Il mare regna sovrano nella nostra storia ma, a sorpresa, come l’onda si ritira quando si parla di fiabe.
Ebbene si, a farla da padrone sono i racconti legati alla terra, forse perché tramandati dalle mogli che aspettavano il rientro dei loro mariti e dettati dai tempi dei lavori manuali ed agricoli.
Forse perché i marinai, sparsi in chissà quale oceano e indaffarati in commerci o impegnati in battaglia, non avevano tempo per perdersi in chiacchiere, intenti com’erano a salvare la “pellaccia”.
Genova e la Liguria non hanno una grande tradizione in materia e di secoli di racconti narrati intorno al focolare è rimasto ben poco.
Per fortuna, sul finire dell’800, il “foresto” James Bruyn Andrews si è “preso la briga e di certo il gusto di tramandare ai posteri il racconto giusto” raccogliendo nel suo “Contes ligures” il patrimonio nostrano.
Racconti di streghe, balli e processioni di morti, lupi mannari, sabba diabolici e stregonerie varie.
Una delle più diffuse è la foa delle “troe belle cetronnelle”, variante di quella nota, in altre regioni come ” delle tre melarance”;
In questa favola l’incantesimo al protagonista è svelato da due stregoni rappresentati da Venti Violenti (ne esistono comunque numerose varianti).
La tecnica utilizzata è quella della vivace e sintetica narrazione, basata sulla ripetitività e sulla progressione (grande, più grande, enorme, gigantesco).
Singolare, in alcuni racconti, più che mai espressione del nostro territorio, l’ossessivo susseguirsi di scale sempre più ripide e strette, proprio come gli angusti spazi dei secolari caruggi… Parsimoniosi non solo nelle palanche ma anche nelle parole!
Pellegro Piola, ventiquattro anni non ancora compiuti era già un pittore fatto e finito che godeva in città di alta considerazione.
Membro della dinastia di artisti che, assieme al fratello Domenico, rappresentarono la massima espressione del Barocchetto genovese, la sera del 25 Novembre 1640 mentre rincasava dalla bottega di Salita S. Leonardo sita in Carignano, in Sarzano venne aggredito e ferito a morte durante una rissa dall’amico e collega, il prete artista G. Battista Bianco.
Da quando nel 1637 Genova aveva proclamato la Madonna sua Regina era rifiorita la consuetudine (in vigore già dal ‘200) di adornare i caruggi con dei piccoli templi votivi, le Edicole, che le rendessero omaggio.
Le Corporazioni facevano a gara per esibire le Edicole più belle e sfarzose.
Fu così che quella degli Orefici che era fra le più ricche, commissionò poi a Pellegro un’opera che non avesse eguali:
un’edicola di ardesia che rappresentasse La Madonna con il bambino insieme a S. Eligio, loro patrono.
Terminato il lavoro in città non si parlava d’altro fu così che il Bianco, quando vide il capolavoro di Pellegro, rimase sopraffatto da cotanta bellezza e comprese la propria inferiorità artistica.
Reo confesso raccontò ai magistrati di aver commesso l’orrendo delitto per errore, accecato dall’invidia voleva infatti solo ferirlo, perché temeva che non avrebbe mai più ricevuto commesse finché Pellegro fosse stato in circolazione.
Copia dell’Edicola in questione è ancora oggi visibile in Via degli Orefici al n. 18 realizzata dal pittore Raimondo Sirotti.
Per intervento del Maestro stesso, a quel tempo Direttore dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, l’originale è ivi custodito.
Nelle brumose notti invernali leggenda narra che il fantasma di Pellegro vaghi ancora irrequieto in Sarzano…
Leggenda narra che un tempo Gesù, in compagnia di Pietro, si trovò a percorrere le creuze lungo Costa Chiappeto, sulle alture sopra San Benigno quando, stanco del lungo peregrinare, invitò il discepolo a cercare ospitalità per la notte.
Rimasto solo il Salvatore venne avvicinato da Lucifero in persona il quale gli propose una singolare sfida:
Avrebbe vinto chi dei due avesse scagliato lontano un ciottolo fino a raggiungere il mare.
Il Nazzareno, senza fatica alcuna, lanciò il sasso per circa un paio di miglia oltre il blu delle onde.
Belzebù, sicuro di se e di vincere agevolmente la scommessa, prese la rincorsa ma scivolò miseramente producendo un tiro imbarazzante.
