Le Bagasce dei Poeti

Il 20 settembre 1958 l’entrata in vigore della Legge Merlin che chiude le case di tolleranza, sancisce la fine di un’epoca.

A Genova se ne contavano ben 22 e due strutture, la fondazione di Santa Caterina da Genova e l’Istituto delle figlie dell’Addolorata si attivano per ospitare e confortare le prostitute rimaste senza lavoro.

Prima ancora che per i cantautori genovesi, con le bagasce protagoniste nella poetica di De André o del Cielo in una stanza di Paoli, le prostitute furono fonte di ispirazione per i grandi poeti liguri del Novecento.

Salivano voci e voci canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle, al colle. A l’ombra dei lampioni verdi di bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mescolava e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni…

Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso appoggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiedessero su di una duplice ombra”…

“… A te aggrappata d’intorno/ La febbre de la vita / pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto/ Instornellato de le prostitute / E dal fondi il vento del mar senza posa”.

Così scriveva nei suoi Canti Orfici (1914), Dino Campana (1885-1932).

Caruggi e bagasce. Foto di Gigi Tagliapietra.

Emozioni riprese anche da Camillo Sbarbaro (1888-1967) che racconta le sue sensazioni all’uscita di un bordello:

Esco dalla lussuria/ M’incammino/ pei lastrici sonori nella notte./ Non ho rimorso e turbamento. Sono/ Solo tranquillo immensamente./ Pure qualche cosa è cambiato in me, qualcosa fuori di me/ Che la città mi pare/ sia fatta immensamente vasta e vuota,/ una città di pietra che nessuno/ abiti, dove la Necessità/ sola conduca i carri e suoni l’ore…”.

Lirica tratta dalla raccolta Pianissimo del 1914.

Caproni (1912-1990) invece è meno intimista e, in merito alla lussuriosa vocazione genovese, va dritto al punto:

Genova che non mi lascia/ Mia fidanzata bagascia. [..] Genova di mio fratello/ Cattedrale. Bordello./ Genova di violino/ di topo di casino./ […] Genova di Sottoripa/ Emporio. Sesso. Stipa./ Genova di Porta Soprana. /d’angelo e di puttana./ […] Fenova di Raibetta/ Di Gatta Mora. Infetta”.

Versi liberamente tratti da Litania (1956) di G. Caproni.

Sempre Caproni nel 1967 traduce invece i versi di un poeta francese André Frenaud (1943-1982) che nella sua “Il silenzio di Genova” scrive:

“[…] e ancora in giro per gli angusti carrugi, /le prostitute poliglotte le belle poppe/ che sanno la lingua d’ognuno./ tutta la gente che inganna la vita nei quartieri bassi,/ quella che sfida, quella che tace ugualmente ostinata,/ i palazzi con gli alti portoni chiusi, le alberature,/ le gru stagliate, se si sale si vedono,/ e, più in alto, il mare”.

Fonti: Canti Orfici, Dino Campana, Milano 1989; Poesie, Giorgio Caproni, Milano 1976; Poesia e Prosa, Camillo Sbarbaro, Milano 1979.

In Copertina: l’inequivocabile batacchio del portone del civ. n. 5 Palazzo Ivrea noto anche come Squarciafico di Piazza Invrea. Un tempo ospitava un lussuoso bordello, oggi un facoltoso studio notarile.

Che storia il Genoa Cricket and Football Club!

Nel 1893 via Palestro era una signorile strada costruita poco più di una decina di anni prima nel cuore del nuovo centro finanziario cittadino.

La sera di Giovedì 7 settembre il portone del civ. n.10 era aperto per il continuo passaggio di eleganti signori. Una tipica tiepida sera di fine estate, rinfrescata da una leggera brezza marina.

Alla spicciolata arrivarono: Charles De Grave Sells, S. Green, G. Blake, W. Riley, D.G Fawcus, Sandys, E. De Thierry, Johnathan Summerhill, senior e junior, e soprattutto Charles Alfred Payton, console generale di Sua Maestà la Regina a Genova e futuro baronetto dell’impero britannico.

Si accomodarono sfilati mantelli, soprabiti e tube all’interno n. 4, sede del consolato britannico a Genova.

Dall’ora insolita si capiva che non si trattava di una riunione di lavoro, bensì dell’ufficializzazione – nero su bianco – del circolo sportivo che da quasi 2 anni operava nella Superba al fine di svagare i sudditi britannici.

Nasceva così in un ambiente pregno di tabacco avvolto in un’atmosfera satura del fumo delle pipe, tra un bicchiere di scotch e un sorso di Gin, il Genoa Cricket and Athletic Club.

Sopra un semplice quaderno contabile rilegato in tela e cartone una chiara e lineare calligrafia certificava l’accaduto:

The club was formed 7th September 1893. Patron il console di Sua Maestà Britannica Charles Alfred Payton; President: Charles De Grave Sells. Vice president: Johnathan Summerhill senior”.

Seguono lo honorary secretary and treasurer Sandys, e il Committee and Management; poi la list of Members che comprende 30 iscritti tutti anglosassoni. Versano una quota associativa di 10 lire ciascuno.

