunga sull’essenziale pragmatismo dei genovesi:

“… l’ammiraglio veneziano scrisse alla Serenissima “La Madrepatria è salva”; l’ammiraglio pontificio scrisse al papa “La vera fede ha trionfato”; l’ammiraglio spagnolo scrisse al re Felipe “Vostra maestà ora domina anche il Mediterraneo”; Gio Andrea Doria scrisse al suo amministratore “Smetti di pagare l’assicurazione per i carichi perché sul mare non c’è più pericolo”.

In copertina il primo arazzo che immortala la partenza della flotta da Messina.

“Sinán Capudán Pasciá”…

A Instanbul il prestigio dei genovesi è testimoniato non solo dal quartiere Galata con relativa torre simbolo della città ma anche dalla contrada che ancora oggi, portandone il nome, celebra il nostro eroe: Cağaloğlu (poiché oglu significa figlio, il figlio di Cigala).

Nel 1984 esce l’album capolavoro in lingua genovese di Fabrizio De André “Creuza de ma”.

Sette tracce che, fondendo in maniera irripetibile e magistrale suoni e parole, celebrano Genova, il mare e le culture del Mediterraneo.

Fra queste canzoni emerge da un lontano passato la storia del nostro nobile concittadino Scipione Cicala che, imprigionato dai turchi, ne divenne condottiero e corsaro fino ad ottenere il massimo degli onori possibili per un infedele, ovvero il titolo di Pascià.

“E questa a l’è a ma stöia, e t’ä veuggiu cuntâ”…  

“Sinan Capudan Pascià” racconta appunto le vicende del genovese Cicala (“sinan”, dato che in turco ottomano antico Genova si dice “Sina”, significa genovese) che fu catturato nel 1560 a bordo della nave del padre Vincenzo dopo la disfatta della battaglia di Gerba.

Nei pressi dell’isola tunisina ebbe luogo infatti lo scontro che permise ai Turchi di consolidare in maniera inequivocabile la propria supremazia nel Mediterraneo dopo i decenni in cui Andrea D’Oria vi aveva imposto la propria legge.

In quell’occasione il corsaro Dragut aveva infatti sconfitto la flotta cristiana da pochi anni ereditata dal nipote Gian Andrea con il titolo di Capitan general de las galeras de Génova.

Secondo alcune interpretazioni a quasi 94 anni Andrea si spense nel suo palazzo, corroso dai dolori e soprattutto dalla delusione per la notizia della perdita delle sue invitte galee.

Gian Andrea dovette aspettare il 1584 per vedersi riconoscere, al pari dell’illustre avo in precedenza, l’incarico di massimo prestigio della marina spagnola, ovvero quello di Capitan general de la mar.

Non tutti gli storici però concordano su tale antefatto: per alcuni invece Sinan sarebbe stato catturato da Dragut non nei pressi dell’isola tunisina, ma al largo di Marettimo, alle Egadi, mentre con il padre Vincenzo veleggiava verso la Spagna. Era il 18 marzo del 1561 e Scipione aveva appena 17 anni. 

“Scipione Cicala nelle vesti di Sinan Capudan Pascià”.

Quale che sia la versione corretta di certo il giovane Scipione e il padre Vincenzo vennero catturati entrambi e tradotti prigionieri ad Instanbul.

Vincenzo pagò il proprio riscatto e venne liberato ma, per carenza di fondi, non quello del figlio. Fu così che Scipione per non finire ridotto in schiavitù, legato a qualche banco di voga a remare, abiurò la propria fede e si arruolò nel corpo scelto degli Giannizzeri.

Per via di questo suo opportunistico cambio di campo religioso, venne disprezzato e battezzato dai Cristiani “rénegôu”:

“E digghe a chi me ciamma rénegôu
che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu
Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü
giastemmandu Mumä au postu du Segnü”.

Ma Scipione bestemmiando Maometto al posto del Signore fece presto carriera dimostrando coraggio e abilità nautiche salvò la vita ad un importante e potente Bey (nobile ottomano).

Le sue vicende incrociarono con alterne fortune i sultanati di Solimano I il Magnifico, Selim II, Murad III e Maometto III.

“Solimano I il Magnifico”.

Cicala si distinse in numerose scorribande piratesche lungo le coste del sud in generale e della Calabria in particolare fino ad ottenere il massimo dei riconoscimenti dal Sultano Maometto III: Sinán Capudán Pasciá, cioè “il genovese grande ammiraglio della flotta ottomana”. 

