Sopra la Galleria N. Bixio, intitolata al generale garibaldino, che collega le Piazze Corvetto e Portello, nel 1929 sono state collocate, opera dello scultore Eugenio Baroni, le statue dei due condottieri più famosi della nostra storia:
La prima raffigura Guglielmo Embriaco, il conquistatore di Gerusalemme, con una grande Croce di S. Giorgio sul petto e la spada avvolta nell’alloro.
Ai piedi è posto un elmo saraceno a ricordare le sue imprese in Terrasanta.
La seconda rappresenta invece un anziano Andrea D’Oria, l’ammiraglio padre della Patria, nell’atto di lisciarsi pensieroso la barba, con un mano, e pronto a brandire la spada, con l’altra.
Fra le gambe un delfino a simboleggiare il suo rapporto privilegiato con il mare.
A me piace pensare che ci proteggano…
Come una perla nascosta in fondo a uno scrigno, riparata da un’incantevole baia, in uno dei luoghi più affascinanti della mia Terra, si erge la millenaria Abbazia di Capodimonte, gioiello del comprensorio di Portofino, meglio nota con il titolo di S. Fruttuoso.
Dal nome del santo catalano del terzo secolo le cui ceneri, portate da San Prospero nel 711 in fuga da Tarragona, vennero traslate dai genovesi per sottrarle alle razzie degli Arabi in Spagna.
In seguito divenne un potente Cenobio con proprietà e possedimenti sparsi un po’ ovunque, anche fuori regione.
L’Abate era talmente importante che aveva il privilegio di indossare la Mitra come il Vescovo.
Per questo, per oltre tre secoli, il titolo fu appannaggio di membri della famiglia Doria che qui seppellirono i propri cari.
Dopo anni di declino e di utilizzo come Commenda a metà del ‘500 il Principe Andrea
Doria ne rinnovò il prestigio e fece erigere la celebre torre a difesa del complesso.
Nell’ 700 gli ultimi monaci abbandonarono l’Abbazia che cadde in rovina e venne occupata dai pescatori che la utilizzarono come abitazione.
La spiaggia che ancor oggi è meta di escursionisti in realtà prima del 1915 non esisteva.
Infatti a causa di un alluvione i detriti della montagna franata vennero lì sistemati.
Per secoli le imbarcazioni attraccavano direttamente sotto le arcate all’interno.
Negli anni ’80/90 del Novecento il Fai ha ristrutturato il tutto riportandolo all’antico splendore.
“Se la qual cosa con gli occhi non l’avessi veduta, giammai l’avrei creduta”… “Il 15 di Maggio del 1547, allorquando stavamo bordeggiando la Corsica ed eravamo ormai in vista delle Bocche (di Bonifacio), fummo assaliti da alcune imbarcazioni corsare, probabilmente al soldo della Francia… non avemmo nemmeno il tempo di organizzarci che ci furono addosso ed eravamo ormai preparati al peggio quando voci gridarono: “Presto scappiamo mettiamoci in salvo arrivano i Genovesi… guardai l’orizzonte e vidi apparire dieci galee rosse fuoco, in assetto da guerra sventolanti la Croce di S.Giorgio. Se la qual cosa con gli occhi non l’avessi veduta, giammai l’avrei creduta… con movimento lesto e coordinato accerchiarono i vascelli ed iniziarono gran strage dei fuorilegge.
Alcune galee si misero all’inseguimento dei navigli fuggitivi, la Capitana si accostò alla nostra… con tono cortese ma perentorio il Capitano si qualificò come Comandante e disse: “…nel nome di S. Giorgio e della Repubblica, come da accordi con il vostro Re Carlo V, vi scorto al Porto più vicino. Giunti al porto di Bonifacio ricevemmo ogni soccorso ed assistemmo di persona al rientro delle galee con al seguito i vascelli pirata ed i loro equipaggi. …ora capisco perché i Genovesi sono i Signori del Mare e non esiste alcuna marineria turca, veneziana, francese o aragonese che possa lontanamente esser loro paragonata.
Capitano Guillermo Mendoza.