Pochi giorni dopo spedirono un assegno da 28 sterline a Londra con il quale acquistarono gli attrezzi per il cricket (cricket things).

Tutto ciò è giunto a noi grazie a Gianni Brera, appassionato giornalista di football e tifoso del Genoa. Il prezioso documento, il più antico attestato di una fondazione di una squadra di calcio in Italia, dopo essere stato rinvenuto nella biblioteca dello scrittore, è custodito oggi dalla Fondazione Genoa presso l’omonimo museo nel Porto Antico.

Il campo da gioco del cricket era situato a Bolzaneto e George Dorner Fawcus era il capitano sia del Cricket che dei footballers.

Tutti i membri ricevettero dalla società il rules, (copia del regolamento) e l’autorizzazione a contattare i comandanti delle navi britanniche in porto onde organizzare partite con gli equipaggi.

I primi incontri annotati avvenero proprio nel settembre 1893 contro i marinai del Hydaspes e del Cathay. Vennero fatte cucire delle reti dietro alle porte di cricket (purchase string to make cricket net with) per recuperare la palla cosa che nel football in Italia avverrà solo nel 1904.

Testimonianze tuttora visibili della numerosa comunità britannica e di quegli anni pioneristici in città sono la palazzina del marinaio, il Sailor’s Rest fondato per togliere dalle osterie e dai luoghi di perdizione i marinai inglesi e la neogotica chiesa anglicana nella vicina Piazza Marsala n. 3.

La svolta sarà 3 anni dopo quando al club si iscriverà un medico assunto per curare i marinai inglesi sulle carboniere. Il suo nome è Spensley, James Richardson Spensley.

La prima formazione del Genoa campione d’Italia: Baird, De Galleani, Ghigliotti, Pasteur, Spensley, Ghiglione, Le Pelley, Bertollo, Dapples, Bocciardo, Leaver. Genoa-International di Torino 2-1 . Reti Spensley (G), Bosio (I), Leaver dts.

Il Dottore era un poliedrico personaggio dai molteplici interessi: parlava correntemente tre lingue, conosceva sanscrito e greco antico, studiava le religioni orientali, scriveva per il Daily Mail, seguiva il pugilato, spendeva parte del suo tempo e dei suoi introiti per il sostentamento dei trovatelli.

Nel 1910 avrebbe fondato presso la Basilica delle Vigne la prima sezione scoutistica italiana. Oltre a ciò era anche arbitro, portiere e, all’occorrenza, giocatore di movimento.

Lo scatto più celebre di James Spensley che lo ritrae fra i pali.

Così nel 1897 iniziò ad organizzare il Club di football sul modello di quelli della sua madrepatria. Intensificò l’arruolamento di equipaggi e persino di operai delle Ferriere Bruzzo per giocare più partite possibile.

I primi incontri si disputarono a Sampierdarena, sulla piazza d’armi del Campasso (adiacente odierna via Walter Fillak), sui terreni di proprietà di due industriali scozzesi: John Wilson e Alexander McLaren. Si giocava, all’uso inglese, il sabato e il punto di ritrovo era la locale trattoria Gina.

Nell’assemblea del 10 aprile di quell’anno Spensley riuscì a far passare la sua mozione per l’ingresso nel club di soci italiani. Inizialmente l’allargamento fu stabilito in massimo 50 membri ma visto l’inaspettato successo fu presto reso illimitato.

Il campo del Campasso era ormai insufficiente per le esigenze della squadra e il Genoa si trasferì, lungo le rive del torrente Bisagno, nel nuovo campo di Ponte Carrega all’interno degli spazi utilizzati dalla Società Ginnastica Cristoforo Colombo, come pista velocipedistica.

Ricostruzione del campo di Ponte Carrega presso il Museo del Genoa.

Nel 1907 ancora un trasloco, stavolta presso il campo di S. Gottardo nell’omonima frazione sempre lungo il Bisagno, la cui struttura, destinata poi dal Comune all’impianto di un gasometro, si rivelerà presto di capienza inadeguata per ospitare i numerosi tifosi del Grifone.

Poi, finalmente nel 1911, grazie all’intervento del Marchese Emanuele Piantelli socio del Club, il Genoa avrà la sua casa definitiva nel campo “O Campo do Zena” di via del Piano, nel quartiere di Marassi, dal 1933 intitolato al capitano eroe di guerra Luigi Ferraris.

Curiosa anche l’evoluzione dei colori delle maglie: l’abbigliamento originario era derivato dal gioco del cricket e comprendeva, come testimoniato dalla foto del primo campionato vinto nel 1898, una camicia bianca, i pantaloni al ginocchio neri e calze nere. Già a partire dall’anno successivo, la squadra cambierà maglia, indossandone una a righe verticali bianche e blu. Sarà solo tre anni più tardi che il Genoa adotterà la tradizionale maglia a quarti rossoblù, con il rosso granata a sinistra e il blu scuro a destra. La scelta dei colori fu presa in seguito ad una proposta di tre soci del club, i genovesi Paolo Rossi e Giovanni Bocciardo, e lo svizzero Edoardo Pasteur dopo la morte della Regina Vittoria avvenuta nel 1901.