Cağaloğlu Sinan Kapudan Paşa conosciuto anche per assonanze fonetiche come Sinan Bassà diventerà persino per breve tempo Gran Visir e Serraschiere del Sultano di Costantinopoli.

“Il Sultano Mehmet III”.

Teste fascië ‘nscià galéa
ë sciabbre se zeugan a lûn-a
a mæ a l’è restà duv’a a l’éa
pe nu remenalu ä furtûn-a

Teste fasciate sulla galea
le sciabole si giocano la luna
la mia è rimasta dov’era
per non stuzzicare la fortuna

intu mezu du mä
gh’è ‘n pesciu tundu
che quandu u vedde ë brûtte
u va ‘nsciù fundu

in mezzo al mare
c’è un pesce tondo
che quando vede le brutte
va sul fondo

intu mezu du mä
gh’è ‘n pesciu palla
che quandu u vedde ë belle
u vegne a galla

in mezzo al mare
c’è un pesce palla
che quando vede le belle
viene a galla

E au postu d’i anni ch’ean dedexenueve
se sun piggiaë ë gambe e a mæ brasse neuve
d’allua a cansún l’à cantà u tambûu
e u lou s’è gangiou in travaggiu dûu

E al posto degli anni che erano diciannove
si sono presi le gambe e le mie braccia
da allora la canzone l’ha cantata il tamburo
e il lavoro è diventato fatica

vuga t’è da vugâ prexuné
e spuncia spuncia u remu fin au pë
vuga t’è da vugâ turtaiéu
e tia tia u remmu fin a u cheu

voga devi vogare prigioniero
e spingi spingi il remo fino al piede
voga devi vogare imbuto (= mangione)
e tira tira il remo fino al cuore

e questa a l’è a ma stöia
e t’ä veuggiu cuntâ
‘n po’ primma ch’à vegiàià
a me peste ‘ntu murtä

e questa è la mia storia
e te la voglio raccontare
un po’ prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio

e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá

e questa è la memoria
la memoria del Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá

“Fronte e retro dell’album Creuza de Ma”.

E suttu u timun du gran cäru
c’u muru ‘nte ‘n broddu de fàru
‘na neutte ch’u freidu u te morde
u te giàscia u te spûa e u te remorde

e sotto il timone del gran carro
con la faccia in un brodo di farro
una notte che il freddo ti morde
ti mastica ti sputa e ti rimorde

e u Bey assettòu u pensa ä Mecca
e u vedde ë Urì ‘nsce ‘na secca
ghe giu u timùn a lebecciu
sarvàndughe a vitta e u sciabeccu

e il Bey seduto pensa alla Mecca
e vede le Uri su una secca
gli giro il timone a libeccio
salvandogli la vita e lo sciabecco

amü me bell’amü
a sfurtûn-a a l’è ‘n grifun
ch’u gia ‘ngiu ä testa du belinun
amü me bell’amü

amore mio bell’amore
la sfortuna è un avvoltoio
che gira intorno alla testa dell’imbecille
amore mio bell’amore

a sfurtûn-a a l’è ‘n belin
ch’ù xeua ‘ngiu au cû ciû vixín
e questa a l’è a ma stöia
e t’ä veuggiu cuntâ

la sfortuna è un cazzo
che vola intorno al sedere più vicino
e questa è la mia storia
e te la voglio raccontare

‘n po’ primma ch’à a vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá.

un po’ prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio
e questa è la memoria
la memoria di Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá

E digghe a chi me ciamma rénegôu
che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu
Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü
giastemmandu Mumä au postu du Segnü

E digli a chi mi chiama rinnegato
che a tutte le ricchezze all’argento e all’oro
Sinán ha concesso di luccicare al sole
bestemmiando Maometto al posto del Signore

intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu
che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla
che quandu u vedde ë belle u vegne a galla

in mezzo al mare c’e un pesce tondo
che quando vede le brutte va sul fondo
in mezzo al mare c’è un pesce palla
che quando vede le belle viene a galla.

“Caratteristico caruggio nel quartiere di Cağaloğlu”.

A Istanbul il prestigio dei genovesi è testimoniato non solo dal quartiere Galata con relativa torre simbolo tuttora della città ma anche dalla contrada che ancora oggi, portandone il nome, celebra il nostro eroe:

Cağaloğlu (poiché oglu significa figlio, il figlio di Cigala).

