Il Presepe de A Compagna

Nel cuore dei caruggi, in Piazza della Posta Vecchia 3/5, è possibile visitare il presepe de A Compagna, l’associazione culturale che dal 1923 si occupa di custodire e promuovere le nostre tradizioni.

La scena è ambientata sulle alture di Genova nel primo ottocento: sullo sfondo si vede infatti la città di notte, scarsamente illuminata come era senz’altro allora, con la collina di Carignano, il porto, la Lanterna e la stella cometa.

Cominciando il nostro percorso da sinistra in alto si nota un gruppetto di case contadine con i loro abitanti; tra le case c’è un pino marittimo, quella più a destra ha l’uscio ombreggiato da un pergolato e davanti due ulivi; nella fascia sottostante c’è un cavallo bardigiano che bruca l’erba: due galline di razza “gigante nera”; un albero di cachi al quale è legato un asino del monte Amiata; una bezagnina che indossa il mezzero siede vicino al suo banchetto mentre prepara il pesto nel mortaio.

Taraffo e Paganini. Foto di Giovanni Caciagli.
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Nicolò Paganini. Foto di Stefania De Maria
Paciugo e Paciuga. Foto di Giovanni Caciagli.
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Maria Drago. Foto di Stefania De Maria.

Dietro l’albero spoglio ci sono Paciugo e Paciuga; un pò più a destra c’è Pasquale Taraffo che è stato definito il “Paganini della Chitarra”.

Il pescatore. Foto di Giovanni Caciagli.
Il camallo. Foto di Giovanni Caciagli.

Più avanti ecco Niccolò Paganini che si appresta a suonare il suo violino; ancora più a destra c’è la signora Maria Drago, madre di Mazzini che ha posato gli occhiali sullo scrittoio e tiene in mano una lettera del figlio; in primo piano un falegname con gli attrezzi da lavoro e il grembiule di jeans che parla con un mendicante; più a destra ecco un camallo col tradizionale scosalin (il grembiulino) e il gancio appeso alla cintura.

Il falegname. Foto di Giovanni Caciagli.

Nella parte centrale del presepio in alto si nota un seccatoio per le castagne, davanti un contadino sta tirando la corda per legare una fascina; a destra c’è un fienile con le mucche di razza cabannina; dietro per scendere nelle fasce sottostanti, sostenute dai muri a secco, c’è una tipica creuza presidiata da un piccolo cinghiale.

In primo piano c’è un pastore con la coperta sulle spalle seguito da due pecore di razza “marrana”, appena dietro un cacciatore col suo cane e a destra due pescatori. Uno dei due porta le reti in spalla e il carretto col pescato sotto lo sguardo attento e speranzoso di un gattone bianco; il secondo, un pescatore di acqua dolce, con il saio in spalla; ancora più a destra una contadina davanti al suo pollaio; per terra una cesta di olive appena colte da portare al frantoio.

I cavalli dei re Magi. Foto di Giovanni Caciagli.

I cavalli dei re Magi in primo piano, trattenuti dal palafreniere, rimandano agli antichi presepi secenteschi dove sostituivano i cammelli.

Nella parte destra ecco il protagonista ovvero il carro del Confeugo trainato dai buoi che trasporta il ceppo di alloro da bruciare davanti a Palazzo Ducale; a fianco procede l’Abate del Popolo vestito di nero, che va ad incontrare il Doge; davanti a questo gruppo c’è Caterina Campodonico (la celebre venditrice di noccioline del cimitero di (Staglieno) con il suo cesto di mercanzie.

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Il carro dei buoi con L’Abate del Popolo. Foto di Stefania De Maria.

Dietro c’è una casetta con l’insegna de a Compagna e lo stendardo con la croce di San Giorgio.

La casetta con la bandiera di san Giorgio. Foto di Giovanni Caciagli.