“Quando il Genoa già praticava il football gli altri si accorgevano di avere i piedi quando gli dolevano”.

Cit. Gianni Brera (1919-1992) scrittore giornalista sportivo.

Fonti: Storia insolita di Genova di A. Padovano Roma 2008.

Società Ginnastica Ligure C Colombo. Quarant’anni di Storia sociale. Genova 1905.

Caro Vecchio Balordo di Gianni Brera e Giovanni Calzia. Genova 2005.

Genoa Amore Mio di Gianni Brera e Franco Tomati. Genova 1992.

genoacfc.it sito ufficiale del Genoa CFC 1893.

In Copertina: l’atto di fondazione del Genoa.

Le lettere genovesi di Oscar.

Vagavo nel verde eremo dello Scoglietto/ le arance sui rami pendoli ardevano/ splendenti lampade d’oro, ad umiliare il giorno;/ spauriti uccelli fuggenti in rapido frullar d’ali/ mutavano in neve i petali dei fiori; ai miei piedi/ stendevansi pallidi i narcisi simili a lune d’argento/ e le arcuate onde che striavan la baia color di zaffiro/ ridevano nel sole e la vita sembrava dolcissima./ Fuori squillò il canto di un giovane chierico: / Gesù, il figlio di Maria è stato ucciso, / venite a coprire di fiori il suo Sepolcro. / Dio! Dio! l’incanto di quelle dilette ore pagane / aveva sommerso ogni ricordo dell’amara tua passione, la Croce, la Corona, i Soldati, la Lancia”.

Oscar Wilde (1854-1900).

Sonetto genovese composto nel periodo pasquale dal poeta irlandese durante il suo primo soggiorno in città. Villa dello Scoglietto è chiaramente Villa Di Negro Rosazza e la chiesa da cui sentì “squillare il canto” è la vicina San Vincenzo De Paoli.

In viaggio verso la Grecia fece scalo a Genova alla fine del marzo del 1877 in compagnia dei suoi insegnanti: “Arrivammo dapprima a Genova, che è una bellissima città con palazzi di marmo affacciati sul mare, e poi a Ravenna…”. Nel suo diario Oscar annota anche una visita a Palazzo Rosso dove rimane affascinato dal San Sebastiano di Guido Reni.

Le strade del poeta e di Genova si intrecciano ancora nel 1898 quando morì la moglie Constance che da tempo si era trasferita a Nervi nella speranza di guarire dalla sua inferma salute. Le sue spoglie riposano nel Cimitero Monumentale di Staglieno.

Nel 1899 Oscar è ancora a Genova per visitare la tomba della moglie. Scrive infatti in proposito:

Venni a Genova per visitare la tomba di Constance. Vi è una Croce di marmo molto graziosa sulla quale è avviluppata in bella forma una scura pianta d’edera. Il cimitero è un giardino ai piedi di belle colline che si innalzano verso le montagne che circondano Genova. È stato tragico vedere il suo nome scolpito su una tomba-il suo soprannome – solo Constance Mary, figlia di Horace Lloyd , Q.C. e un verso delle Rivelazioni. Le ho portato alcuni fiori. Ero emotivamente molto colpito – e mi resi conto dell’inutilità di tutti i rimpianti”. Lettera a Robert Ross 1 marzo 1899.

Tomba di Constance Lloyd sulla cui Intestazione il nome di O. Wilde verrà scolpito solo negli anni Venti del ‘900.

Wilde sarà stato pure scosso dalla perdita della moglie ma non perse tempo per consolarsi:

Durante il mio viaggio mi fermai a Genova, dove incontrai un bellissimo giovane attore, un fiorentino, che ho amato selvaggiamente. Ha lo strano mome di Didaco. Aveva l’aspetto di Romeo, senza la tristezza di Romeo: un volto cesellato, per una grande storia d’amore. Abbiamo passato insieme tre giorni…”

Lettera a Reginald Turner 20 marzo 1899.

… e pochi giorni dopo all’amico “intimo” Robert scrive ancora:

Parto domani mattina per Genova – Albergo di Firenze (attuale via Gramsci) – una piccola locanda lungo il porto, piuttosto malfamé, ma economica… la temperatura è molto alta, direi quasi estiva: sono sicuro che il mio soggiorno in Italia sarà delizioso. Perché non vieni a Genova per tre settimane? Non ti vedo mai… A Genova spero di trovare ad attendermi un giovanotto di nome Edoardo Rolla, un marittimo. È biondo, ed è sempre vestito di blu scuro. Gli ho scritto…

Lettera a Robert Ross, 1 aprile 1899.

D’altra parte Oscar Wilde non fece mai segreto della sua infedele bisessualità.

“Il segreto per rimanere giovani sta nell’avere una sregolata passione per il piacere”. Oscar Wilde.

Scambio epistolare tratto da Genova nella storia della Letteratura inglese. Veglione F. Genova 1937.

In Copertina: Oscar Wilde, Constance Lloyd, e il primogenito Cyril.