La Lapide di Opizzino

I primi decenni del ‘400 sono quelli del dominio visconteo. Genova, dilaniata dalle lotte intestine, si da in signoria interrompendo l’ormai secolare dogato, al casato di Filippo Maria Visconti Duca di Milano.

Al timone del governo cittadino si succedono così diversi commissari l’ultimo dei quali, nel 1432 il lombardo Opizzino d’Alzate.

Il Duca aveva a tal punto sfruttato per i propri interessi le risorse finanziarie della città che nelle altre corti italiche si paragonava la Superba ad una pecora ormai, più che tosata, spoglia della propria pelle.

La misura fu colma quando, a seguito dall’epica difesa di Gaeta assediata dagli aragonesi, i genovesi vincitori a Ponza, furono umiliati dalla contorta e boriosa politica viscontea.

Fu così che il 27 dicembre del 1435 i nobili capeggiati da Francesco Spinola eroe di Ponza e Tommaso Fregoso si unirono ai popolari e catturarono il commissario milanese Opizzino d’Alzate.

La caccia all’uomo si concluse all’angolo con Salita San Siro 8 dove, come ricordato da apposita lapide, Opizzino venne, a furor di popolo, sommariamente giustiziato.

«Opizzino di Alzate tiranno per impeto di popolo qui perdeva lo stato e la vita»

Ma le ire dei nostri avi non si placarono con l’omicidio del governatore in carica.

Anche il suo successore Erasmo Trivulzio – infatti – fu costretto a rifugiarsi nel Castelletto.

Trivulzio, dopo aver ceduto il comando della fortezza, venne graziato a condizione di essere affiancato al potere da “otto capitani della libertà” (fra i quali Spinola e Fregoso).

Fu un temporaneo compromesso di potere perché i Genovesi, pochi mesi dopo, riprenderanno le loro lotte intestine per assicurarsi il dogato nel frattempo ripristinato.

La testa del Boia

In Piazza Cavour all’angolo con Via del Molo proprio di fronte a quella che comunemente viene identificata come la casa del Boia si trova una misteriosa e inquietante scultura.

Notarla non è affatto facile: o la si vede da sotto all’altezza, appunto, di Via del Molo oppure da sopra Piazza Cavour distendendo lo sguardo oltre la sopraelevata.

All’ultimo piano dell’edificio infatti, tra il pluviale e il terrazzino dello stesso, si scorge una misteriosa testa murata.

Attorno a questa scultura ruotano diverse curiose interpretazioni più a carattere leggendario che storico vero e proprio.

Secondo alcuni si tratterebbe dell’immagine di Giano il mitico fondatore della città.

Per altri sarebbe invece, visto che fin dal Medioevo sul Molo avvenivano le esecuzioni capitali, la riproduzione della testa del boia stesso.

Di quest’ultima versione c’è infine una macabra variante secondo la quale il volto sarebbe stata scolpito invece a ricordo delle teste mozzate dei condannati che tagliate dalla scure schizzavano in alto fin lassù.

Quando siete in zona state accorti e baveri ben alzati il boia vi sta osservando.

In Copertina: la testa del Boia in Piazza Cavour angolo Via del Molo. Foto di Rinaldo Parodi.

Il Leone dei Giustiniani

Sul prospetto principale di Palazzo Marc’Antonio Giustiniani che si affaccia sull’omonima piazza domina uno spettacolare leone di San Marco.

Sul lato destro della facciata si staglia infatti il bassorilievo con il simbolo di Venezia prezioso e significativo bottino di guerra conquistato dai genovesi nel 1380 a Trieste dopo la battaglia di Chioggia.

La Grande Bellezza… e il Grande Orgoglio…

“Palazzo Giustiniani”. Foto di Paola Spinola.

Via San Lorenzo come Abu Simbel… prima parte…

La nuova strada che avrebbe dovuto risolvere i problemi viari determinati dai traffici portuali si rivelò presto insufficiente a soddisfarne le moderne esigenze. Negli anni ’30 del secolo scorso venne così presentato un progetto di raddoppio della strada che doveva collegare Piazza Dante con Via Turati demolendo le case di Canneto il Lungo e di Via dei Giustiniani. Per fortuna il delirante proposito si arenò nei meandri della burocrazia e non ebbe attuazione.

Oggi rappresenta il salotto buono del centro, ma non è stato sempre così. Da bambino infatti me la ricordo come una delle vie più trafficate della città, l’aria irrespirabile, i palazzi anneriti dalla fuliggine, i bus che arrancavano esausti in coda e le auto parcheggiate, irriverenti, davanti alla Cattedrale.