La reputazione della marineria genovese nel ‘500 era tale da rendere plausibile questo racconto frutto della mia fantasia.
In copertina fedele riproduzione in scala 1:1 di galea genovese conservata presso il Museo Galata di Genova.
Alcuni tratti del carattere genovese si sono plasmati nel corso dei secoli, scolpiti nella pietra, modellati dal vento e intrisi di mare.
Chi meglio degli “illustri foresti” che nel tempo hanno avuto modo di conoscere la nostra pragmatica rudezza, può descrivere queste peculiarità?
“I tiranni sono levati al potere a voce di popolo e per la sua volontà,
ma senza alcuna giustificazione legale.
Infatti di solito avviene che quando un gruppo politico prevale sull’altro,
allora quelli che ne fanno parte, inorgogliti dal successo, si mettono a gridare – Viva il tale, Viva il tale, muoia il tal altro.
E quindi eleggono uno tra essi e uccidono, se non riesce a fuggire, chi prima comandava.”
Così scriveva, a proposito del nostro concetto di governo, nei suoi resoconti il Maresciallo di Francia e Governatore di Genova Jean Le Meingre.
Questi, meglio noto come Boucicault fu, fra l’altro, promotore del Banco di S.Giorgio
nella sua moderna veste bancaria.
… ha origine agli inizi del ‘300 e nasce per omaggiare il Podestà prima, il Capitano poi e infine il Doge.
Consiste in un corteo che partiva dalla zona di Porta Romana (Borgo Incrociati) dove l’ Abate del Popolo uscente lasciava a quello entrante la carica e i problemi simboleggiati da nastri bianco rossi (i colori di S. Giorgio) con i quali si adornava un grosso ceppo di alloro (il Confeugo).
L’Abate ora si recava in processione a Palazzo Ducale, dove scambiati i saluti e i doni di rito con il Doge, partecipava insieme all’Arcivescovo al banchetto.
Il Confeugo veniva poi acceso e spento con una brocca di zucchero, vino e confetti.
La fumata che ne conseguiva, a seconda che fosse dritta o storta, veniva interpretata positivamente o meno in relazione ai problemi da risolvere (i nastrini rossi).
La popolazione si contendeva i resti perché, si diceva, avessero proprietà magiche e portassero fortuna.
Questo, spesso causava risse e disordine pubblico, quindi venne stabilito di bruciare più ceppi per distribuirlo equamente a tutti.
La cerimonia natalizia genovese venne abolita dai francesi nel ‘500 e da Napoleone nell’ 800… ma sempre ripristinata.
Oggi il Sindaco e il Priore della Compagna rappresentano Doge e Abate.
Oltre al valore culturale e storico il Confeugo simboleggia l’unione della città in tutte le sue componenti:
Il Doge, il governo borghese o aristocratico e mercantile (a seconda dei contesti) l’Abate, il Popolo artigiano, contadino e operaio, infine l’Arcivescovo, silenzioso e onnipresente, il potere ecclesiastico.
Continua… seconda Parte…
Il giovane assistente del cardinale e suo futuro successore Giuseppe Siri, incaricato di mantenere i contatti con l’Alto Comando tedesco, informa Boetto dell’intenzione da parte dei tedeschi, di minare il porto e di cannoneggiare da monte Moro la città, se non vengono concessi loro quattro giorni per la ritirata armata.
Il futuro Magnifico Rettore dell’Università di Genova, Carmine Romanzi, nome di battaglia Stefano, viene incaricato dal CLN e dal cardinale di consegnare a Savignone, sede del Comando teutonico, due lettere in cui il primo chiede la resa immediata e incondizionata, il secondo, di farsi intermediario della complicata trattativa.
A bordo di un’ambulanza della Croce Rossa, nel pomeriggio del 25 aprile, Romanzi preleva, scortato dai partigiani, il Generale Gunther Meinhold, comandante della piazza di Genova.
Questi, venuto a conoscenza che la Pinan Cichero, controllando la viabilità, gli impedisce il ricongiungimento con il Gen. Kesselring lungo la linea Gotica, accetta di seguirlo, in compagnia del colonnello Pohl, a Villa Migone sede dell’incontro e residenza privata del cardinale.