Le Virtù genovesi del Giambologna.

Nel 1579 il nobile Luca Grimaldi decide di commissionare i lavori per l’edificazione dell’omonima cappella di famiglia del Crocifisso nella chiesa di San Francesco di Castelletto.

Il prescelto a lavorare accanto alla tomba di Simone Boccanegra e al monumento di Margherita di Brabante è un noto artista fiammingo attivo già a Roma ed attualmente occupato nella Firenze medicea.

La Forza.
La Fede.
La Speranza.

Il suo nome è Jean Boulogne (1529-1608), italianizzato Giambologna e presta servizio presso il granducato di Toscana.

Così Luca, illustre membro del Maggior e Minor Consiglio e futuro doge di Genova nel 1605, scrive una lettera al granduca Francesco I in cui, come già aveva fatto la città di Lucca, ne chiede il prestito.

La Temperanza.

Serenissimo Signor,

si bisogneria in questa città dell’industria et della presenza di Gio. Bologna scultore et architetto di Vostra Altezza per qualche pochi giorni, et perché sappiamo per esperienza quanto la sia inclinata a favoritici, non habbiamo voluto manchare di significarglielo, et però la preghiamo a farci gratia di far licenza al detto Gio. che possi venire qua per quindici giorni, non dovendoli essere molto di scomodo poscia che come s’intende ha da venire a Luca (Lucca), et noi sentendone molto obbligo l’aggiorneremo a l’altri, et le bacciamo le mani.

Di Genova xx di Aprile 1579. A’ servigi di VA (Vostra Altezza).

Circa un mese dopo giunse la cortese risposta del duca:

Eccellentissimo,

Giouan Bologna, mio scultore et architetto, ha tra mano alcune cose mie, le quali però doverà aver finito tra pochi giorni, et allora per compiacerne l’Eccellenze Vostre, con il mio solito desiderio di gratificarle, et far loro servitio dovunque io possa, gli concederò il venir da loro, et il servire per quindici giorni, che poi è necessario che torni stando l’opera sua del continuo impiegata in miei lavori et occorrenze:con questo m’offero et raccomando ben di cuore all’EccellenzeVostre e desidero loro ogni prosperità.

Da Firenze allì 26 di Maggio 1579. Per servir VV Eccellenze. El Gran Duca di Toscana”.

La Giustizia.

Come si legge in una seconda lettera Giamnologna arrivò finalmente nella Superba il giugno successivo accompagnato da una richiesta di raccomandazione di tipo legale del duca stesso per un amico dell’artista. Insieme a lui, fra i collaboratori, è presente anche un altro grande scultore che opererà più tardi nel 1584 sempre per conto del Grimaldi, il francese Pierre de Francqueville (1548-1615), italianizzato Pietro Francavilla, realizzando le statue di Giove e Giano a Palazzo Bianco.

Illustrissimi et Eccellentissimi Signori,

Maestro Gio. Bologna se ne viene per servire l’eccellenze Vostre conforme al loro desiderio per quei quindici giorni, et oltre a quello che farebbe per se stesso, tiene anche comandamento da me di servire con ogni attentione, et diligentia maggiore, et mi prometto che le habbino a restar satisfatte, dell’operato e della vita sua. Egli ha seco un Baldassarre Mornile Fiammingo suo compatriota che desidererebbe, in una sua causa costà, giustizia sommaria , et espedita, però lo raccomando strettamente all’Eccellenze Vostre, et voglio saper loro grado molto accetto d’ogni favore, et giusto aiuto, che gli farannom porgere per la sua speditione, et raccomandandomi nella benevolentia loro con molto affetto, le desidero ogni felicità.

Da Fiorenza el di x di giugno 1579. Per servir VV Eccellenze. El Gran Duca di Toscana“.

Il soggiorno genovese del Giambologna evidentemente durò ben oltre i quindici giorni pattuiti visto che lo scultore, preoccupato, chiese al Grimaldi di inviare al granduca una lettera al fine di giustificarne il ritardo:

Serenissimo Signor,

Gio. Bologna scultore di cui li giorni passati V.A ci fece gratia venne et ha sodisfatto benissimo a quello che si desiderava, ma sopravenendo il bisogno dell’industria et giudicio suo sopra certe cappelle che si fabbricano, si è trattenuto un poco più di quello che si credeva; ancora che l’opera ricercarla per qualche tempo di più la sua presenza per certi adornamenti o figure di bronzo che qui bisognano, hora egli se ne ritorna; et però ringratiando V. Altezza del favore, la preghiamo ad havere per scusato il suddetto Gio. del tempo trascorso, et insieme concedergli che possi comandare o dare ordine a quelle figure o adornamenti di bronzo che si hanno a fare per compimento delle cappelle, e con questo fine si raccomandiamo all’Al. V. et le preghiamo felicità.

Di Genova a 27 di luglio 1579

La Carità.

Il motivo del ritardo è dunque lo studio di sei statue (realizzate poi a Firenze) ritenute oggi, a buon diritto, fra i capolavori assoluti della scultura manieristica del tardo ‘500: la Fede, la Speranza, la Carità, la Giustizia, la Forza e la Prudenza che, demolita la chiesa di Castelletto, sono oggi visibili nell’aula magna del palazzo dell’Università di Genova in via Balbi n. 5.

