La Villa di Dickens

“Il Peschiere è tenuto in gran considerazione per la sua salubrità: è situato nel mezzo del più splendido panorama, entro le mura di Genova, nel cuore di tutte le passeggiate della Collina, circondato dai più deliziosi giardini (pieni di fontane, alberi di arancio, e ogni sorta di piacevolezza) che tu possa immaginare […]. All’interno, è tutto dipinto, muri e soffitti, in ogni centimetro, nel più sfarzoso dei modi. Vi sono dieci stanze per piano: solo poche sono più piccole delle più grandi stanze d’abitazione del palazzo di Hampton Court, e una è sicuramente altrettanto larga e lunga del Saloon del Teatro di Drury Lane, con una gran copertura a volta più alta di quella della Galleria Waterloo nel Castello di Windsor, anzi, a pensarci bene, molto più alta”.

“La casa in cui abitiamo non ha nulla da invidiare a un Palazzo delle fiabe”.

“Mi sono guardato attorno e credo d’aver concluso un accordo per una sistemazione alle Peschiere: spero di prendere possesso di quel Palazzo il primo d’ottobre. Ho a disposizione l’intero edificio, tranne il Piano Terra. Non so se abbiate mai visto le stanze. Sono davvero splendide, e ogni millimetro delle pareti è affrescato. I Giardini sono anch’essi bellissimi”.

“Non c’è in Italia, dicono (e io ci credo), un’abitazione più piacevole di Palazzo Peschiere […] Si trova su un’altura all’interno delle mura di Genova ma appartato dalla città: è circondato da bei giardini interni, abbelliti con statue, vasi, fontane, bacini marmorei, terrazze, viali di aranci e di limoni, boschetti di rose e di camelie. Tutti gli appartamenti sono belli per proporzioni e decorazioni; ma il grande vestibolo, alto una cinquantina di piedi, con tre grandi finestre sul fondo, che guardano sull’intera città di Genova, il porto e il mare che la circonda, offre uno dei più deliziosi ed affascinanti panorami del mondo. Sarebbe difficile immaginare una dimora più gradevole e comoda di quella che offrono le grandi stanze, all’interno; e certamente niente di più delizioso potrebbe essere immaginato dello scenario fuori, alla luce del sole o al chiaro di luna. Somiglia più ad un palazzo incantato in una novella orientale che ad una sobria e grave dimora”.

“Quanto ai palazzi, nessuno uguaglia le Peschiere per architetture, collocazione, giardini o stanze”.

“Che si possa vagare di stanza in stanza senza mai stancarsi di osservare le decorazioni fantastiche sui muri e sui soffitti, così vivaci nella loro freschezza di colori come se fossero stati dipinti ieri; o come un piano, o anche il grande ingresso su cui si aprono altre otto stanze, sia una spaziosa passeggiata; o come ci siano corridoi e camere da letto che non usiamo e che raramente visitiamo e delle quali a malapena ritroviamo la strada; o che ci sia una veduta diversa per ognuna delle quattro facciate dell’edificio, poco importa. Ma quel panorama del vestibolo è come una visione per me”.

Ecco alcuni, a dir poco entusiastici, appunti genovesi di Charles Dickens in merito alla sua nuova dimora nel Palazzo delle Peschiere in via san Bartolomeo degli Armeni n. 5 in cui si era trasferito il 23 settembre del 1844.

In precedenza aveva invece abitato per circa due mesi nella Villa Bagnarello di via San Nazaro nel quartiere di Albaro.

Il salone principale decorato dal Bergamasco con il ciclo pittorico delle storie di Ulisse. Foto dal Web.

La villa di Tobia Pallavicino, munifico commerciante in allume e ambasciatore genovese, fu edificata nel 1560 su progetto iniziale di Galeazzo Alessi con successive aggiunte di Giovanni Battista Castello, detto il Bergamasco. Chiamata delle Peschiere per via delle numerose vasche adibite ai pesci che, insieme a quattro grandi barchili, adornavano il giardino. Oggi di queste fontane ne rimane una sola attribuita allo scultore Gian Giacomo Paracca, noto come, per le sue origini ticinesi, il Vansoldo.

Prima di Dickens nella villa furono ospiti, fra gli altri, Richard Cromwell (1626-1712), uomo politico inglese figlio del celebre rivoluzionario Oliver e Vittorio Amedeo II di Savoia (1666-1732), re di Sicilia e Sardegna, duca di Savoia e Monferrato, conte di Aosta e principe di Piemonte.

All’interno gli stucchi sono di Marcello Sparzo; il piano nobile è affrescato da Ottavio Semino; le sale laterali decorate ancora dal Bergamasco e da Luca Cambiaso.