L’edificio sulla destra invece rappresenta l’Orfanotrofio Sant’Antonio di Voltri, opera pia istituita dalla Duchessa Maria Brignole Sale De Ferrari che è seduta davanti con in braccio un neonato e attorno delle orfanelle già grandine. Sul muro è riprodotta la lapide commemorativa ivi esistente. Vicino, un po’ in disparte, Carlo Giuseppe Vespasiano Berio, il fondatore dell’omonima biblioteca comunale.

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La natività. con Gelindo e Gelinda. Foto di Stefania De Maria

Finalmente siamo giunti alla Natività ambientata, all’angolo di destra, in un fienile con il tetto di ciappe di ardesia; sulla sinistra si sono posati due piccioni.

Inginocchiato di fronte al Bambino c’è Gelindo, secondo la tradizione il primo ad accorrere in soccorso di Gesù portando in dono delle uova. La moglie Gelinda invece in piedi, avvolta nel suo mezzero, gli porge un telo per fasciare i neonati.

A destra il Padre Santo porta un cestino di vimini e regge un crocifisso.

Il Padre Santo. Foto di Stefania De Maria.

Ogni dettaglio ha quindi un riferimento e una collocazione puntuale nella città. Non manca infine un bel tappeto di erba cocca che come tradizione si raccoglie nei nostri boschi.

L’idea di realizzare questo presepe nasce nel 2009 su iniziativa di Yvonne Migliori e Angelo “Sergio” Diana due artigiani che con passione si sono occupati di realizzare le statuine in terracotta o cartapesta. I personaggi sono dipinti a mano o rivestiti in stoffa rispettando i costumi dell’epoca. Alcuni sono manichini riccamente abbigliati. Recentemente a questi due appassionati si è unito Mario Gerbi che ha lavorato in legno le miniature degli strumenti di Paganini e di Taraffo e dello scrittoio di Maria Drago con il calamaio, la penna e gli occhiali.

In copertina: Il Presepe della Compagna. Foto e testo di Stefania De Maria.

Natale 2021.

Curiosando per il Fossatello

La piazza e la via del Fossatello occupano la zona che in epoca romana era nota come il Campo di Marte, ovvero quello spazio destinato ad accampamento dove si svolgevano le esercitazioni militari.

Prima dell’erezione nel 1155 delle mura del Barbarossa il Fossatello era una zona di campagna extra moenia attraversata da un ruscello, il rio Fossatello appunto, caratterizzata da sparute casupole in legno.

Piazza Fossatello. Foto di Leti Gagge.

A partire dal 1158, quando la contrada era ormai dentro le mura i Piccamiglio, proprietari della maggior parte delle abitazioni in zona, vi costruirono la piazza.

La torre di Piccamiglio spunta fra i tetti. Foto di Stefano Eloggi.

Nel 1308 si ha curiosa notizia della presenza in loco di bagni pubblici adibiti ai soli uomini.

Dal 1540 al 1870, quando fu trasferito in Piazza Bandiera, la piazza ospitò il mercato di frutta e verdure.

La fontana di Piazza Bandiera. Foto di Leti Gagge.

Per soddisfare la conseguente necessità di acqua la piazza nel 1844 fu dotata di una fontana fatta pervenire appositamente da Soziglia.

Al civ. n. 2 della piazza si incontra il cinquecentesco Palazzo Babilano e Cipriano Pallavicini.

Il portale originario dell’edificio, attribuito ai fratelli Michele e Antonio Carlone, venne venduto al Victoria Albert Museum di Londra.

Prospetto del Palazzo Pallavicino. Foto di Leti Gagge.

Nel 1840 lo stabile fu svuotato e rialzato. Il prospetto completamente ripensato adornato in stile neoclassico con statue, putti sui timpani delle finestre e un cornicione con medaglioni imperiali e fiori.

Al civ. n. 9r si nota invece una nicchia che accoglie la statua di San Giovanni Battista benedicente.

Edicola di San Giovanni Battista.