Oltre alle sei sculture delle Virtù cardinali e teologali il Giambologna ha lasciato anche sette bassorilievi in cui sono incise altrettante scene della Passione di Cristo. Anch’essi, visto il poco tempo in cui rimase a Genova, furono eseguiti successivamente a Firenze su committenza stavolta della famiglia Balbi.

Il tanto desiderato Giambologna a Genova non ha deluso le attese.

Foto tratte dal sito Progetto Storia dell’Arte.

In Copertina: Aula Magna del Palazzo dell’Università di Genova, Via Balbi n. 5.

Testi delle epistole tratte da “Giovanni Bologna a Genova”. Neri. A. Genova 1886.

Villa Mylius

Passando per la vecchia circonvallazione a mare, oggi Corso Aurelio Saffi, è impossibile non notarla.

Si tratta dell’ottocentesca villa Mylius costruita a quel tempo aggrappata alla scogliera sopra la cinquecentesca struttura del tratto di mura, dal nome dello scomparso vicino monastero ai piedi di Salita dei Sassi, di S. Margherita.

Fu eretta nella seconda metà del XIX sec. in stile neo gotico dall’architetto Rovelli. I suoi scenografici giardini degradavano sul mare dove oggi sorgono sopraelevata e cantieri navali.

Oltre al grande pregio degli arredi punto forte è la panoramica loggia belvedere che si affaccia sul porto Antico fino alla Lanterna.

Molto interessante la puntuale rappresentazione del pittore Alessandro Greppi che descrive il primitivo impianto: uno scorcio che raffigura la na villa situata su di un’altura con speroni di roccia alla base.

Il disegno inquadra in primo piano rocce e macchie di arbusti; sulla cima l’edificio si pone con affaccio verso sinistra, contrassegnato al piano terra da diverse finestre in stile bow-window e con archi a sesto acuto. Due corpi simmetrici ai lati della facciata presentano coperture a tetto spiovente. Nel prospetto laterale sono riconoscibili due aperture ad abbaino nel tetto.

Disegno eseguito a mano libera, ad acquerello a monocromo grigio, su cartoncino poroso. Autore Alessandro Greppi (artista brianzolo 1828-1918). Tratto dal sito LombardiaBeniCulturali.

La lussuosa dimora commissionata dal facoltoso imprenditore svizzero Federico Mylius è anche nota, dal nome dei successivi proprietari, come Villa Figari.

A dare idea dell’affabilità del padrone di casa e della bellezza della Domus assai pertinenti sono le impressioni di un noto poeta francese molto legato a Genova.

Genova bellissima! ieri a bordo d’una nave un ballo e la presentazione al celebre signor Mylius, uno dei più grandi collezionisti del mondo. Nella sua villa, Cluny e una casa dei Goncourt e ai piedi di queste meraviglie tutto il mare e i fiori di questi posti…”

e ancora…

Passo molte sere con un collezionista straordinario, l’inglese Mylius, intento a fumare in casa sua che è un Cluny affacciato sul mare e sul cielo. Quest’uomo possiede delle meraviglie che farebbero morire Goncourt di gelosia e delle quali gode, tutto il giorno, vivendo, dormendo in un dandismo abituale, in una suprema indifferenza”.

Cit. Paul Valéry (1871-1945) Poeta e scrittore francese.

Pane e pancogoli genovesi

A partire da fine ‘500 fino al ‘800 la Repubblica di Genova aveva riservato per sé il compito di produrre in esclusiva il pane.

Nel ‘300 i fornai chiedevano per ogni quarto di mina (mina, unità di peso equivalente a circa 100 kg) quattro denari e mezzo in inverno e cinque in estate e due soldi e mezzo per una mina intera.
Curioso il metodo di lavorazione: l’impasto veniva depositato a terra su sacchi lungo una trave che si trovava in alto e sopra la quale si facevano passare delle corde, da uno degli estremi fissate, dall’altro pendenti.

Ad esse si tenevano con forza i lavoranti che con i piedi ricoperti da apposite calze impastavano la farina a sua volta ricoperta da sacchi come quelli sottostanti.

Più che la lievitazione del pane al Comune premeva invece, per non fomentare il malcontento interno, quella dei prezzi.

Persino Colombo in una delle due lettere indirizzate nel 1504 al Banco di San Giorgio se ne preoccupava dando precise indicazioni al figlio Diego di versare annualmente a Genova la decima parte della rendita che avrebbe ricavato dai suoi redditi e privilegi, in sconto delle gabella sul grano, sul vino e su altre provviste che gravavano sul popolo.

Interno dell’atrio di palazzo San Giorgio con l’elenco delle gabelle per le singole merci. Sotto cinque cassette per il mugugno ai Magistrati del 1444, ai Magistrati del Sale, ai Revisori, ai Procuratori e ai Protettori.

Nel 1531, causa una grave carestia, si innescò una forte speculazione sul commercio delle granaglie e così i collegi, per garantire il pane a prezzi calmierati, istituirono dei forni pubblici.

