e di una maestosa Basilica… i cui lavori non finiscono mai…
Una delle più importanti famiglie genovesi, quella dei Fieschi, aveva in Carignano, in S. Maria in Via Lata, vicino al famoso palazzo (ritenuto il più sfarzoso della città), la propria chiesa gentilizia.
Le funzioni che vi si celebravano erano frequentate da tutte le famiglie del quartiere.
Anche da quella dei Sauli, mercanti originari di Sori che, da tempo, vi si erano stabiliti e che avevano fatto fortuna, in particolare, con il commercio del sale.
A causa di un ritardo ad una cerimonia solenne, questi vennero invitati a costruirsi una chiesa, per fare “il comodo loro”.
Bandinello Sauli decise allora, nel 1481, di stanziare un apposito fondo presso il Banco di S. Giorgio per finanziare l’impresa.
I lavori iniziarono però solo molti anni dopo, nel 1522, e gli eredi commissionarono il progetto ad un giovane emergente architetto perugino, Galeazzo Alessi.
Costui prese a modello le imponenti forme del Bramante e di Michelangelo, adottate per S. Pietro, in Roma.
Quando il perugino abbandonò Genova, mantenne la direzione dei lavori, appoggiandosi ad un gruppo di architetti locali, capitanati da Bernardo Cantone.
La cupola venne terminata solo nel 1603 quando l’Alessi era morto già da trent’anni.
I principali lavori si dipanarono nell’arco di oltre un secolo.
Nacque da ciò il modo di dire, per indicare qualcosa di interminabile, “E’ come la fabbrica di Carignano”.
Fra il 1718 e il 1724 Domenico Sauli fece costruire, per facilitare l’affluenza da Sarzano e migliorarne l’impatto scenografico, il monumentale Ponte di Carignano.
Nel ‘800 fu poi Carlo Barabino a completare gli esterni nelle forme attuali.
La Basilica intitolata ai Santi Fabiano, Sebastiano e all’Assunta è tuttora chiesa gentilizia dei Marchesi Negrotto, Cambiaso, Giustiniani.
Al suo interno sono conservate sculture di pregio di Filippo Parodi e di Pierre Puget, oltre ad importanti tele di Domenico Piola, Luca Cambiaso, Guercino e Procaccini.
Ancora oggi, se passate in zona, noterete, per non venire meno al detto, lavori sempre in corso.
In Copertina: uno scorcio della Basilica dell’Assunta vista da via Santa Maria in Via Lata.
Nel 1281, per la prima volta, negli Annali, si fa menzione dei “Salvatores portus et moduli”.
Genova si dota di un’apposita magistratura destinata ad occuparsi delle faccende portuali, a proposito delle quali, ha pieni poteri.
Per quanto concerne invece la navigazione e le navi, la competenza spetta all’Ufficio di Oltremare e, più tardi, a quello di Gazaria (Colonie).
Dal 1340, per volere del primo Doge Simone Boccanegra, la magistratura del Porto viene gestita dai Padri del Comune, dieci membri di provato prestigio, eletti ogni due anni dai Serenissimi Collegi e dal Minor Consiglio.
Costoro si dividono in due gruppi speculari:
Conservatori del Mare, il primo, esperti di navigazione e Conservatori del Patrimonio, il secondo, preposti a tutte le attività inerenti la manutenzione e il decoro della città (strade, acquedotto, fognature, arredi urbani).
Nonostante le specifiche aree di pertinenza, nelle cerimonie pubbliche, formano un corpo unico. Nel 1282, in vista degli scontri contro Pisa, la Dominante crea un’altra Magistratura, quella detta di “Credenza”, un vero e proprio Consiglio di Guerra.
Tra i vari provvedimenti presi, si delibera che, per issare il Vessillo di S. Giorgio, debba costituirsi una flotta di almeno dieci galee, armate in assetto da guerra, dotate di Balestrieri e comandate da un ammiraglio.
In assenza di tali requisiti, il comando spetta al capitano che però, per nessuna ragione, è autorizzato a portare lo stendardo a bordo.
In copertina: dettaglio della “Veduta di Genova” nel 1482 realizzata da Cristoforo Grassi nel 1597.
La tela appresenta l’imponente spiegamento navale in occasione del rientro l’anno successivo della spedizione di Otranto del 1481(occupata dai turchi) voluta da papa Sisto IV e condotta dal cardinale genovese Paolo Fregoso. Museo Galata Genova.