Perso l’equilibrio cadde lungo disteso….. ecco perché in quella zona per secoli si mostrò una grossa pietra sulla quale, si raccontava, fosse impressa l’impronta delle demoniache natiche.
Quando si dice “Il Diavolo a gambe all’aria.”……
Frank “The Voice” Sinatra, di padre siciliano e madre genovese (di Rossi di Lumarzo) era un grande amante di Genova e del Genoa.
Non perdeva occasione la domenica, terminato di assistere alle partite di baseball, di chiamare in Liguria per sapere cosa avesse fatto il suo amato Grifone.
Sinatra infatti, a causa del suo forte legame materno, ha sempre considerato Genova la propria patria. Quando era in tournée in Italia faceva di tutto per capitare in città e cenare da “Zeffirino” del quale esportò il pesto negli States.
Quando morì nel 1998, in suo onore, Las Vegas spense le luci una notte intera e New York illuminò di azzurro (il colore dei suoi leggendari occhi) l’Empire State Building.
Interrogata in proposito la figlia, per sapere se Frank avrebbe apprezzato, costei rispose:
“Certo che si, ma se avessero proiettato le luci rossoblù, papà avrebbe gradito ancor di più…”.
The Voice volle affrontare infatti “l’ultimo Viaggio” per raggiungere, stella fra le stelle, il suo posto nel firmamento indossando una cravatta rossoblù.
L’11 gennaio 1999 Genova rimaneva orfana del suo figlio più devoto….
Il Poeta capace di comporre la più bella lirica per noi che amiamo questa città:
“Bacan d’a corda marsa d’aegua e de sa che a ne liga e a ne porta nte ‘na Creuza de ma”(padrone di una corda marcia d’acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare).
Nulla, meglio di questi versi intrisi di salsedine, riesce a descrivere duemila anni della nostra cultura.
Faber dipinge con le note e scolpisce con le parole.
A noi non resta altro che, a questa “corda marsa d’aegua e de sa”, rimanere ben ancorati.
Il 1522, come ricordato in apposito racconto, è l’anno del terribile Sacco di Genova.
Ciò non impedisce ai bigotti reggitori del Governo di occuparsi di frivole facezie come quella di proibire la canzone popolare, probabilmente di origine provenzale, detta del “Balaridone”.
Ecco il goliardico testo:
SI TROVASSE UNA DONNA,
CHE MI VOLESSE AMARE,
E POI VOLESSE FARE
CON MI LA PAVANELLA.…
ALHOR PER LA MIA PATRONA
IO LA VORREI CHIAMARE
E POI CON LEI CANTARE:
DE TOCA LA CANELLA
O DOLCE PASTORELLA
OYME’, CHE l’E’ PUR BELLA
DA FAR BALARIDON
DOGHE ( don) DOGHE ( don).
Così recita il decreto di messa al bando:
“La maledetta canzone de Balaridone, quale contamina la mente non solum de’ secolar de’ religiosi, cosci homini come done, che la odeno, soto pena di multa o fustigazione.
E se saranno puti, li saranno date tante patte”.
Con te, mano nella mano, Genova mi conduci a spasso nel tempo e… sempre m’innamori…
Alle spalle del Quartiere del Carmine, a pochi passi dal cuore universitario della città, salendo per S. Bernardino, si entra in un’altra dimensione dove luce e colori sembrano giocare a rincorrersi.
Si incontrano i caruggi dai nomi più dolci, a testimonianza che qui, un tempo, si esercitava l’antica arte pasticcera;
Vico della Fragola, dello Zucchero e del Cioccolatte per poi finire nell’ovattata Piazza della Giuggiola.
Luoghi ricchi di suggestioni e atmosfere sospese nel tempo dove anche lo spazio sembra entrare in punta di piedi.
In quest’area, dove sorgeva in epoca pagana il Tempio della Prudenza, il cui simbolo era appunto la giuggiola,
ancora oggi un secolare esemplare di questa pianta fa bella mostra di sé e dà il nome alla Piazza.
A proposito di Paganini, cui la Chiesa negò funerale e sepoltura perché convinta che avesse stipulato un patto con il Diavolo per primeggiare nella sua arte…..