Nel 1590, conseguenza di un’ulteriore pesante siccità che distrusse i raccolti dalla Spagna al Levante, il costo dei grani subì un nuovo forte aumento. Il Banco di San Giorgio, per far fronte alla crisi, concesse allora prestiti quasi gratuiti e si accollò le perdite dei forni.

A causa della penuria di grano si stabilì con un decreto che le navi che portavano grano a Genova godessero del privilegio del portus immuni, ovvero del porto franco“. (G. Giacchero 1984).

Gli uffici del Comune e il magistrato dell’Abbondanza ricevettero in seguito continue lamentele per la pessima cottura e la bassa qualità delle farine utilizzate.

Questa tipologia di pane, venduto a prezzo politico, proprio per la sua scadente qualità, fu chiamato pane da cavallotto, ovvero da quattro soldi.

I forni genovesi quindi erano in origine attigui al Portofranco ma vennero spostati per permettere di ingrandire lo stesso ed anche per allontanare il fuoco, pericoloso per le altre mercanzie.

Per questo con decreto del 18 agosto 1722 venne data la possibilità di costruire nuovi forni a Castelletto.

Contribuì alla spesa di nuovo il Banco di San Giorgio, elargendo lire centoventimila di “numerata valuta” e lire duecentomila di “moneta corrente”. La nuova fabbrica, ricca di acqua, fu installata e terminata in periodo di dominazione francese.

I fornai, detti pancogoli, applicavano con un ferro rovente un marchio per contrastare le frodi.

Ad esempio si ha traccia di un curioso documento in cui un fornaio tal Simone annota fra le spese sostenute l’acquisto di un marchio “Pro signandis fugaciis”. La focaccia già a quel tempo era dunque tutelata.

Nel 1839 il Comune, considerato l’elevato costo di produzione, rinunciò al suo monopolio e concesse in appalto ai fornai la fabbricazione del pane. Si stabilì che il prezzo del pane venisse fissato secondo il valore del frumento.

Ancora oggi nei pressi della Maddalena, alle pendici del monte Albano, restano i toponimi di Vico dei Fornai (oggi soppresso), Piazza dietro i Forni e Salita dei Molini a testimoniare l’antica vocazione della zona.

A chi ha famme, o pan o ghe pá lazagne“. Proverbio genovese. Traduz. “A chi ha fame, il pane sembra lasagne”.

In Copertina: La Preparazione del pane. Dal Theatrum sanitatis. Codice miniato del XIV secolo.

O Baxeichito

Al civ. n. 17 di vico Denegri si trova una delle più antiche osterie di Genova e d’Italia.

Una volta si chiamava Osteria della Colomba ed era una delle più frequentate della zona portuale.

Qui la notte del 3 febbraio 1834 pernottò Giuseppe Garibaldi in procinto di dichiarare, prevista per il giorno dopo, l’insurrezione popolare.

Smascherato il suo proposito riuscì, sfuggendo alla cattura grazie all’aiuto dell’ostessa Caterina Boscovich, a riparare nella natia Nizza in attesa di tempi migliori.

La taverna, come amano chiamarla i suoi avventori abituali, nel secolo scorso per decenni era nota, dal nome del suo istrionico proprietario, come Osteria Picetti.

Per noi ragazzi in quegli anni ’90 era una tappa d’obbligo per ascoltare musica dal vivo e soprattutto sorseggiare il baxeichito.

Il baxeichito è un cocktail a geniale imitazione del celebre mojito cubano dal quale si differenziava per la sostituzione della menta con il basilico.

– 5 cl Rum bianco
– 2.5 cl succo di lime
– 2 cucchiaini di zucchero di canna
– 5/6 foglie di basilico
– acqua gasata (o acqua di Seltz o soda).

Foto di Francesco Pizzetti.

Scomparso Gigi il 7 dicembre scorso il compito di portare avanti la tradizione dell’Ostaia de’Banchi spetta ai due nuovi timonieri Stefano e Sergio.

“E desgrazie son de lungo pronte comme e töe de ostaie”. Proverbio Genovese.

In Copertina: interno dell’Ostaia. Foto di Armando Farina.

Febbraio 2023

Il Gioco del Pallone e Vico Palla

Nel vecchio sestiere del Molo si trova il caruggio di vico Palla sede dell’omonima celebre osteria particolarmente apprezzata per il suo gustoso stoccafisso, nonché tempio della cucina tradizionale.

Un locale storico di cui si ha già notizia a partire dal ‘600 quando fra i suoi avventori -si racconta- ci fosse anche il pittore fiammingo Anton Van Dyck, abituale cliente durante il suo soggiorno genovese fra il 1621 e il 1628.

Osteria di Vico Palla.
Tovaglia in carta per fritti con sopra la poesia sullo stoccafisso scritta nel luglio ’71 da Luigi Vacchetto, detto “O Bacillo”.

L’origine del toponimo del vico rimanda al tempo in cui qui si riunivano i giocatori di pallone prima e dopo le competizioni sportive.