A garanzia, fatto inaudito, consegna, durante il viaggio, la sua pistola a Romanzi.
Giunto nel primo pomeriggio, ad attenderlo nel quartiere di San Fruttuoso per conto della rappresentanza tedesca ci sono:
Il Console Von Hertzdorf.
Il Capitano Asmus, capo di Stato Maggiore.
Per quella italiana:
Remo Scappini Presidente CLN Liguria.
L’Avvocato Errico Martino e il Dottor Giuseppe Savoretti, membri del direttivo del CLN ligure.
Il Maggiore Mauro Aloni Comandante dell’esercito di liberazione della piazza di Genova. La discussione si protrae per quasi tre ore… gli italiani pretendono la ritirata immediata, i tedeschi rifiutano e rinnovano la minaccia di far saltare il porto e di bombardare la città con l’artiglieria pesante di stanza a monte Moro.
La trattativa si fa tesa; il generale
interrompe la discussione alzandosi bruscamente dal tavolo quando, il Cardinal Boetto, fino a quel momento rimasto in religioso silenzio e quasi in disparte, lo afferra con fermezza per un braccio e proclama:” Eccellenza, Genova è, di fatto, già libera….. forse non vi è chiaro che, se voi farete quello che avete minacciato, sarà un bagno di sangue, ma una cosa è certa… da questa città non uscirà un solo tedesco vivo”.
Non ci fu bisogno di traduzione… alle 19:30 il generale Meinhold siglava il documento della resa.
Alle 4:30 del mattino successivo il generale annunciava via radio a tutte le forze poste sotto il suo comando la resa incondizionata e di consegnare se stesse e le armi ai partigiani.
Il colonnello Pohl non regge l’umiliazione e, nella notte stessa, si suicida.
Il capitano di vascello Max Berninghaus, comandante delle truppe di stanza nel porto e sul monte Moro dichiara, nel nome del Führer, la condanna a morte di Meinhold, colpevole di alto tradimento, senza riuscire però a trovarlo.
Dopo due giorni di battaglia, il 27 aprile, anche il suo contingente sarà costretto alla resa.
La mattina del 28 aprile, 6000 tedeschi disarmati, sfileranno lungo Via XX settembre, scortati fra due ali di partigiani, fra il giubilo popolare, fuori dalla città.
Non era mai successo che un esercito ufficiale e ben armato si arrendesse a un Popolo… quello genovese!
Il 31 gennaio del 1946 il cardinal Boetto, in seguito ad una crisi cardiaca, muore.
Viene sepolto nella cattedrale di S.Lorenzo.
Gli succede quel giovane prelato che tanto si era prodigato per salvare il porto, Giuseppe Siri, per oltre 40 anni indiscusso monarca della chiesa genovese e non solo.
Intervistato qualche anno dopo il generale Meinhold, a cui va riconosciuto il buon senso di non aver sparso sangue inutile, attribuirà grande merito al valore dei partigiani genovesi e al ruolo del cardinale.
Genova verrà insignita il 1 agosto 1947 della Medaglia d’Oro al Valor Militare per la guerra di Liberazione.
In Copertina: La lapide davanti alla villa che attesta gli eventi e il ruolo decisivo del Cardinal Boetto.
… dall’Egitto, alla Grecia… fino alla Persia… dalla tavola dell’ammiraglio… fino a quella di San Biagio…
Non se ne abbiano a male gli amici milanesi, ma il pandolce genovese ha una storia molto più antica rispetto al panettone, che si perde nella notte dei secoli… una vera e propria genesi rituale.
Dati gli ingredienti comuni, molti ne fanno risalire l’origine addirittura ai tempi dell’antico Egitto e della Grecia dove era diffuso un dolce simile a base di miele.
Sicuramente, visti i rapporti commerciali con quel Paese, i Genovesi potrebbero aver tratto ispirazione dalla Persia (basti pensare a maggiorana, “persa” in genovese) dove il suddito più giovane (in grado di camminare), all’alba di Capodanno, porgeva al Sovrano un grande pane dolce a base di canditi, miele e mele da dividere fra i suoi commensali.
