Storia del Blue Jeans…

L’origine del tessuto più commercializzato sul pianeta è qui a Genova.
Infatti già in pieno medioevo la saia di color indaco proteggeva, sotto l’armatura, i nostri Balestrieri.
Il commercio su larga scala iniziò a cavallo tra medioevo ed età moderna quando Genova era snodo di importazione di cotone e esportazione di fustagni e tele.
Il colore utilizzato era l’indaco proveniente dal Bengala e da Giava, meglio noto come Blu de Genes in francese e, tradotto in inglese, appunto Blue Jeans.
La Repubblica affidò la lavorazione di questo tessuto che, inizialmente aveva utilizzi prettamente navali, ai piemontesi di Chieri e ai provenzali di Nîmes.
Per questo motivo il Jeans è anche noto come Denim (De Nîmes… per contrazione “Denim”).
Nel nuovo mondo il Jeans divenne l’indumento principe di cercatori d’oro, di minatori e di vaccari, insomma dei cow boys.
Nell’800 continuò ad essere indossato dai portuali e persino da Garibaldi ed i suoi Mille.

"I pantaloni in jeans di Garibaldi con la famosa toppa sulla gamba sinistra".
“I pantaloni in jeans di Garibaldi con la famosa toppa sulla gamba sinistra”.

 


A metà del secolo scorso raggiunse l’apice della popolarità grazie a James Dean, Kerouac e alla Beat Generation.
A testimonianza del legame popolare con la nostra città, un collezionista privato ha raccolto un presepe settecentesco le cui statuine sono vestite con abiti di jeans.
Esistono poi quattordici paramenti sacri cinquecenteschi
dipinti su tela blu, provenienti dall’antica Abbazia di San Nicolò del Boschetto ora conservati presso il Museo Diocesano.

"Particolare della Deposizione di Cristo".
“Particolare della Deposizione di Cristo”.

 

"Seconda sala blu del Museo Diocesano".
“Seconda sala blu del Museo Diocesano”.

Storia delle Edicole…

di Santi, di Madonne, di galeotti, di pittori e di assassini.

Nel 1133 San Bernardo di Chiaravalle che è a Genova per tentare di riappacificare la città con Pisa vi diffonde il culto della Madonna di cui è devoto.

Genova diventa fra le prime città in Italia a venerare la madre di Gesù. I caruggi, agli angoli dei palazzi, si popolano di edicole (“piccolo tempio” in latino) dedicate ai Santi protettori e a Maria.

Raggiungono la massima diffusione nel ‘700 dopo l’elezione nel 1637 della Madonna a Regina. Ogni corporazione gareggia per avere l’edicola più bella.

E’ un onore essere scelto per la loro cura, manutenzione e illuminazione.

In questo modo la sera Zena, a gratis, è sempre illuminata (altro che Londra o Parigi dicono i viaggiatori del tempo). Molte sono state rubate, altre distrutte dalle intemperie o deturpate dall’incuria: solo che nel centro storico se ne contano ottocentoquarantanove.

Alcune meritano di essere ricordate; “La Madonna del Galeotto” posta sotto il Ponte di Carignano così chiamata perché un giorno un marinaio arrestato ingiustamente si gettò ai suoi piedi per testimoniare la propria innocenza. Le catene si ruppero e il devoto Galeotto fu liberato senza processo;

La settecentesca “Madonna delle Cinque Lampadi” (in ardesia) presso l’omonima piazza, all’angolo con Vico del Filo, talmente bella che veniva illuminata giorno e notte appunto da cinque lanterne.

Secondo altre fonti invece nella zona sarebbe stata in compagnia di ulteriori quattro immagini sacre illuminate da altrettante lampade e, sarebbe quindi questa l’origine del toponimo;
"L'edicola della Madonna delle cinque lampadi".
“L’edicola della Madonna delle cinque lampadi”.

“L’edicola degli orefici” dedicata a S. Eligio patrono degli orafi commissionata al pittore Pellegro Piola perché fosse, fra tutte, la più sfarzosa. Il Bianco, pittore amico del Piola, quando la vide, comprese quanto l’autore di tale opera gli fosse superiore.