Nel catasto del 1798 il caruggio è infatti registrato come Strada della Palla.

Il gioco del pallone praticato derivava dalla tipologia cinquecentesca detta “del bracciale” toscana, a sua volta evoluzione della duecentesca pallacorda.

A fine ‘800 la disciplina del bracciale si divise in due specialità: quella nuova del pallone piccolo o piemontese, diventata in seguito “pallone elastico” poi pallapugno, e quella tradizionale del pallone grosso o toscano che per tre secoli fu il gioco più praticato in tutta la Penisola.

A Genova dalla versione toscana si passò quindi a quella piemontese.

I giocatori indossavano un bracciale di legno (di solito noce) lungo 17 cm. con un’impugnatura all’interno e numerose punte trapezoidali all’esterno leggermente spuntate, per imprimere maggior velocità alla sfera.

Il pallone utilizzato era di pelle di manzo e aveva le dimensioni di circa 12 cm. di diametro e 340 gr. di peso.

Il campo di gioco misurava mediamente 80 metri in lunghezza e 16 metri in larghezza e poteva essere affiancato dal muro di ribattuta, alto intorno ai 16–18 metri.

A Genova il terreno principale si trovava nei pressi dell’Acquasola (più o meno all’altezza dell’odierna Via Santi Giacomo e Filippo), ma si ha notizia anche di combattute partite disputate nella zona di Albaro davanti alla chiesa di Santa Maria del Prato.

Acquerello di inizio ‘800. Collezione topografica del Comune di Genova.

Le squadre erano composte da tre giocatori ciascuna (battitore, spalla e terzino) e il campo limitato nella parte opposta a quella del pubblico da un muro.

Al battitore spettava il compito d’iniziare il gioco con la battuta della palla che gli veniva lanciata con perfetto tempismo dal mandarino: quest’ultimo, in passato, veniva spesso reclutato tra i migliori giocatori bocce della città; la sua abilità consisteva infatti, oltreché nella suddetta scelta di tempo, anche nella precisione con la quale doveva lanciare la palla nel supposto punto d’impatto con il bracciale.

L’incontro si svolgeva nel modo seguente: battuta la palla e commesso il primo errore, la squadra che si aggiudicava il primo scambio conquistava i primi 15 punti ai quali si aggiungevano, sempre nel caso di vittoria, altri 15 punti, poi 10 e infine 10. Il punteggio veniva, pertanto, così conteggiato: 15 – 30 – 40 – 50 ma in origine era 15 – 30 – 45 – 60. Aggiudicandosi il cinquantesimo punto la squadra vittoriosa conquistava un gioco.

Il gioco ammetteva, oltreché la risposta a volo, anche quella dopo un solo rimbalzo.

I punti si facevano:

  1. se il pallone oltrepassava di volo il limite del campo avversario ma entro certi limiti segnalati da paletti: in tal caso si realizzava la volata;
  2. se il pallone, sorpassata la metà del campo, non era raccolto dall’avversario;
  3. se l’avversario mandava il pallone fuori dai lati maggiori;
  4. se l’avversario non mandava il pallone oltre la propria metà campo.

Per due giochi consecutivi la battuta spettava alla stessa squadra. Quattro giochi formavano un trampolino. L’intero incontro era costituito da tre trampolini per un totale di dodici giochi. La vittoria spettava alla squadra che totalizzava il maggior numero di giochi nei tre trampolini.

Il Gioco della Palla nel 1914. Stadium davanti alla Stazione Brignole. Attuale Piazza Verdi. Foto Guarneri
Il Gioco della Palla nel 1914. Stadium davanti alla Stazione Brignole. Attuale Piazza Verdi. Foto Guarneri

Nel XVIII secolo tale sport era cosi popolare, da essere oggetto di scommesse, causa di frequenti disordini pubblici e inesauribile fonte di risentite lamentele per i disagi arrecati.

Fonte delle notizie storiche sul gioco del Pallone tratte dal vol. n. 6 della Storia di Genova di Aldo Padovano.

Fonte delle regole:

Antonio Scaino, Trattato del giuoco della palla, Venezia, 1555.

Edmondo De Amicis. Gli azzurri e i rossi, Torino, 1897.

In Copertina: Vico Palla. Sullo sfondo le gru del porto e le Mur della Malapaga. Foto di Giovanni Cogorno.

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Vico dei Corrieri

Nella zona dei Macelli di Soziglia da Piazza Lavagna la strada si biforca in due caruggi: a sinistra vico Lavagna, a destra vico dei Corrieri.

Quest’ultimo caruggio prende il nome dalla presenza in loco nel ‘800 di alcune ditte di Corrieri la cui attività era funzionale ai traffici commerciali della città.
Ancor prima nel Medioevo il vicolo era invece noto come il caruggio dei Rumentari.

La suggestiva biforcazione: a sinistra Vico Lavagna, a destra vico dei Corrieri. Foto di Stefano Eloggi.

Qui infatti aveva sede la congregazione di coloro i quali si occupavano della raccolta della spazzatura, rumenta in genovese.