Al civ. 3r ecco un’altra edicola di Madonna col Bambino con struttura originale settecentesca e dipinto moderno dell’artista Ugo Lombardo.

Edicola di Madonna col Bambino. Dipinto di Ugo Lombardo.

All’angolo fra la via e la piazza ecco un palazzo medievale con sulla facciata brani in pietra bianca e nera.

Qui nei quattro grandi archi ogivali tamponati a piano strada ha sede l’antica e rinomata Pasticceria Liquoreria Marescotti.

Liquoreria Marescotti. Foto di Leti Gagge.

Al civ. n. 2 purtroppo in pessime condizioni l’elaborato cinquecentesco portale attribuito ai maestri toscani Donato Benti e Benedetto da Rovezzano.

Portale di Via Fossatello n. 2

All’incrocio con Vico San Pancrazio è possibile poi ammirare la secentesca Madonna del Cardellino. La peculiarità di questa edicola sta nel fatto che è costituita da due elementi distinti: un dipinto della Vergine ad olio su ardesia il primo, un baldacchino sempre di ardesia sopra che accoglie il Padre Eterno Benedicente in stucco, il secondo.

La Madonna del Cardellino.

In copertina: Piazza del Fossatello. Foto di Leti Gagge.

Vico dei Tre Re Magi

Per me che nei primi anni ’80 giocavo nei campetti di calcio di terra vico dei Tre Re Magi è un luogo del cuore.

Quegli spazi ricavati tra le macerie erano noti come i campi di San Donato ed erano frequentati dai ragazzi di Ravecca contro i quali, noi di Carignano, disputavamo interminabili sfide a pallone.

Oggi la zona è stata recuperata, i campi da gioco ristrutturati in erba sintetica, e le macerie per fortuna dal 2012 hanno lasciato spazio ai vivaci Giardini Luzzati sotto i quali resiste persino un anfiteatro romano di quasi duemila anni.

Qui è stata girata una scena del film ‘Figurine” del 1997 del regista genovese Giovanni Robbiano in cui il protagonista Alberto, un pargolo di 10 anni, è a casa di un amichetto la cui madre esercita il mestiere più antico del mondo e tra un cliente e l’altro prepara con disinvoltura la merenda.

La pellicola ambientata nella Genova del 1969 racconta, attraverso gli occhi di un bimbo con la passione delle figurine e del Genoa, le vicende private della propria famiglia nel contesto turbolento di quegli anni.

Figurine rappresenta così un colorito spaccato della doppia anima proletaria e borghese della città. Conflitti, contraddizioni, ipocrisie della società di quel periodo vengono elaborati con la dolorosa sensibilita di un bambino.

Fra gli attori Piero Natoli, Eliana Miglio, Giulio Scarpati e un gustosissimo Enzo Jannacci.

La contrada prende il nome dallo scomparso oratorio dei Re Magi. Il trecentesco edificio religioso, ristrutturato nel ‘600 fu gravemente bombardato durante la seconda guerra mondiale.

Alcuni arredi si sono salvati e sono conservati presso il Museo di S. Agostino mentre sono andati irrimediabilmente perduti gli affreschi di Lazzaro Tavarone, Luca Cambiaso e di Bernardo Castello che ne adornavano la volta.

La Grande Bellezza…

In copertina: Vico dei Tre Re Magi. Foto di Leti Gagge.

La Campana della London Valour

Il 9 aprile 1970 è una data scolpita nella memoria dei genovesi un pò attempati come me. A dire il vero io nacqui l’anno seguente ma quello che accadde lo rivissi nei racconti dei miei genitori che osservarono consumarsi la tragedia dalle finestre di casa in Corso Saffi.

Quel giorno infatti all’imboccatura del porto di Genova naufragò il mercantile britannico London Valour. A circa 300 metri dalla diga Duca di Galliera, causa una devastante mareggiata, la nave perse l’ancoraggio e si schiantò sulla scogliera. Venti membri dell’equipaggio, prevalentemente marinai asiatici, persero la vita.