In effetti anche a Genova il pandolce, chiamato anche Pan co-o zebibbo veniva portato in tavola dal più giovane della famiglia e, con gesto beneaugurante, privato del sovrastante ramoscello di alloro.
Fu l’ammiraglio Andrea Doria che, nel ‘500, indisse concorso fra i pasticceri locali, per creare un dolce degno del matrimonio del nipote con Zanobia del Carretto e del prestigio della Repubblica.
Così venne codificato il pandolce genovese nella versione alta, affiancato poi, qualche secolo più tardi, dalla moderna versione bassa.
Molti sorrideranno di questa affermazione ma, a quel tempo, tolto forse Venezia e Bisanzio odierna Istanbul, non erano molte le città in Europa sulle cui tavole si potevano gustare canditi, uvetta e frutta secca.
Secondo la tradizione il Capofamiglia affettava il panduce canticchiando una filastrocca:
“Vitta lunga con sto’ pan!
Prego a tutti tanta salute,
comme ancheu, anche duman,
affettalu chi assettae,
da mangialu in santa paxe,
co- i figgeu grandi e piccin,
co- i parenti e co- i vexin,
tutti i anni che vegnia’,
cumme spero Dio vurria’.”
Alla moglie spettava l’assaggio e poi veniva distribuita una porzione per ciascun invitato, dopo di ché, visionate le letterine dei pargoli, gli stessi, in piedi sulla sedia, recitavano la loro poesia.
Due fette però venivano accuratamente conservate a parte da offrire una, al primo viandante di passaggio, da consumarsi l’altra, il 3 febbraio festa di San Biagio, protettore della gola.
Il Pandolce genovese, a seconda del Paese in cui è consumato, ha assunto altri nomi:
dal nostrano “Pan do bambin” sanremese, al “Londra cake” o “Genoa cake” britannici, fino al “Selkirk bannock”, una versione scozzese molto apprezzata dalla Regina Vittoria.
Quanta cultura in un semplice…. Panduce..
In Copertina: il Pandolce di una super bis nonna Lorenza che non c’è più.
… di una chiesa… e di un campanile…. molto particolare…
Alla sua morte, avvenuta nel 430 d.C. , le spoglie di S. Agostino vennero traslate in Sardegna ma, causa la successiva invasione saracena, il re longobardo Liutprando chiese ai genovesi di intervenire per salvare il corpo del santo.
Il re, infatti, era un gran devoto del padre della chiesa e voleva trasportare le reliquie del santo a Pavia, capitale del suo regno.
Tornati a Genova, compiuta la missione, i nostri marinai deposero il santo nella cappella del Palazzo del Vescovo (attuale Facoltà di architettura) in attesa dell’arrivo di Liutprando (anno 726).
Al momento di trasportare l’arca nessuno riuscì a sollevarla, come se il santo non volesse più abbandonare la città.
Il re fece allora voto solenne di edificare in quel luogo una chiesa a lui dedicata.
Miracolosamente il corpo si lasciò sollevare e trasportare nella basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro, a Pavia.
Di questa leggendaria chiesa non resta più alcuna traccia e fu eretto, in corrispondenza dell’altare maggiore, il monastero di Santa Tecla.
Solo nel 1477, per volere popolare, fu reintitolata dagli agostiniani al loro fondatore.
Qui vennero eletti i Capitani del Popolo i due Oberto, Doria e Spinola e, nel 1339 Simone Boccanegra, il primo Doge della Repubblica.
Fu sede di numerose confraternite e consorterie nonché di cappelle nobiliari.
Nel 1798 chiesa e convento vennero soppressi per volere di Napoleone e la struttura venne usata prima come magazzino e officina del Genio Civile, poi come sede dei Carabinieri Reali.
Il complesso, gravemente danneggiato durante la Seconda Guerra Mondiale, è stato recuperato dagli architetti nei primi anni ’80.
La facciata a fasce bicrome è sormontata da una lunetta affrescata con l’immagine del Santo.