Si aggira in Via di Francia chiedendo l’elemosina e inveendo contro chi non lo accontenta, per poi sparire nel nulla, lo spettro del “Monaco errante”.
Meno aggressivi sono invece gli spiritelli che infestano, scambiandosi effusioni e bisbigli amorosi, i parchi di Villa Piantelli nei pressi dello stadio Luigi Ferraris lato distinti, o quelli di Villa Saluzzo Bombrini, detta “Il Paradiso” (nella quale alloggiarono due grandi poeti Byron e De André).
Come non ricordare poi la vicenda di Forte Sperone dove, nel corso di una seduta medianica, si qualificò lo spirito di un assassino reo confesso di aver trucidato un’innocente.
In seguito a ricerche di archivio si accertò che lì, circa duecento anni prima, effettivamente era stata uccisa una giovane pastorella.
In San Donato si trascina invece l’anima senza requie di Stefano Raggi che nel ‘600, ricercato per aver cospirato contro la Repubblica, cercò salvezza nascondendosi nel campanile dell’omonima chiesa.
Catturato dalle guardie e rinchiuso nella Torre Grimaldina si suicidò con un pugnale procuratogli da una guardia, celato dentro ad un crocifisso.
In molti affermano di averlo visto nelle sere autunnali camminare a passo svelto, avvolto in una tunica rosso porpora, proprio nelle vicinanze della chiesa stessa.
E che dire poi del mio fantasma preferito, quel Branca Doria colpevole di aver assassinato il suocero per impadronirsi dei suoi beni e collocato da Dante, ancor vivo all’inferno?
La sua anima inquieta si aggira furtiva fra le colonne e i palazzi di Piazza S. Matteo, in attesa di infilarsi in chiesa e di sparire, dopo essersi appoggiata con le mani insanguinate alla colonna che, ancora oggi, ne testimonia il violento passaggio.
Anche le vicende di altri traditori e i delitti d’amore meritano menzione ma, queste sono altre storie….
Fine seconda parte… continua
Già altri, prima di me, hanno ideato percorsi e iniziative in merito quindi non intendo, in alcun modo, sostituirmi loro.
Ma si sa, ciò che la storia non può avallare, la leggenda tramanda. Ogni quartiere, palazzo o scantinato della città nella sua millenaria esistenza, è ricco di favole, racconti e aneddoti tra i quali, eccone alcuni, di mia conoscenza:
Il primo che mi sovviene riguarda la Cattedrale di S. Lorenzo, dove la vigilia di S. Giovanni Battista, allo scoccare della mezzanotte, sotto la navata centrale, tutte le maestranze che ne hanno contribuito alla costruzione, sfilano in solenne corteo fin sulla cupola dell’Alessi per poi, dopo circa un’ora, dissolversi nell’oscurità.
Nell’antica chiesa dei SS. Cosima e Damiano invece, nelle notti di luna piena, c’è chi sostiene di aver visto apparire, per qualche istante, delle figure incappucciate, forse membri di qualche antica Casaccia.
Casaccia alla quale certamente appartengono le anime scorte all’imbrunire, in periodo di Quaresima, percorrere affrante Salita San Francesco.
Questo della processione evidentemente è un tema che riscuote successo e ritorna spesso, visto che, sempre di sera, in Salita degli Angeli, un altro corteo, in determinate ricorrenze, sfila contrito in direzione del cimitero della Castagna.
Poi ci sono altri racconti… ma, queste sono altre storie…
Fine prima parte… continua…
Già almeno dal ‘200 la Dominante aveva concesso libertà di culto agli arabi di stanza o di passaggio in città.
Come testimoniato dalla Sura scolpita in cufico presente nella Cattedrale di S. Maria in Castello, i rapporti fra le due culture, nonostante le continue guerre e scorribande sulle due sponde del “mare nostrum”, sono sempre stati proficui e tolleranti.
Oltre che mercanti a Genova non mancavano scribi, traduttori e agronomi musulmani.
Probabilmente già da prima, ma sicuramente dal ‘600, gli infedeli avevano ottenuto il permesso di edificare una moschea nel cuore della Superba, proprio davanti alla Darsena (darsena deriva dall’arabo e significa “casa del lavoro”) presso l’attuale palazzo di Scio (Facoltà di Economia).