Morso dall’invidia e dalla gelosia, la sera stessa, in Piazza Sarzano, attese il rivale e lo uccise accoltellandolo.

La leggenda narra che il fantasma del Piola, di notte,

vaghi ancora per la piazza in cerca di vendetta.

"L'edicola barocca di Salita Pollaiuoli".
“L’edicola barocca di Salita Pollaiuoli”.

 

Storia di marinai… di Magistrati…

di diritti e di mugugni.

Fin dal Trecento la Magistratura dei Conservatori del mare (il più antico organismo preposto a tutte le attività concernenti le acque e la marineria) aveva regolamentato e sancito il diritto al mugugno.

Un privilegio accordato agli imbarcati camoglini, i più bravi su piazza, ai quali venne concesso, oltre ad una migliore paga, il diritto di lamentarsi.

I genovesi infatti, in ambito marinaro, non tolleravano ordini o ingerenze da chicchessia quindi presero a brontolare e borbottare.

Vennero quindi stabiliti due tipi di ingaggio. il primo prevedeva paga elevata e niente mugugno, il secondo paga decurtata e diritto a lamentarsi.

scontro genova venezia
“Scontro nell’Adriatico Genova Venezia, S. Giorgio contro S. Marco”.

Questa consuetudine venne interrotta e abolita nel ‘500, ai tempi dell’ammiraglio Andrea Doria quando questi propose ai suoi equipaggi migliori condizioni di lavoro (ad esempio riduzione dei turni di voga) e alimentari (carne essiccata a bordo al posto delle solite sbobe) nonché un salario più cospicuo in cambio della rinuncia.

Terminata l’epoca dell’ammiraglio i marinai della Superba continuarono a rinunciare a parte dell’ingaggio pur di mantenere il loro secolare diritto.

La quint’essenza dei genovesi deriva quindi dalla loro pretesa e manifesta superiorità marinara.

Il mugugno è catartico, basta a se stesso, non chiede, non pretende, proprio come l’indole dei zeneizi.

Storia di una torre…

e dei suoi illustri prigionieri…

corsari, pirati, musichi, eroi, artisti.

In origine la torre trecentesca, come anche il sottostante palazzo, apparteneva alla famiglia Fieschi. Accorpata al Palazzo Ducale è collegata da un arco al Palazzetto Criminale adibito ai malfattori comuni.

La torre era invece destinata ai prigionieri politici o comunque di riguardo. Nelle sue celle (una di queste “la Grimalda” dà il nome alla costruzione) furono rinchiusi personaggi straordinari:

Il Doge Paolo Da Novi, ribelle contro l’occupazione francese, poi decapitato; il pirata saraceno Dragut, il luogotenente del Barbarossa catturato dal Principe Doria; i cospiratori contro la Repubblica come Vacchero e Raggio; il violinista Paganini, il musicista più famoso del suo tempo, reo di aver molestato una minore; artisti come il Mulier, detto “Il Tempesta”, celebre per le sue tele marittime, accusato, ingiustamente, di uxoricidio; altri pittori che, durante la loro reclusione, hanno decorato i loro alloggi come Sinibaldo Scorsa, Domenico Fiasella, Luciano Borzone e Andrea Ansaldo."La "La cella di Jacopo Ruffini".

Il mio pensiero però va a Jacopo Ruffini, compagno di Mazzini che, torturato e violentato, piuttosto che tradire i suoi ideali ed elencare i nomi dei membri della Giovine italia, ha preferito il suicidio.

Subito mi accarezza la mente la struggente “Preghiera in gennaio” di De André, dedicata all’amico Tenco.

Con il sangue delle vene recise ha scritto sul muro della cella: “la risposta?… la vendetta dei miei fratelli”.

Storia di San Siro e il basilisco…

Seguendo la tradizione San Siro, vissuto per alcuni nel quarto secolo d. C, per altri nel sesto, sarebbe il secondo Vescovo di Genova.