I venti che soffiavano a 100 km all’ora avevano prodotto una libecciata con onde alte oltre quattro metri che avevano reso proibitivi i soccorsi di ormeggiatori, rimorchiatori, Nucleo Sommozzatori Carabinieri, Capitaneria di porto e Vigili del Fuoco. Tutti si erano comunque prontamente mobilitati.

Un sorridente Comandante Enrico sulla sua Libellula.

In particolare l’intervento di soccorso compiuto dalla motovedetta CP 233 della Capitaneria di Genova, l’unica a raggiungere lo scafo, fu una delle operazioni di soccorso più difficili mai condotte dalle Capitanerie di Porto. Il tenente di vascello Giuseppe Telmon ed i suoi sette uomini furono poi insigniti, per il loro gesto eroico con la Medaglia al valore di Marina, d’oro per il comandante, d’argento per l’equipaggio. Questi uomini misero infatti in grave pericolo la propria vita, riuscendo a portare in salvo ben 26 persone. Altre benemerenze vennero rilasciate al Corpo Piloti del Porto e ai Vigili Sommozzatori.

Ma il ricordo più sentito e commosso dei genovesi va senza dubbio al maggiore dei Vigili del Fuoco Rinaldo Enrico che, contro il parere di tutti viste le avverse condizioni, con il suo elicottero il “Libellula” si alzò in volo per gettare in mare, nel frattempo resosi catramoso dalle perdite dello scafo, più salvagenti possibili.

Per questo coraggioso comportamento nel luglio del 1975 gli fu conferita postuma la medaglia d’oro al valor civile ma la cittadinanza, già un paio d’anni prima, aveva voluto ricordare il suo eroe, nel frattempo morto durante un’esercitazione, apponendo una targa di ringraziamento in lingua genovese nel borgo marinaro di Vernazzola.

La targa posta sul molo di Vernazzola nel quartiere di Sturla.

Una simile tragedia non potè non tradursi in una struggente canzone “Parlando della London Valour” di De Andrè, il cui intimo amico il poeta e marinaio Riccardo Mannerini era a sua volta amico personale del maggiore Enrico.

Presso i Magazzini del Cotone nel Porto Antico un’altra lapide ricorda la terribile catastrofe riportando proprio i versi di Faber.

Lapide presso i Magazzini del Cotone. Foto di Elisabetta Massardo.

I marinai foglie di coca
Digeriscono in coperta
Il capitano ha un amore al collo
Venuto apposta dall’Inghilterra
Il pasticcere di via Roma
Sta scendendo le scale
Ogni dozzina di gradini
Trova una mano da pestare
Ha una frusta giocattolo
Sotto l’abito da tè E la radio di bordo
È una sfera di cristallo
Dice che il vento si farà lupo
Il mare si farà sciacallo
Il paralitico tiene in tasca
Un uccellino blu cobalto
Ride con gli occhi al circo Togni
Quando l’acrobata sbaglia il salto E le ancore hanno perduto
La scommessa e gli artigli
I marinai uova di gabbiano
Piovono sugli scogli
Il poeta metodista
Ha spine di rosa nelle zampe
Per far pace con gli applausi
Per sentirsi più distante
La sua stella si è oscurata
Da quando ha vinto la gara
Di sollevamento pesi E con uno schiocco di lingua
Parte il cavo dalla riva
Ruba l’amore del capitano
Attorcigliandole la vita
Il macellaio mani di seta
Si è dato un nome da battaglia
Tiene fasciate dentro il frigo
Nove mascelle antiguerriglia
Ha un grembiule antiproiettile
Tra il giornale e il gilè E il pasticciere e il poeta
E il paralitico e la sua coperta
Si ritrovarono sul molo
Con sorrisi da cruciverba
A sorseggiarsi il capitano
Che si sparava negli occhi
E il pomeriggio a dimenticarlo
Con le sue pipe e i suoi scacchi
E si fiutarono compatti
Nei sottintesi e nelle azioni
Contro ogni sorta di naufragi
E di altre rivoluzioni
E il macellaio mani di seta
Distribuì le munizioni

Fonte: LyricFind Compositori: Massimo Bubola / Fabrizio De Andrè Testo di Parlando del naufragio della London Valour © Universal Music Publishing Group.