In origine la via non esisteva, non era che un dedalo di vicoli e piazzette. Nel 1835 fu al centro di una rivoluzione viaria, volta a dare sfogo alle merci che transitavano in Piazza Caricamento, che stravolse tutta l’area.

Fin qui nulla di strano ma forse non tutti sanno che per realizzare l’ambizioso progetto non solo vennero abbattuti molti edifici fatiscenti ma che alcuni vennero letteralmente segati. Le facciate smontate e arretrate di parecchi metri. Insomma un’opera di ingegneria civile non da poco.

La nuova strada che avrebbe dovuto risolvere i problemi viari determinati dai traffici portuali si rivelò presto insufficiente a soddisfarne le moderne esigenze.  Negli anni ’30 del secolo scorso venne così presentato un progetto di raddoppio della strada che doveva collegare Piazza Dante con Via Turati demolendo le case di Canneto il Lungo e di Via dei Giustiniani. Per fortuna il delirante proposito si arenò nei meandri della burocrazia e non ebbe attuazione.

Dopo i restauri dei palazzi e la pedonalizzazione per il G8 del 2001 Via San Lorenzo è diventata la strada, grazie anche ai numerosi locali che affollano la zona, del passeggio dei genovesi e dei turisti.

“Portone e lunetta in ghisa del civ. n. 2”. Foto di Leti Gagge.

Sul lato di  Via San Lorenzo il  palazzo ad angolo con accesso dal civico n. 2 di Via Turati non ha portone. Il fronte è in bugnato al piano strada mentre i due piani nobili presenta stucchi di fine ‘800 con fascia marca davanzale.

Al civ. n. 2 il fronte è invece in bugnato liscio e il portone in pannelli di ghisa lavorati a riccioli con teste leonine. La lunetta sopraluce è a verghe gigliate mentre su quella del negozio a fianco vi sono due angioletti alati che porgono delle cornucopie. L’atrio è a voluta sferica con al centro una lanterna in ferro battuto.

In Via San Lorenzo n. 3 c’è uno dei pochi palazzi che venne invece avanzato di circa 5 metri nell’area della scomparsa Piazza delle Olive. L’antica facciata risulta incorporata all’interno del palazzo, mentre la nuova si presenta con il piano terra occupato da un negozio con le vetrine in ghisa  e lamiera. Il fornice del portale è in  marmo con una curiosa testina di lupo in stucco al centro.

Timpano e cornice sono interamente di stucco. Il trave è lavorato a fasci di verghe con ai lati due testine sporgenti dette acroterii.

In cima fa capolino una testa di Minerva fra riccioli e girali sopra una cornice greca.

“Portale di Via San Lorenzo civ. n. 3”. Foto di Leti Gagge.
“Primo piano del portale del civ. n. 3”. Foto di Leti Gagge,
“Dettaglio del fastigio con testa di Minerva”.Foto di Leti Gagge.

Al civ. n. 5 il Palazzo Gio Batta Centurione (appartenente alla schiatta dei banchieri più ricchi d’Europa) meglio noto con il nome di Boggiano Gavotti. In facciata la Madonna col Bambino del sec. XVIII , un tondo in marmo con rilievo molto sporgente, attribuito allo scultore Bernardo Schiaffino. L’edificio era in origine orientato verso Canneto e venne modificato nel 1843 con la nuova facciata neoclassica lato Via San Lorenzo e con l’accorpamento del palazzo adiacente al Vico della Noce. Nel loggiato spicca il rilievo commissionato da Lorenzo Costa e realizzato da Santo Varni nel 1860. La scultura ricorda il celebre episodio del 1747, quando la rivolta popolare contro l’occupazione austriaca, iniziata nel dicembre del ’46, si stava evolvendo in senso rivoluzionario. I rivoltosi puntarono un cannone dritto contro Palazzo Ducale intenzionati a bombardarlo per dispetto contro quella borghesia che si era schierata con gli austriaci. Il senatore Giacomo Lomellini si pose a braccia aperte davanti all’arma e placò l’insurrezione.

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“Madonna col Bambino sul portale del civ. n. 5”. Foto di Leti Gagge.
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“Primo piano della Madonna col Bambino Bernardo Schiaffino”. Foto di Leti Gagge.

Da qui il proverbio “O Lomelin o l’ha averto u portego”, che sta ad indicare un gesto plateale non propriamente eroico. Al primo piano un ponticello con balaustre marmoree collega il palazzo con un giardino pensile sovrastante l’angolo fra Canneto il Curto e Vico Caprettari. Il terrazzo versa nel più totale abbandono mentre il ninfeo con la statua di Venere risulta ancora ben conservato.