La sua storia giunge ai giorni nostri tramandata dalla “Historia Genuae” di Jacopo da Varagine, autore, fra l’altro, anche della ben più celebre “Legenda aurea”.

Secondo questo racconto, in un pozzo poco distante dalla cattedrale dei Dodici Apostoli, appunto odierna S. Siro (dove, per altro sarà battezzato un altro apostolo, quello della libertà, il Mazzini), viveva un terribile serpente (rappresentato anche come un gallinaccio) che, con il suo alito pestilenziale, infestava la città.

Dopo inutili preghiere, penitenze e digiuni, Siro si recò al pozzo e, calatovi un secchio gli intimò di salirci dentro per farsi tirare fuori.

"Lastra marmorea scolpita su palazzo Pinelli che ricorda il miracolo di Siro".
“Lastra marmorea scolpita su palazzo Pinelli che ricorda il miracolo di Siro”.

 

Il basilisco, ammansito, si raggomitolò nel secchio e così il Vescovo poté mostrarlo al popolo.

Senza minaccia alcuna gli impose di raggiungere il mare, cosa che il mostro fece, senza opporre resistenza.

Il miracolo è raffigurato in un meraviglioso affresco del diciottesimo secolo nel coro della chiesa ad opera del Carlone. Questi, ricercato per omicidio, si era lì rifugiato, godendo del diritto di asilo del luogo sacro e, con il suo affresco, aveva inteso sdebitarsi.

S. Siro e il basilisco anticipa alcuni dei temi e dei segni che caratterizzeranno il simbolo militare di Genova, S. Giorgio e il drago.

In realtà Siro apparteneva alla corrente religiosa che si opponeva all’arianesimo, qui dal serpente rappresentato, sconfitto dalla verità e capacità di persuasione del Vescovo.

 

 

Storia di Paciugo e Paciuga…

e breve menzione del Santuario di Coronata.

Le notizie sulla chiesa di S. Michele Arcangelo e Santa Maria dell’Incoronata si perdono nella notte dei tempi allorquando, una misteriosa Madonna lignea comparve sulla spiaggia di Caput Arenae e, spostandosi continuamente, si lasciò cogliere solo sulla collina di Coronata.

Al suo interno, fra le tante opere d’arte, interessante come testimonianza dal punto di vista storico una tela ottocentesca raffigurante il Doge Tomaso di Campofregoso in pellegrinaggio al Santuario in segno di ringraziamento per una battaglia navale contro gli Aragonesi, avvenuta nel 1420."Santuario di S. MIchele e S. Maria Incoronata".

Nel 1887 padre Persoglio, rovistando negli archivi, ci trasmise in stretto genovese, una curiosa storiella accaduta, pare, in pieno Medioevo:

Paciuga, ogni sabato, dalla sua abitazione nel borgo di Prè si recava, dopo lungo scarpinare, al Santuario per pregare e chiedere il ritorno, sano e salvo, di Paciugo, il marito marinaio catturato dai Turchi.

I vicini, malelingue, pensarono subito ad una tresca e sparsero in giro tale menzogna.

Un bel giorno Paciugo, sfuggito ai Musulmani, riapparve in Darsena ma, prima che gli abbracci della moglie, lo accolsero le altrui calunnie.

Il marinaio, con il cuore gonfio d’odio, corse a casa e, per festeggiare il suo avventuroso rientro, invitò la sua bella ad una gita in barca. Giunto al largo, accusò la moglie e, nonostante le sue accorate smentite, la affogò.

Appurato, in seguito, che Paciuga era stata sincera, non sapeva darsi pace per l’orrendo assassinio.

Fu allora che la Madonna, colpita dal suo sincero pentimento, lo condusse al Santuario dove poté riabbracciare la sua fedele sposa.

Storia di una meravigliosa… e misteriosa Signora…

Nel gennaio del 1636 il porto di Genova è devastato da una terribile mareggiata che, di fatto, spazza via tutte le navi. A Zena si sa, non si butta via niente così i rottami delle imbarcazioni vengono messi all’asta.

