Il 20 settembre 1958 l’entrata in vigore della Legge Merlin che chiude le case di tolleranza, sancisce la fine di un’epoca.
A Genova se ne contavano ben 22 e due strutture, la fondazione di Santa Caterina da Genova e l’Istituto delle figlie dell’Addolorata si attivano per ospitare e confortare le prostitute rimaste senza lavoro.
Prima ancora che per i cantautori genovesi, con le bagasce protagoniste nella poetica di De André o del Cielo in una stanza di Paoli, le prostitute furono fonte di ispirazione per i grandi poeti liguri del Novecento.
“Salivano voci e voci canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle, al colle. A l’ombra dei lampioni verdi di bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mescolava e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni…
… Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso appoggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiedessero su di una duplice ombra”…
“… A te aggrappata d’intorno/ La febbre de la vita / pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto/ Instornellato de le prostitute / E dal fondi il vento del mar senza posa”.
Così scriveva nei suoi Canti Orfici (1914), Dino Campana (1885-1932).
Emozioni riprese anche da Camillo Sbarbaro (1888-1967) che racconta le sue sensazioni all’uscita di un bordello:
“Esco dalla lussuria/ M’incammino/ pei lastrici sonori nella notte./ Non ho rimorso e turbamento. Sono/ Solo tranquillo immensamente./ Pure qualche cosa è cambiato in me, qualcosa fuori di me/ Che la città mi pare/ sia fatta immensamente vasta e vuota,/ una città di pietra che nessuno/ abiti, dove la Necessità/ sola conduca i carri e suoni l’ore…”.
Lirica tratta dalla raccolta Pianissimo del 1914.
Caproni (1912-1990) invece è meno intimista e, in merito alla lussuriosa vocazione genovese, va dritto al punto:
“Genova che non mi lascia/ Mia fidanzata bagascia. [..] Genova di mio fratello/ Cattedrale. Bordello./ Genova di violino/ di topo di casino./ […] Genova di Sottoripa/ Emporio. Sesso. Stipa./ Genova di Porta Soprana. /d’angelo e di puttana./ […] Fenova di Raibetta/ Di Gatta Mora. Infetta”.
Versi liberamente tratti da Litania (1956) di G. Caproni.
Sempre Caproni nel 1967 traduce invece i versi di un poeta francese André Frenaud (1943-1982) che nella sua “Il silenzio di Genova” scrive:
“[…] e ancora in giro per gli angusti carrugi, /le prostitute poliglotte le belle poppe/ che sanno la lingua d’ognuno./ tutta la gente che inganna la vita nei quartieri bassi,/ quella che sfida, quella che tace ugualmente ostinata,/ i palazzi con gli alti portoni chiusi, le alberature,/ le gru stagliate, se si sale si vedono,/ e, più in alto, il mare”.
Fonti: Canti Orfici, Dino Campana, Milano 1989; Poesie, Giorgio Caproni, Milano 1976; Poesia e Prosa, Camillo Sbarbaro, Milano 1979.
In Copertina: l’inequivocabile batacchio del portone del civ. n. 5 Palazzo Ivrea noto anche come Squarciafico di Piazza Invrea. Un tempo ospitava un lussuoso bordello, oggi un facoltoso studio notarile.