Ma, a mio parere, il pezzo straordinario è il duecentesco campanile, coevo di S. Giovanni di Prè e delle Vigne, interamente ricoperto, unico esempio nel nord Italia, in alicados cioè delle stesse piastrelle lisce monocrome con cui si rivestono le moschee.
Gli alicados di S. Agostino sono maioliche opera dei Magistri, come inciso su di esse, di Albisola.
Fin dal finire del 1100 mercanti e marinai provenienti da ogni angolo di mondo attraccavano le loro navi nei pressi dell’attuale Sottoripa, saldavano le gabelle dovute alla Dogana di Campetto prima, S. Giorgio poi e si recavano nello retrostante piazza per smerciare i propri prodotti.
Lì li attendevano i cambia valute che, ognuno col proprio banco e sgabello, annotava e registrava le operazioni di cambio.
Quando sorgevano contestazioni o dissidi intervenivano gli alabardieri che, accertato l’eventuale dolo, provvedevano con un colpo di scure a rompere il banco e, di fatto, a impedire al cambiavalute di proseguire la propria attività.
Da qui, ancora oggi in tutto il mondo Wall Street compresa, l’utilizzo del termine “bancarotta”.
Ecco il perché del nome di questa Piazza che presenta altre meraviglie come la Loggia dei Mercanti, il Palazzo dei Conservatori del Mare (la più antica magistratura portuale del mondo), la Porta di S. Pietro e l’omonima Chiesa (unico caso di una chiesa eretta sopra un piano adibito agli esercizi commerciali e mantenuta dagli stessi).
discendente di Ercole… “Per il tuo regno sarei disposto a sacrificare ogni mio soldato… io invece, per ogni mio uomo, sarei pronto a sacrificare me stesso…” Queste le parole pronunciate da Leonida, re di Sparta in risposta alle minacce di Serse, imperatore di Persia. Nel 480 a.C., in piene Olimpiadi, duecentomila persiani sono pronti ad invadere la Grecia. I re ellenici, occupati nei giochi, non danno grande peso alla minaccia. Solo Leonida, interpellato l’oracolo di Delfi, parte con i suoi trecento opliti e circa altri duemila confederati alla volta delle Termopili (agosto 480 a.C.) dove attende lo sbarco nemico. Serse, confidando nella propria superiorità numerica, intima al re spartano la resa e di cedere le armi. Questi, come tramandato da Erodoto, risponde “Vieni a prenderle”… Stermina oltre ventimila uomini, dando prova del coraggio e dell’organizzazione spartana. Il secondo giorno, sconfigge gli “Immortali” il corpo scelto dell’imperatore. Serse allora propone al re di arrendersi in cambio del titolo di Satrapo (governatore) di tutta la Grecia.
Ancora una volta Leonida risponde “sono un uomo libero e come tale morirò”. Il terzo giorno, un pastore del luogo, rivela al re persiano l’esistenza di un altro passaggio, utile all’accerchiamento dei nemici. Accortosi di ciò, il quarto giorno, Leonida ordina la ritirata dei soldati alleati e rimane con i suoi trecento opliti, la Guardia scelta.
Muore sul campo, protetto fino all’ultimo dai suoi soldati, pronti a morire, come il loro re, da uomini liberi. Il suo sacrificio permette ai Greci di confederarsi e di sconfiggere a Salamina (settembre 480 a.C.) prima e, definitivamente a Platea (agosto 479 a.C.) poi, il pericolo persiano. Grazie al coraggio e al sacrificio di Leonida siamo rimasti occidentali! Cosa c’entra tutto ciò con la nostra storia? Apparentemente niente… in realtà molto… quanti Leonida sono presenti nel nostro passato; ne cito solo alcuni: I Liguri tutti che si batterono oltre un secolo contro la sottomissione a Roma, Il Senato di fronte all’aggressione del Re Sole nel 1684, il Balilla, il Carbone e il Popolo intero durante la rivolta del 1746 e la cacciata austriaca, i Fratelli Ruffini della Giovine Italia e l’apostolo Mazzini durante il Risorgimento, la Guardia Civica nei giorni del Sacco del La Marmora, i Partigiani della Seconda Guerra Mondiale…