Chiesa anglicana dello Spirito Santo in Piazza Marsala 3. Foto di Leti Gagge.

In Piazza Marsala all’interno della chiesa anglicana dello Spirito Santo è custodita la campana, a perenne memoria di quella nefasta tragedia, della London Valour.

«E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te.» Cit da “Per chi suona la campana ” romanzo di Ernest Hemingway del 1940.

In copertina: la campana della London Valour. Foto di Leti Gagge.

Il Monumento del Diavolo

Finalmente è stata colmata la gravosa lacuna. Eh si perché, incredibile a dirsi, fino al 21 ottobre scorso, Genova non aveva mai dedicato un monumento ad uno dei suoi più illustri figli, Niccolò Paganini.

La statua realizzata dallo scultore bresciano Livio Scarpella è stata collocata davanti all’ingresso del Carlo Felice, il principale teatro cittadino.

Alla presenza delle autorità e del celebre critico d’arte Vittorio Sgarbi nonché presidente della Fondazione Pallavicino promotrice dell’iniziativa è stato così, all’imbocco della Galleria Giuseppe Siri, svelato il manufatto.

Scarpella, spiega Sgarbi, “ha stravolto la sua prima immagine statica di Paganini, che viene da una bellissima invenzione di Ingres. Poi ha capito che aveva sbagliato: aveva rappresentato il corpo ma non l’anima. Così è diventato scultore dell’anima di Paganini: lo ha fatto elettrico, dinamico, col suono che sembra uscire dal violino che si aggancia sotto il mento, con una forma del naso grifagna come per far diventare il violino una parte del suo corpo”.

La statua, in bronzo, alta 2 metri e 5 centimetri, è ricoperta da patina dorata «per impreziosirla e perché viva anche di luce propria, per caricarla di effetti – dice il cinquantenne artista bresciano, ieri protagonista con la sua creatività a Genova -. Ha tratti un po’ diabolici, questa statua. Come vuole l’immagine comune che ci è stata tramandata di lui, da divo attento alla sua immagine quale fu. E siccome il maestro era un virtuoso del violino anch’io mi sono espresso con virtuosismi dell’arte scultorea, curando particolari, ricorrendo a raffinatezze e ai cosiddetti capricci» che per una fascinosa simmetria. Scarpella richiama così i celebri «Capricci» del compositore.

Insomma un po’ luciferino, come vuole la tradizione ed un po’ rock star del primo ’800 come recentemente ripensato in chiave più moderna.

“Non ci sarà mai più un secondo Paganini”.

Franz Liszt. Compositore ungherese (1811-1886).

Genova. Novembre 2021.

In copertina: Il monumento a Paganini. Foto di Salvatore Camba.

Il Dito Medio

L’usanza del dito medio alzato come insulto risalirebbe alla Guerra dei Cent’anni tra inglesi e francesi: i figli di Albione stavano vincendo la guerra grazie a continue scorribande nel territorio francese.

I francesi si avevano una ben organizzata cavalleria, ma gli inglesi vantavano un altrettanto efficiente contingente di arcieri.

Ad esempio nel 1346 a Crecy l’esercito francese subì pesanti perdite di cavalieri sotto una copiosa grandinata di frecce inglesi. In quell’occasione i Balestrieri genovesi al soldo di Giovanni II re di Francia furono presi di sorpresa e, causa la velocità dell’azione nemica nello scagliare dardi con inimmaginabile frequenza, non riuscirono a proteggere la tanto temuta cavalleria transalpina.