Il termine “rumenta” deriva dall’evoluzione dal latino classico “fragmenta” a quello tardo “ramenta” fino al medievale “rumenta” tuttora in uso nella nostra lingua.

I primi Rumentari furono all’inizio dell’anno Mille dei frati questuanti che ritiravano gratuitamente dalle botteghe ferro, segatura, lana, trucioli, stracci, cordame e persino escrementi umani, al fine poi di poterli rivendere.

Successivamente i Padri del Comune, per far fronte all’aumento delle richieste dovute all’incremento della popolazione, iniziarono a reclutare dei Rumentari laici affinché pulissero le strade e ritirassero addirittura la spazzatura a domicilio.

I carretti dei Rumentari nei primi del ‘900.

Fu così che per facilitare il lavoro degli addetti agli angoli delle strade vennero apposte delle targhe in marmo contenenti le disposizioni da osservare in materia di pulizia.

Ad esempio nel 1447 il regolamento in vigore recitava:

“Ciascuna persona dimorante in Genova e suburbi, almeno ogni settimana debba et in realtà faccia spazzare e togliere rumenta et varia dinnanzi alla sua casa fino alla metà del vicolo e faccia trasportare la rumenta e i gettiti (le cose gettate dalle finestre) in posto tale che non sia di nocumento al porto, sotto pena di  soldi 5 di multa“.

I Genovesi, antesignani della moderna raccolta differenziata, erano si rispettosi delle acque portuali e del pubblico decoro, ma anche, preoccupati dalle multe, attenti alle palanche.

Per questo motivo iniziarono a nascondere la rumenta nelle case disabitate dei dintorni costringendo il Comune nel ‘500, per contrastare questa cattiva abitudine, a farle murare.

In Copertina: Vico dei Corrieri. Foto di Alessandro Dore.

Il Presepe delle Brignoline

Nel convento di Nostra Signora del Rifugio in Monte Calvario sito in viale Virginia Centurione Bracelli a Genova, è possibile ammirare uno splendido presepe storico.

A lungo si è erroneamente ritenuto che la paternità di tale meraviglia fosse della scuola del Maragliano.

La cura dei dettagli negli abiti delle statuine.
Lo sfarzoso corteo del Re Mago africano a cavallo.
I doni minuziosamente riprodotti.

Gli altri Re Magi.
Due personaggi in preghiera lungo il sentiero. Da notare il particolare dell’edicola votiva all’angolo del palazzo che si illumina all’imbrunire.

Il presepe, composto da una quarantina di personaggi e da una decina di animali con maestria intagliati e dipinti, è opera invece di una rinomata bottega napoletana di fine XVII secolo.

Una famigliola con l’espressione felice e devota lungo il sentiero che conduce alla capanna.
Un servitore riposa su un giaciglio improvvisato.
Altri personaggi lungo il sentiero.
Stupefacente rappresentazione della Sacra Famiglia. Giuseppe a capo chino e la Vergine con la meraviglia nello sguardo.
Ancora il corteo in movimento. Una bezagnina reca un cesto di fiori.
Sullo sfondo un classico palazzo nobiliare genovese a bande bianco nere .
Ancora il corteo dei Re Magi.
Una coppia, due uomini e una dama lungo il sentiero.
La Lanterna veglia sullo sfondo.

Recenti studi hanno infatti attribuito il prezioso manufatto ad un famoso artista partenopeo.

La ricchezza dei tessuti degli abiti.

Secondi alcuni costui sarebbe Giacomo Colombo (1663-1730), secondo altri si tratterebbe invece di Nicola Fumo (1647–1725). In ogni caso entrambi celebri e apprezzati scultori lignei della città del Vesuvio.

Interpellate in merito le Suore Brignoline amorevoli custodi del presepe, in base alle informazioni in loro possesso, hanno posto fine alla querelle, indicando quasi certamente come autore il secondo.

Le statuine a manichino ligneo, alte circa 70 cm., sono snodabili e costituiscono un vero e proprio capolavoro del Barocco napoletano.

Quello che colpisce, oltre alla certosina attenzione al dettaglio nel confezionamento degli sfarzosi abiti e alla cura nella scelta dei tessuti, è senza dubbio la caratterizzazione ricercata delle espressioni che conferisce una connotazione ben precisa ad ogni singolo personaggio.

Uno scudiero del corteo del Mago Nero tiene in mano le briglie del cavallo.

Il presepe vanta, inoltre, un’origine assai prestigiosa perché proviene dalle collezioni di Gio.Francesco II Brignole– Sale (1695-1760), nobile genovese colto e raffinato che allestiva questo presepe nei saloni di Palazzo Rosso e Protettore del Conservatorio N.S. del Rifugio in Monte Calvario.

In Copertina: Il Presepe delle Brignoline. Foto di Giovanni Caciagli, autore anche di tutti gli altri scatti.

SUORE BRIGNOLINE

Viale Virginia Centurione Bracelli 13 – 16142 Genova

orario di visita: dalla sera del 24 dicembre 2022 al 2 febbraio 2023

         dalle ore 9.00 alle 11.30  e dalle 15.00 alle 18.30

info: tel. 010.825728 –

suore