In Copertina: Villa delle Peschiere di Tobia Pallavicino.

Salita Santa Brigida

Percorrendo Via Balbi sulla destra, quasi in fondo direzione Principe, si incontra Salita Santa Brigida.

L’inizio della creuza è impreziosito dallo scenografico portale del demolito omonimo convento (nel 1890).

L’edificio venne eretto nel 1430 e, fino al 1797, anno della soppressione degli ordini religiosi, fu gestito dalle monache Romite di Sarzano.

La lapide in Salita Santa Brigida.

Di tutto ciò rimane la statua marmorea della santa svedese ricoverata all’interno della nicchia posta sopra l’archivolto.

Purtroppo la fama di Salita Santa Brigida è legata, come ricordato da apposita lapide, all’attentato delle Brigate Rosse durante il quale il procuratore Francesco Coco e i due agenti della sua scorta vennero assassinati l’8 giugno 1976.

Per non dimenticare!

La Grande Bellezza…

Salita Oregina

La Lanterna sullo sfondo vigila onnipresente mentre Salita Oregina s’inerpica nel cuore dell’omonimo quartiere fino al santuario della Madonna Regina di Genova a cui deve il nome.

Secondo la tradizione infatti, il toponimo della zona deriverebbe dall’invocazione “O Regina!”, riportata su un’immagine dipinta su un muro della Madonna collocata anticamente in cima alla collina, formula abitualmente ripetuta dai viandanti in segno di omaggio alla Vergine.

Col tempo tale locuzione, contratta in una sola parola, avrebbe finito per designare il luogo stesso dove si trovava l’immagine.

Come testimoniato dal vescovo e storico Agostino Giustiniani nei suoi “Annali”, Oregina nel XVI secolo era una borgata di campagna quasi disabitata costituita da poche casupole con modesti appezzamenti e pascoli.

«Usciti che si è dalla porta di S. Michele occorre, primo: la villa di Oregina, col fossato di S. Tomo [San Tommaso] il quale dà fortezza alla città; sono in questa villa insieme col fossato trentotto case, venti di cittadini e diciotto di paesani, quali tutte hanno terreno lavorativo.»

(Agostino Giustiniani, “Annali della Repubblica di Genova”, 1537)

Il bucolico borgo si trovava dunque al di fuori delle mura cittadine dentro alle quali venne inserito solo nel Seicento con l’erezione delle Mura Nuove.

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Salita Oregina. Foto di Maurizio Romeo

L’accesso alla collina era garantito dalla ripida crêuza, ancora oggi percorribile, di Salita Oregina, che partendo dalla porta di San Tommaso (piazza Principe) seguiva esternamente il recinto delle mura cinquecentesche giungendo al bastione del forte di San Giorgio, che dal 1818 ospita l’osservatorio meteorologico e astronomico della Marina.

Qui sul finire del XVI sec. sarebbe sorta la chiesetta intitolata alla Madonna di Loreto della quale i romiti fondatori erano devoti.

Intorno alla metà del secolo successivo il piccolo tempio venne inglobato in una grande chiesa con relativo convento francescano annesso.

Santuario di Nostra Signora di Loreto. Foto di Leti Gagge.
Scalinata di accesso al sagrato della chiesa. Foto di Leti Gagge.

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L’altare Maggiore con la statua della Madonna di Loreto.
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Primo piano della Madonna di Loreto

Il santuario assunse particolare importanza quando nel 1746 la Repubblica di Genova decise di celebrarvi la cacciata, iniziata dal Balilla, degli austriaci.

Si stabilì quindi come simbolica ricorrenza il 10 dicembre giorno della vittoria sulle aquile bicipiti asburgiche.

Nel 1847 in occasione del centounesimo anniversario della rivolta si radunarono alcune migliaia (30000 secondo le cronache) di patrioti. L’imponente corteo partito dall’Acquasola che, attraversò il centro e imboccato Via Balbi, raggiunse il santuario.

Qui, sul sagrato della chiesa, venne eseguito per la prima volta dalla Filarmonica Sestrese, al cospetto dei suoi autori Mameli e Novaro, il Canto degli Italiani, quello che sarebbe poi diventato nel 1946 l’ Inno Nazionale italiano.

Targa della Scalinata Canto degli Italiani.

Nell’ottica dell’ampliamento urbanistico della città di Genova dovuto al forte sviluppo portuale, il quartiere di Oregina fu interessato dalla messa in opera di Via Napoli, la principale arteria del quartiere lato monte. La strada fu tracciata alla fine del XIX secolo e ultimata, nei tratti delle odierne Via Bari e Via Bologna, all’inizio del secolo seguente.