Migliaia di Balestrieri genovesi al diretto comando dei generali Doria e Grimaldi furono sconfitti – ad onor del vero – non solo dalla nefasta parabola delle frecce nemiche ma soprattutto dall’utilizzo, per la prima volta, delle rumorose e defragranti bombarde britanniche. Ripiegando in ritirata i Balestrieri furono travolti dalla cavalleria stessa mentre fuggiva spaventata per quegli spaventosi e sconosciuti boati.

E’ nella battaglia di Agincourt nel 1415 che apparve il saluto a “due dita”.
I francesi, con la loro superiorità numerica, prevedevano una facile vittoria.

Il consiglio di guerra emanò una direttiva in base alla quale ad ogni arciere inglese fatto prigioniero sarebbe stato tagliato il dito indice e medio poiché queste erano le dita necessarie per tirare indietro la corda.

Purtroppo per i Francesi ad Agincourt gli eventi non si svolsero come sperato ma ci fu invece una decisiva vittoria inglese.

Da qui deriva il gesto denigratorio, non a caso tipico dei paesi anglosassoni, del dito medio e indice alzati con il dorso della mano rivolto all’offeso. Era questo infatti il gesto (con due dita e non con una) che gli arcieri inglesi non catturati dai francesi, mostravano agli avversari prima di ogni battaglia, la classica “V” usata ancora oggi dagli inglesi a mo’ di offesa, da non confondersi con la “V” di “vittoria”, resa celebre da Winston Churchill, in cui a essere rivolto verso l’esterno è il palmo della mano e non il dorso.

Dopo la battaglia, e in quelle successive, gli arcieri inglesi con le loro dita intatte salutavano in questo modo i francesi.
Il gesto era sia un insulto che un monito. Si voleva così ricordare ai francesi che le due dita dell’arciere erano rimaste intatte e che era ancora un avversario da non sottovalutare.

In Copertina: Immagine tratta dal sito A.S.D Compagnia Arcieri Elimi.

Salita della Tosse

Nel quartiere di San Vincenzo si dipana una creuza tanto dimenticata quanto caratteristica denoninata Salita della Tosse.

In epoca romana costituiva un tratto della via Aemilia Scauri sulla quale transitò, alla volta della Tuscia (la VII Regio amministrativa che sotto Augusto comprendeva Gallia cisalpina, Toscana, Umbria, Lazio e mar Tirreno), Cesare con le sue legioni. Per questo motivo venne identificata come Montà (salita) della Tuscia.

Nel periodo imperiale sotto Augusto la VII Regio

Il toponimo della tosse compare solo nell’ottocento con la letterale traduzione dal genovese (Tuscia significa Tosse) in italiano dei topografi piemontesi.

Altri storici, in merito all’intitolazione della salita, rimandano invece alla presenza nel medioevo di un’edicola votiva della Madonna, chiamata della Tosse appunto, alla quale i genitori si affidavano per i bambini affetti da malattie respiratorie.

Nel 1975 nel caruggio ebbe sede l’omonimo Teatro della Tosse trasferitosi poi in S. Agostino nel 1986.

L’ultima palazzina sulla sinistra fu invece la dimora e il laboratorio del grande scultore genovese, celebre per i suoi monumenti funebri, Santo Varni.

Salita della Tosse | scandivano ragazze rosse. | Ragazze che in ciabatte | e senza calze […] | andavano, percorse | da un brivido, sulla salita | che anch’io facevo, solo, | già al canto d’un usignolo. || Genova di tutta la vita | nasceva in quella salita. 

Cit. Giorgio Caproni (1912-1990) poeta.

La Grande Bellezza…

In copertina: Salita della Tosse foto di @iperdrepi.

Vico delle Compere

Quel breve caruggio di nome Vico delle Compere che da Sottoripa collega Piazza De Marini con Banchi non ha alcun nesso con lo shopping.

Il toponimo delle Compere rimanda infatti all’ingegnoso sistema economico fondato sul concetto di prestito pubblico con il quale i genovesi finanziavano imprese militari e opere di interesse comune.