Il celebre compositore rifiutò, dopo un’esibizione davanti a Carlo Felice a Torino il bis, pronunziando la famosa frase ancor oggi intesa come espressione di arroganza.
Fu per questo espulso dal Regno e tutte le sue future date, annullate.
In realtà il violinista intendeva dire che, essendo lui un virtuoso dell’improvvisazione, sarebbe stato impossibile riprodurre l’esibizione precedente.
Vico Gattamora dove è nato questo genio delle corde non esiste più, demolito e asfaltato dalla cementificazione che ha prodotto il Centro Direzionale dei Liguri (dopo soli quarant’anni già fatiscente), in luogo dei millenari quartieri della Marina e della Madre di Dio…..
Come recita una lapide (sul modello delle colonne infami) voluta dagli abitanti del Centro Storico, ad eterno ricordo dello scempio perpetrato:
“Non ci sarà mai più un secondo Paganini”.
Franz Liszt.
In Copertina: Locandina dell’esibizione di Paganini al Covent Garden di Londra.
Nell’anno del Signore 1778, un abate polceverasco di nome Bartolomeo Maggiolo, divenne oggetto, in seguito a sospette segnalazioni, di indagine da parte della Curia genovese.
L’Abate infatti, sempliciotto di modi e favella, cominciò improvvisamente a parlar forbito e a comportarsi in maniera anomala.
Fu stabilito, dopo un breve soggiorno all’ospedale dei pazzi, che fosse trasferito nella sua dimora di campagna nei pressi di Murta, nella speranza che il cambiamento d’aria gli fosse di giovamento.
Il religioso, per tutta risposta, cominciò a parlare in tedesco, francese, greco ed ebraico e ad occuparsi con arguzia,di argomenti politici, religiosi e filosofici.
Sentendo “odor di zolfo” la Curia ritenne opportuno inviare due esperti esorcisti ai quali il Maligno si dichiarò con il nome di Asmodeo.
Il diavolo resistette mesi alle sedute dei sacerdoti prendendosi gioco di loro e, addirittura, mettendoli in grave imbarazzo, svelando alcune loro passate malefatte.
Il Diavolo, forte dei suoi successi, fece una profezia, in perfetto latino, secondo la quale affermava che avrebbe ceduto solo “il giorno che non ha notte” e, sempre più sicuro di se, che si sarebbe arreso solo al “custode delle capre”.
Uno dei presenti si ricordò allora che, nel poco distante Monastero della Chiappetta, abitava un frate savonese, tal padre Becco (becco significa “custode delle capre”).
Asmodeo fu condotto nella chiesa del frate e, dopo una lunga lotta, dovette arrendersi e abbandonare il corpo dello stremato Maggiolo.
Era l’8 settembre 1779, il giorno consacrato alla natività di Maria;
il giorno “quae noctem non habet”, che non conosce la tenebra…
Svelato… il diabolico enigma!
Nel 1180 i cavalieri di S. Giovanni decisero di costruire due chiese, una sopra l’altra, con relativo Ospitale in modo che i malati potessero assistere alla Messa dal loro letto.
La Chiesa Superiore è tutta in pietra nera di Promontorio e ti avvolge in un’atmosfera magica (una delle poche tutta in pietra nera proveniente dalla cava di S. Benigno), quella Inferiore poi, nella sua essenzialità è strepitosa; in particolare la Cappella di S. Margherita dove i Crociati ricevevano la benedizione emana un fascino fiabesco.
Lasciati rapire dall’irreale silenzio e, se porgi l’orecchio, ti pare di sentire ancora lo sferragliare delle spade e delle armature.
I Cavalieri gerosolimitani di S. Giovanni erano un ordine religioso militare, antenato del più celebre Ordine dei Cavalieri di Malta.
Divenuti ricchi e potenti affidarono (da”commendare” in latino) la gestione del complesso ad un amministratore. Per questo si chiama Commenda.
La leggenda poi narra la vicenda del miracolo di S. Ugo, al secolo Ugo Canefri, Priore di San Giovanni, uomo pio e valente guerriero che, intenerito dalle lamentele delle donne che, per lavare i panni dovevano percorrere troppa strada per raggiungere i lavelli, con la preghiera fece scaturire una sorgente d’acqua sul posto.
Tale Sorgente esiste ancora oggi e alimenta sia la Stazione Principe che una fontanella in Via Prè, proprio davanti alla chiesa.