“Loggiato del civ. n. 5”. Foto di Leti Gagge.

Sul portale del civ. 8 è scolpita una lapide il cui testo recita: “Patriae Ornamento / Franciscus Ronco C. F. / MDCCCXXXX”. La lunetta sopraluce in ghisa presenta una Testa di Minerva sul fornice. Osservando le finestre del secondo piano nobile si nota una cornice in stucco con fregi di ghirlande e putti e cinque bucature ad occhio di cui due con fregi a stucco.

“Portale del civ. n. 8”. Foto di Leti Gagge.
“Testa di Minerva sul portale del civ. n. 8”.Foto di Leti Gagge.

Il palazzo del civ. n. 10 a che presenta un basamento in bugnato rustico aveva l’ingresso principale in Vico San Genesio e venne arretrato di ben 10 metri per permettere la costruzione della via.

L’edificio al civ. n. 12 è il Palazzo Bandinelli Sauli in San Genesio ristrutturato nel 1852 su progetto di Ignazio Gardella. Il portale mostra colonne doriche scanalate con metope scolpite con allegorie. A sinistra quella del fiume Po con un toro, simbolo della città di Torino. A destra un Nettuno con un Giano bifronte e un castello, simbolo di Genova. Al centro lo stemma con le due città unite opera di Santo Varni. Questa era la sede della Banca Nazionale, fusione della banca di Torino con quella di Genova che costituirà l’origine ed il nucleo fondante della Banca d’Italia.

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“Portone di Palazzo Bandinello Sauli al civ. n. 12”. Foto di Leti Gagge.

Sul tetto terrazzato una balaustra marmorea con anfore e sotto un cornicione istoriato. Nel grande atrio di rappresentanza con colonne doriche si apre il cavedio tondo balaustrato. L’edificio è accorpato con l’ottocentesco palazzo Solari col quale divide l’accesso. Iniziato nel 1851 su progetto dell’architetto Carpineti il palazzo si presenta oggi con il fronte principale rivolto alla Cattedrale.

fine prima parte… continua…

San Giacomo di Sturla…

… ci si imbatte in quel che resta del trecentesco Ospitale di San Giacomo. Sull’edificio immerso in un contesto ampiamente cementificato affiorano melanconiche testimonianze di sbiaditi affreschi.


breve storia di un Ospitale perduto…

Sotto la trafficata Corso Europa, costruita negli anni ’60 con il nome di Pedemontana, esiste ancora un quartiere nel quale si possono riscontrare tracce di un lontano passato medievale. In Via Antica Romana di Quarto infatti, varcato il confine tra i quartieri di San Martino e Quarto rappresentato dal Pontevecchio (da qui il toponimo della contrada), ci si imbatte in quel che resta del trecentesco Ospitale di San Giacomo.  Sull’edificio immerso in un contesto ampiamente cementificato affiorano melanconiche testimonianze di sbiaditi affreschi.

“Il Pontevecchio sul torrente Sturla”.

Alzando lo sguardo si notano una torre ormai inglobata e una finestra con la classica bifora a sesto acuto. Al centro del prospetto campeggia l’immagine di un soldato crociato a cavallo, il valoroso San Giacomo appunto.

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“Bifora”.
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“Lo sbiadito affresco di San Giacomo in facciata”.

Merlature, decorazioni varie e stemmi abrasi completano il viaggio a ritroso nel tempo. L’ospitale dipendeva dalla vicina chiesa di San Giovanni Battista di Quarto e fungeva da ricovero per i pellegrini in viaggio verso Roma.

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“Stemmi abrasi, merlature e decori violentati da un’antenna televisiva”.
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“Tracce di decorazioni”.

L’originaria scarna cappella fu presto dotata di relativo campanile. A fine ‘700, in seguito alla promulgazione delle leggi napoleoniche che stabilivano la soppressione degli ordini religiosi, la struttura cessò la sua primitiva funzione. L’ospitale venne dismesso, sconsacrato e adibito a stalla.

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“Resti del campanile”.
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“Il Campanile sovrastato dalle costruzioni limitrofe”.

Solo in un secondo tempo i suoi locali vennero trasformati in abitazioni ad uso privato e addirittura, nella seconda metà dell’800, adattati come sede di un pastificio.

“Ancora parti dell’originario Ospitale trasformate in abitazioni”.