Qui, negli scagni del vicoletto, avvenivano dunque le transazioni finanziarie che a partire dal 1407, anno della sua fondazione, verranno poi accorpate sotto il nome di Compere del Banco di San Giorgio.

All’altezza del civ. n. 2 si notano ancora le tracce di un antico porticato in pietra decorato con archetti e sovrapporta in pietra nera con il trigramma di Cristo e due fregi e riccioli con iscritte le lettere B e P.

La Grande Bellezza…

In copertina: Vico delle Compere. Foto di Stefano Eloggi.

Il Pallio di San Lorenzo

Nell’aprile del 1204 durante la quarta crociata Bisanzio era stata conquistata dagli eserciti crociati con conseguente istituzione dell’Impero Latino d’Oriente, regno di fatto sotto l’influenza veneziana.

Tre piccoli stati bizantini Epiro, Trebisonda e Nicea non si rassegnarono al nuovo ordine costituito e continuarono a proclamarsi legittimi sudditi ed eredi dell’Impero Romano D’Oriente.

Fu così che Michele VIII Paleologo erede del trono di Nicea chiese aiuto ai genovesi per la riconquista di Costantinopoli.

Il 13 marzo del 1261 il futuro imperatore e la delegazione genovese inviata dal Capitano del Popolo Guglielmo Boccanegra, per sancire la nuova alleanza stipularono dunque, dal nome della località vicina a Bisanzio sede dell’incontro, il trattato del Ninfeo.

In cambio della fornitura di 16 navi in assetto da guerra dotate di equipaggi, ammiragli, armamenti e soldati Michele Paleologo s’impegnava a cedere la signoria di Focea (strategica per il commercio di mastice e allume di rocca), il diritto di passaggio negli Stretti del Mar Nero e soprattutto la cacciata dei veneziani dalla Crimea.

Genova privilegiato interlocutore con l’Oriente si apprestava quindi a vivere il periodo del suo – come brillantemente definito dal Lopez -“massimo fiore” che la porterà nel 1284 ad annientare Pisa alla Meloria e a mettere in ginocchio a Curzola nel 1298 Venezia.

Il Pallio ripulito. Foto Museo di Sant’Agostino.

Le teste leonine ancora oggi visibili sulla parte più antica di Palazzo San Giorgio, l’antico palazzo del Capitano del Popolo, provengono dal distrutto palazzo veneziano del Pantocratore di Costantinopoli asportate a mo’di trofeo per celebrare la schiacciante vittoria commerciale e politica sui rivali di San Marco.

Oltre ai benefici sopra citati l’Imperatore, in segno di riconoscenza, fece recapitare a Genova il giorno di Natale del 1261 due preziosissimi palli esposti sopra l’altare maggiore della cattedrale di San Lorenzo.

Dettaglio scena n. 14 che raffigura San Lorenzo sulla graticola.

Purtroppo dei due drappi uno, del quale non si ha più traccia, è andato perduto.

Dalla cattedrale di San Lorenzo dove è rimasto fino al 1633, il regale tessuto è stato trasferito fino al 1842 presso il demolito Palazzo dei Padri del Comune a Caricamento.

Da qui in poi le peregrinazioni nei due secoli successivi a Palazzo Tursi prima e Palazzo Bianco poi.

Il drappo rimasto invece misura 377 cm di lunghezza e 132 di altezza ed è realizzato in sciàmito di seta rossa.

Lo sciàmito è un tessuto più unico che raro utilizzato per gli abiti imperiali e papali caratterizzato da ricami e filati ricoperti di lamina d’argento e d’argento dorata.

Nel Pallio di San Lorenzo sono raffigurati, distribuiti su due livelli orizzontali, venti episodi di vita di Sisto, Lorenzo e Ippolito.