In copertina: Salita Oregina. Foto di Leti Gagge.

La lapide di Vico Biscotti

L’attuale conformazione di vico Biscotti, completamente distrutto dai bombardamenti del 1942, costituisce uno dei peggiori esempi di ricostruzione post bellica.

Il nome del caruggio rimanda all’omonima nobile famiglia di fede guelfa che, originaria di Lucca nel XV sec., nel 1528 fu ascritta nell’albergo dei Grillo.

Tutta l’area compresa fra S. Agostino e piazza delle Erbe che ospitava le antiche piazza dei Tessitori e vico Mezzagalera (l’ultima sede del ghetto ebraico), negli anni ’90 è stata occupata da una colata di cemento: terrazze di asfalto e posteggi interrati sono sorti sulle macerie dei bombardamenti.

Il vico costeggiava un tempo, sul retro della chiesa di San Donato dove vi era anche un piccolo cimitero, l’Oratorio della Morte e della Misericordia.

I membri di tale Confraternita erano preposti alla sepoltura dei poveri durante le pestilenze.

A ricordo di questo macabro passato rimane solo una sbiadita lapide del del 1885 che racconta -appunto- della nefasta peste del 1656.

In copertina: la lapide di Vico Biscotti.

Salita Pietraminuta

Salendo Corso Dogali, dopo il quarto tornante sulla sinistra, più o meno all’altezza dell’Orto Botanico si nota all’interno di un cancello privato l’ottocentesca targa del civico n. 19 che rimanda al toponimo di Pietraminuta.

Da qui lo spunto e il pretesto per raccontare la storia dell’ampliamento verso ponente della cinta muraria, deliberato nel 1346 sotto il dogato di Giovanni da Murta (secondo doge della Repubblica dopo Simone Boccanegra).

I lavori completati nel 1350 prevedevano mura che, partendo dalla torre di Castelletto, scendevano a S. Agnese, risalivano per Carbonara per ridiscendere verso Pietraminuta (odierno Corso Dogali) e Montegalletto (attuale castello D’Albertis) e proseguire fino alla chiesa di San Michele sotto la quale si apriva la porta di S. Tomaso.

Come raccontato dal Dellepiane nel suo preziosissimo “Mura e Fortificazioni di Genova” da un atto notarile del 9 novembre 1346 del nostro Tomaso di Casanova si evince che: ” (…) la parte esecutiva per la costruzione dei bastioni di Pietraminuta venne affidata ai maestri antelami Giorgio Scriba, Giovannino da Biegna, Giacomo Piuma, Marchisio de Ceso, Antonio Sachero e Giovanni Gasparino”.

“Veduta di Genova cin il baluardo di Pietraminuta”. Immagine tratta da “Mura e Fortificazioni di Genova” di Carlo Dellepiane.

Si stabilì un’altezza delle mura compresa fra 18 e 25 palmi e una larghezza di sei, sette palmi. La parte superiore del muro doveva essere munita di parapetto alto cinque palmi coronato da merlatura di quattro palmi.

Si convenne che nella località di Pietra Minuta il muro difensivo doveva essere sormontato da tre torri; una sopra la piazza ivi esistente, un’altra sopra la strada ed infine l’ultima so doveva erigere sul terreno comune ai Monasteri di Pietra Minuta e di Santa Marta verso il Guastato.

Salita di Pietraminuta di arrampica nel buio da Via Balbi per guadagnarsi un solare e arioso panorama sui bastioni del Montegalletto.

Da Via Balbi, tra il collegio dei Gesuiti e la chiesa di San Carlo l’antico bastione è ancora oggi percorribile fino a Via Kassala.

In copertina: Salita Pietraminuta nel tratto in alto. Foto di Giovanni Sechi.

L’Arciconfraternita della Morte ed Orazione

L’orribile edificio di vetro e cemento in piazza Santa Sabina che ospita una filiale della banca Carige sorge sulla demolita omonima chiesa fondata nel VI sec., luogo di ristoro per i pellegrini della Terrasanta.

“Filiale Carige sui resti della chiesa”.
“La chiesa venne soppressa e bombardata nel maggio 1944 durante l’ultimo conflitto e successivamente inglobata dalla banca”.
“L’abside della chiesa. Vi si accede da vico della Croce Bianca”. Sullo sfondo il palazzo Belimbau in piazza della Nunziata. Foto di Roberto Crisci.

Dei tesori della chiesa resta solo, nel salone degli sportelli, la Santissima Incarnazione di Bernardo Strozzi. Quello che è sopravvissuto dei traslochi successivi alla sconsacrazione del 1939 è stato trasferito nella nuova Santa Sabina in via Donghi.