Oggi i resti di una colonna del Tempio, in pietra di Promontorio, delimitano un’aula del complesso chiamata, appunto, “sala della Moschea”. Secondo alcune fonti le moschee sarebbero state addirittura sei ma i documenti accreditati raccontano di due; oltre a quella di cui resta traccia la colonna si sa di un altro luogo di culto, sempre in porto, ma di epoca posteriore (‘700) all’altezza dell’attuale depuratore.
Nel ‘700 gli arabi ottennero persino un quartiere tutto loro, ubicato vicino alla spiaggia della Foce, dove esercitare anche il diritto di sepoltura.
Nella capitale del Mediterraneo minareti e muezzin convivevano con campanili e Cardinali; ma le regole erano ben chiare e non c’era perdono per la disobbedienza,
la durezza delle galee genovesi fungeva da ottimo deterrente
a tal punto da far annotare nei suoi appunti, ancora nel 1785, allo scrittore francese Dupaty:
“Ma cos’è questa specie di prigione… com’è bassa, oscura e umida!.. Che animali sono questi qui coricati per terra… non mangiano altro che pane duro e nero? non bevono che acqua putrida e fangosa?… da quanto si trovano in questa condizione?… almeno vent’anni… Come li chiamate voi?… miserabili Turchi…”
“Tuttavia i Genovesi hanno dato un esempio di tolleranza… hanno accordato a questi Turchi una Moschea.
Turchi che ho visto contendersi gli avanzi del cibo ai cani.
In Francia i Protestanti non hanno templi…
Genova, i tuoi palazzi non sono abbastanza alti, né abbastanza ampli, né abbastanza numerosi, né abbastanza splendenti: si distinguono le tue galee…
fine prima parte continua…
… un bombardamento… una guerra e un orgoglio che non ha prezzo.
Siamo nel 1684 il Re Sole, con il pretesto di un mancato saluto (ogni nave straniera che entrava nel Porto doveva, per antica consuetudine, sparare un colpo di cannone a salve, in omaggio alla Repubblica; Il Sovrano pretendeva l’esatto contrario), di un’amicizia con la Spagna (gli armatori genovesi stavano infatti allestendo un’imponente flotta per gli iberici), di un prestito non corrisposto (Il Re, per pagare le sue truppe sparse in tutta Europa, aveva bisogno delle “palanche” dei banchieri nostrani), della mancata concessione a vantaggio di Savona (città alleata dei nemici) di un deposito del sale, dà ordine alla sua flotta di centosessanta navi schierata e 756 bocche da fuoco dalla Foce alla Lanterna, di bombardare la città.
Quattro giorni di lutti e distruzione ma la Superba resiste, non si piega e ribadisce, davanti ad un’Europa terrorizzata, la propria LIBERTA’ e proclama la propria INDIPENDENZA!
Il marchese di Segnalay infatti, comandante della spedizione dà ordine a Duquesne, ammiraglio dello stuolo reale, nella notte fra il 22 e il 23 maggio di sbarcare a Sampierdarena con 3500 soldati e, come diversivo, con un piccolo contingente in Albaro.
La milizia repubblicana genovese però con l’ausilio di numerosi volontari polceveraschi, sotto la guida del Capitano Ippolito Centurione, respinge gli invasori.
I Francesi, fallito lo sbarco e terminate le munizioni, la sera del 29 maggio rientrano a Tolone.
Re Sole infuriato per l’accaduto fa rinchiudere nella Bastiglia l’ambasciatore genovese a Parigi Paolo De Marini, il quale riesce a far giungere ai Serenissimi una missiva in cui li esorta a non sottomettersi al despota francese e a non preoccuparsi per lui dato che, per l’onore e la dignità della Repubblica, sarebbe pronto alla morte.
Il diplomatico avrà salva la vita e, incaricato dal Senato, negozierà a Ratisbona la pace, sostanzialmente alle condizioni imposte dal Monarca.
L’anno seguente il Doge Francesco Imperiale Lercari invece, convocato a Versailles, dovrà dar soddisfazione al Re e ratificare il trattato di pace precedentemente pattuito.
Ma non rinuncerà al suo orgoglio di GENOVESE, quando interrogato su cosa l’avesse più colpito (il Sovrano si riferiva allo sfarzo della reggia, allo spettacolo dei giochi d’acqua delle fontane, all’opulenza dei nobili di Corte), rispose sprezzante “Mi chi”(di essere qui io).