Le scene sono accompagnate da una scritta in latino a caratteri gotici e vanno lette partendo dalla figura centrale di destra verso sinistra. Queste scene descrivono i momenti salienti della vita dei protagonisti fino alla morte. La parte centrale del drappo invece raffigura Michele VIII Paleologo che entra nella cattedrale di Genova.

Dettaglio della scena n. 1 che raffigura bl’ingresso dell’imperatore Michele VIII Paleologo in San Lorenzo.

Nel 2009 il prezioso manufatto, probabilmente il più importante reperto medievale nel suo genere, è stato oggetto di un complesso restauro durato fino al 2018 presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, che lo ha così restituito alla città nel suo primitivo splendore.

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Schema di lettura del pallio. Foto tratta da Wikipedia.

  1. San Sisto vescovo di Roma ordina a San Lorenzo arcidiacono di vendere i vasi della chiesa
  2. San Lorenzo vende i vasi della chiesa
  3. San Lorenzo distribuisce ai poveri il ricavato della vendita dei vasi
  4. San Sisto disputa con l’imperatore Decio
  5. San Sisto viene decapitato
  6. La sepoltura di San Sisto
  7. San Lorenzo disputa con l’imperatore Decio circa i vasi dorati
  8. San Lorenzo presenta all’imperatore gli zoppi e i ciechi a cui diede il ricavato della vendita dei vasi
  9. San Lorenzo viene bastonato
  10. San Lorenzo in carcere
  11. In carcere San Lorenzo visita gli infermi che si presentano a lui
  12. San Lorenzo converte il custode del carcere Tiburzio Callinico
  13. San Lorenzo battezza Tiburzio Callinico
  14. San Lorenzo è martirizzato sulla graticola
  15. San Ippolito seppellisce San Lorenzo
  16. San Ippolito disputa con l’imperatore Decio
  17. San Ippolito è torturato con artigli di bronzo
  18. San Ippolito smembrato con i cavalli
  19. La sepoltura di San Ippolito
  20. San Lorenzo che introduce l’altissimo imperatore dei greci Michele Paleologo nella chiesa genovese (scena centrale del drappo).

Oggi il Pallio di San Lorenzo è custodito presso il Museo di Sant’Agostino di cui costituisce ineguagliabile fiore all’occhiello.

In Copertina: Il Pallio di San Lorenzo

Vico del Sale

All’angolo con Piazza Stella si trova il Vico del Sale. Qui e nel vicino quartiere del Molo e in Darsena davanti a Porta dei Vacca, la Repubblica aveva infatti i propri magazzini di stoccaggio e rivendita del sale.

Genova, in virtù della produzione autoctona e dei suoi possedimenti sardi, ne aveva praticamente il monopolio nel Tirreno. Monopolio rafforzato inoltre dai carichi provenienti dalla Provenza e dalle Baleari.

Fu questo uno dei motivi per cui nel 1684 re Sole, con l’obiettivo di favorire Savona in questo commercio, bombardò la Superba diventando protagonista di una delle pagine più tristi della nostra millenaria storia.

Il sale come elemento di conservazione degli alimenti e in cucina era infatti talmente importante che la Repubblica aveva istituito presso San Giorgio un’apposita magistratura di otto membri che si occupava di contrattare il costo delle partite acquistate, di stabilirne il prezzo di rivendita, di riscuotere le gabelle e in generale di legiferare in materia.

Magazzini del sale del XIII sec. in Vico Palla nel quartiere del Molo. Foto di Jolanda Giorgi.

Se da un lato era infatti obbligo dei consoli acquistare tutti i carichi degli importatori che facevano scalo a Genova, dall’altro le tasse sul minerale erano per le casse della Repubblica le più elevate e remunerative in assoluto.

Dal porto partivano così carovane di muli che da Voltri percorrendo la via – detta appunto del sale – rifornivano anche il Piemonte e la Lombardia del prezioso minerale.

In copertina: Magazzini del sale in Vico del Sale. Foto di Leti Gagge.