“La Santissima Incarnazione di Bernardo Strozzi dell’abside della ex chiesa, oggi banca”.

A fianco della ex chiesa si trova l’oratorio della Veneranda Arciconfraternita della Morte con la sua eloquente effigie scolpita in facciata: un terrificante rilievo marmoreo adorno di simboli macabri, teschi e ossa incrociate a celebrazione della morte.

Da notare le inquietanti clessidre a simboleggiare l’inesorabile scorrere del tempo e quindi la nostra provvisoria presenza su questa terra.

“L’ottocentesca facciata dell’oratorio in via delle Fontane”.

Qui aveva sede la Casaccia che si occupava di assistere i malati e soprattutto della sepoltura dei poveri durante le epidemie di peste colera.

In copertina: il simbolo della Confraternita. Foto di Bruno Evrinetti.

Il Presepe di Nostra Signora del Monte


Recentemente è stato inaugurato in piazza De Ferrari il presepe storico del santuario di Nostra Signora del Monte, ospitato nella sala Trasparenza al piano terra del palazzo della Regione.

Il presepe è composto complessivamente da una settantina di statuine ascrivibili allo scultore genovese Pasquale Navone (1746 –1791), erede della grande scuola maraglianesca e produttore di un grandissimo numero di figure del presepe tradizionale genovese.

Oltre all’importanza storica e artistica tale rappresentazione si distingue per il fatto di essere fedelmente inserita nel lussuoso paesaggio architettonico della Genova di inizio ‘600 descritta da Rubens.

“La scenografia – spiega Giulio Sommariva, conservatore del museo dell’Accademia Ligustica – è un omaggio alla città di Genova, che viene rappresentata nel suo momento di massimo fulgore artistico, ovvero durante l’epoca di Rubens. I palazzi sono proprio quelli disegnati da lui, raccolti e incisi nel suo celebre libro stampato ad Anversa nel 1620”.

Particolari anche i costumi: “Alcuni sono più antichi, altri più tardivi, ma riprendono comunque la tradizione genovese settecentesca”. La sceneggiatura è frutto del lavoro degli allievi dell’Accademia di belle arti che hanno ripreso le incisioni di Rubens per creare uno speciale ‘teatrino’ tridimensionale.

Natale 2020

A street in Genoa 1851

“A street in Genoa” così è intitolato questo splendido dipinto in olio del pittore James Holland (1799-1870).

Nel 1851 infatti l’artista inglese soggiornò a Genova dove eseguì alcune delle sue opere più apprezzate:

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“Chiesa di San Pietro della Porta in Piazza Banchi”. Immagine tratta da https://www.pittoriliguri.info/pittori-liguri/holland-james/
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“Veduta della Foce” Immagine tratta da https://www.pittoriliguri.info/pittori-liguri/holland-james/
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“Lavandaie presso il fossato di S. Ugo“. Immagine tratta da https://www.pittoriliguri.info/pittori-liguri/holland-james/

Tra queste quella che mi ha incuriosito maggiormente è la vivace rappresentazione di via della Maddalena.

“Veduta della Lanterna dalla Villa del PrincipeImmagine tratta da https://www.pittoriliguri.info/pittori-liguri/holland-james

Lo si evince ingrandendo l’immagine sopra la targa del negozio dei cappelli dove è infatti appuntato “quartiere della Maddalena Genova”.

Anche se l’edicola sullo sfondo non corrisponde alla realtà (al suo posto oggi vi è quella di San Francesco da Paola) perchè l’originale settecentesca Madonna dell’Immacolata Concezione qui rappresentata è andata perduta, siamo probabilmente all’altezza della casa natale di Simone Boccanegra.

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“Altra versione dello stesso scorcio”. Immagine tratta da https://www.pittoriliguri.info/pittori-liguri/holland-james/

Spettacolari i dettagli dove, tra sapienti giochi di luce e chiaro scuri assai verosimili, tipici dei caruggi, si muovono i protagonisti della scena: in primo piano sulla destra la figura seduta a terra accanto ad una botticella di legno sembra appisolata; al centro della mattonata una coppia in abiti signorili si sofferma ad ammirare le merci di una venditrice ambulante seduta sul ciglio; sull’altro lato cammina una signora con gonna rossa e scialle bianco sulle spalle; tra la folla s’intravvede un’altra donna con cappello bianco che avanza in direzione contraria; sullo sfondo s’intuiscono, sfumati in lontananza, gli altri personaggi che affollano il vicolo; la presenza del camallo che procede con un sacco sulle spalle conferisce dinamicità alla scena; parcheggiata su un lato una elegante portantina nera con finiture dorate accanto alla quale riposa assiso sopra un gradino un facchino. Chissà forse i suoi passeggeri sono gli eleganti signori di cui sopra o altri che aspetta escano dall’antistante negozio di cappelli?