Oggi sono stato ospite del Principe, questi impeccabile nella sua uniforme nera di ammiraglio supremo, da buon anfitrione mi ha accompagnato nostalgico lungo i suoi giardini.
Mentre passeggiavamo mi ha raccontato della sua fontana preferita (a lui dedicata da Gianandrea), quella che lo rappresenta come una sorta di Dio Nettuno;
delle terrazze che, un tempo, degradavano fino al mare dove, al posto della Stazione marittima, v’era la Porta di San Tommaso, l’accesso all’Arsenale.
Qui sempre erano ormeggiate almeno dodici galee in assetto da guerra, pronte a salpare in ogni stagione per difendere Genova:
come quella volta in cui l’aveva liberata dai Francesi con l’impresa della Briglia, rifiutandone la signoria “perché Genova è nata libera e libera deve restare”.
Dove, al posto delle navi da crociera, era attraccata la sua quadrireme, la nave piu grande del globo al servizio, come la sua temibile flotta, di Francia prima e Spagna poi… mi ha ricordato che i terreni della sua Villa fuori le mura scollinavano fino al Lagaccio (lago artificiale da lui fatto costruire per essere autonomo in caso di assedio), che al posto del Miramare c’erano orti, frutteti, altri giardini, un parco e tanta cacciagione.
Poi mi ha preso paternamente sotto braccio e mi ha condotto all’interno della sua lussuosa dimora per la costruzione della quale – dice – ha ingaggiato il miglior artista del suo tempo, Perin del Vaga.
Mi ha mostrato orgoglioso, da energico “pater familias”, la loggia degli Eroi, un tributo di affreschi ad Ansaldo, Martino, Oberto, Lamba, Pagano… gli illustri avi della Casata.
E poi mi ha spiegato, nella sala dei Giganti, la storia di Alessandro Magno, immortalata nei preziosi drappeggi degli arazzi fiamminghi, gli stessi arazzi che invece, in un altra sala, descrivono le imprese di Lepanto del suo futuro erede, il pronipote Giovanni Andrea Doria.
L’ammiraglio si è poi commosso nel rivivere la scomparsa dell’adorato nipote Giannettino, durante la sciagurata e scampata congiura dei Fieschi.
Il condottiero non ha poi nascosto tutto il suo amor proprio nel rivedere i ritratti che lo raffiguravano ancora giovane e fiero in tutto il suo autorevole metro e novanta… anche se, ce n’è uno che lo ritrae, ormai anziano, con il suo gatto Dragut (chiamato così in onore del Corsaro suo nemico), quasi come fosse un comune mortale.
Immerso quindi nei ricordi di una vita lunga novantaquattro anni, si è emozionato nel raccontare del suo amore per donna Peretta, la sua sposa e, per darsi un contegno, mi ha indicato anche, vicino ad un gigantesco camino in pietra di Promontorio, il quadro del Roldano il fedele cane molosso donato dall’imperatore Filippo II a Giovanni Andrea, in segno di amicizia e alleanza fra i due Stati.
Un animale così amorevole e fedele da meritarsi la sepoltura sotto la Statua del Gigante (una statua di circa otto metri scolpita con le fattezze di Carlo V come se fosse Giove voluta anch’essa dal pronipote Gianandrea) che un tempo si stagliava a monte della villa… e poi mi ha aperto le porte di stanze lussuose e confortevoli ben separate – mi raccomando – precisa, fra uomini e donne… che ognuno si occupi delle proprie faccende e non interferisca in quelle altrui.
Ormai stanco si è seduto vicino a me nella sala Aurea dove, al posto degli odierni turisti, erano ospitati un tempo, elenca, i re di Spagna, di Francia e di mezza Europa, per i quali -ricorda- si apparecchiavano pantagruelici banchetti e inscenavano festosi ricevimenti… il tutto vegliati da onnipresenti aquile nere, il millenario simbolo araldico della famiglia.
Nere come l’abito che Andrea, salutandomi, indossava ancora con nobile portamento.
A presto Signore del mare… tornerò ancora a trovarti e ad ascoltare le tue storie….
In Copertina: Camera da letto con il Pregadio degli ambienti privati degli eredi Doria Pamphili.