Fuori dalla porta della bottega una donna vestita di scuro con velo bianco sembra discorrere con le fioraie che espongono le proprie mercanzie sul tavolino in primo piano.

James Holland con questo delizioso dipinto ci ha lasciato una splendida istantanea di una Genova che non c’è più e che nemmeno attraverso foto o cartoline antiche sarebbe stato possibile raccontare.

La cripta del Principe

Piazza San Matteo con i suoi splendidi palazzi e la chiesa a fasce bicrome è stata da tempo immemore feudo della famiglia D’Oria.

Qui all’interno dell’edificio religioso gentilizio è sepolto il suo esponente più celebre ed importante, l’ammiraglio, Pincipe di Melfi, Andrea.

In corrispondenza dell’altare principale della chiesa, sceso un elegante scalone di marmo, si accede infatti al suo mausoleo, costruito fra il 1543 e il 1547 dal grande scultore fiorentino, Giovanni Angelo Montorsoli.

In un ambiente intimo, raccolto ma allo stesso tempo maestoso si trova la tomba a sarcofago decorata con due imponenti angeli che reggono l’effigie del nobile genovese.

Lì accanto, custodita in una teca di vetro, la leggendaria spada di Andrea donatagli da Papa Paolo III nel 1535.

Tale arma costituiva anelato riconoscimento nella cristianità per pochi eletti condottieri che potevano così fregiarsi del prestigioso titolo di Defensor della Santa Croce.

L’ammiraglio la indossò fieramente per 25 anni fino al 1560, anno della sua morte, in tutte le cerimonie ufficiali. Come da disposizione testamentaria volle che fosse posta accanto a se nella cripta di San Matteo nel mausoleo dove venne sepolto insieme alla moglie Peretta e al nipote prediletto Giannettino ucciso durante la congiura dei Fieschi del 1547.

In copertina: la cripta con il mausoleo in San Matteo. Foto di Stefano Eloggi

Sui canali della Darsena

No, non ci troviamo sui canali di Venezia ma in darsena, nel cuore antico del porto medievale della Superba.

Qui un tempo sorgeva la darsena vera e propria costruita dopo il 1284 con i proventi della vittoriosa battaglia della Meloria contro Pisa.

La darsena originaria (dall’arabo dār-ṣinā῾a “casa dell’ industria”, quindi “fabbrica” in genovese) era divisa in tre specchi d’acqua complementari: darsena delle barche, olio e vino destinata alle imbarcazioni di piccolo cabotaggio; darsena delle galere ricovero delle grandi navi mercantili e da guerra; arsenale spazio di costruzione e armamento delle galee da guerra.

Nel 1312 a sua protezione venne progettato un imponente sistema di fortificazioni che prevedeva l’erezione di mura maestose. Due poderosi torrioni ne delimitavano l’accesso.

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Veduta dei Genova nel 1481 realizzata da Cristoforo Grassi nel 1597. Al centro del quadro custodito al Museo galata si riconoscono le mura e i poderosi torrioni dell’arsenale.

Per tutto il Medioevo il porto manterrà questo assetto polifunzionale e solo con la caduta della gloriosa Repubblica marinara nel 1797 la darsena verrà completamente militarizzata.

Nella seconda metà del 800 poi, durante il Regno Sardo, con il suo interramento si rinuncerà definitivamente alla vocazione militare dell’arsenale. Al suo posto verrà costruito un nuovo grande bacino di carenaggio maggiormente idoneo alla ricezione dei nuovi colossali bastimenti trans oceanici.

Alla fine dello stesso secolo il porto diviene proprietà comunale e assume la conformazione, con i suoi silos e magazzini, di emporio commerciale denominato Portofranco.

L’omonimo quartiere riveste oggi, grazie all’Acquario, al museo Galata e alla rivitalizzazione del Porto Antico, grande interesse e importanza in ambito turistico.

Non va tuttavia dimenticata, in virtù della presenza in loco della facoltà di Economia e Commercio, anche una significativa impronta di stampo culturale e universitario.

Un panoramico appartamento sui canali di Ponte Morosini era stato scelto negli anni ’90 da Fabrizio De Andre’ come “buen ritiro” e nido sul mare natio.

La Grande Bellezza…

In copertina: canali in Darsena. Foto di Leti Gagge.