Due marinai acquistano una prosperosa polena appartenuta ad una nave d’alto bordo irlandese e, in attesa di decidere cosa farne, la ripongono in un magazzino di un palazzo della famiglia Lomellini.

Lì rimarrà  dimenticata per settanta lunghi anni fino a quando un bambino cadrà dall’ultimo piano di quell’edificio rimanendo illeso.

Il fanciullo alla gente accorsa incredula racconterà di essere stato preso in braccio da una bella signora vestita d’azzurro, uscita dal magazzino.

“Il prezioso altare in cui è conservata la Madonna della Fortuna”. Foto di Franco Risso.

Sfondata la porta, trovarono l’azzurra polena e subito la vestirono con abiti sacri e la portarono nella vicina chiesa.

Ancora oggi, per chi ci crede, è venerata nella chiesa di San Carlo in Via Balbi, con il nome di “Madonna della Fortuna” perché fu un vento di fortunale a portarla nella nostra città e porta fortuna a chi la onora.

Storia di un Teatro libertino e…

leggenda di una maschera… con un dolce finale.
In Vico dietro il coro delle vigne, nei pressi dell’omonima chiesa, aveva sede sul finire del ‘600 un’osteria che, nel 1702 si trasformò in un teatro molto popolare.
Spesso offriva spettacoli di girovaghi scatenando, per questioni di moralità, la repressione delle autorità cittadine: “si permettono gesti, motti, atteggiamenti ed anche abbracciamenti che non sono degni di una nazione civile e gentile”.
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Vico dietro il coro delle Vigne”. Foto di Giovanni Cogorno.

Ad inizio ‘800 vi si esibì la Compagnia di burattini Sales Bellone famosa per le gesta del vivace contadino piemontese Gerolamo, personaggio da loro creato.
Essendo Girolamo anche il nome del Doge dell’epoca (Durazzo) la polizia impose, per scongiurare imbarazzi, il mutamento del nome in “Giuanin d’la douja”(Giovanni della Foglietta) che, nel tempo, si trasformò in Gianduj
a.
Così nacque la più famosa maschera piemontese e, più tardi, l’accostamento al celebre cioccolatino.

In Copertina: immagine di Gianduja maschera piemontese (Asti, Torino). Tratta dal sito castellalfero.net

Storia di Crociati… di Balestrieri…

tornei… di dita tagliate e occhi strappati.

I Balestrieri genovesi, protagonisti della conquista di Gerusalemme, costituirono il corpo scelto più temuto del Medio Evo.

I Crociati nostrani, insieme a quelli fiamminghi e provenzali, rimasti a guardia del Tempio, diedero origine al secolare ordine dei Templari.

"Balestrieri genovesi all'assalto delle mura".
“Balestrieri genovesi all’assalto delle mura”.

 

Si esercitavano nella zona del Vastato (o “Guastato”), dove oggi sorge la chiesa dell’Annunziata, partecipavano a veri e propri tornei di selezione banditi in tutta la Repubblica.

Dovevano avere una certa prestanza e soprattutto una notevole mira per utilizzare la “manesca” (nome della balestra genovese) e scagliare i loro dardi fino a quattrocento metri di distanza con precisione assoluta.

"Balestrieri genovesi impegnati nella battaglia di Crécy".
“Balestrieri genovesi impegnati nella battaglia di Crecy del 1346”.

 

La paga era cospicua ma i contratti rinnovati annualmente. Per poter issare lo stendardo di S. Giorgio dovevano salpare almeno cinque galee in assetto da guerra con almeno una “Bandiera” per legno, a bordo.

La “Bandiera” era una formazione di venti balestrieri comandata da un “Conestabile”. I francesi in particolare, ma anche quasi tutti gli altri eserciti europei, li noleggiavano pagando lauti compensi alla Repubblica.

I contingenti potevano raggiungere anche qualche migliaio di individui e, fino all’avvento della polvere da sparo, erano considerati un po’ i “marines” del loro tempo.

Addirittura Federico II, catturatone una formazione nel 1247, fece loro mozzare le dita e orbare gli occhi perché non potessero più nuocere in battaglia.

Il loro utilizzo toccò l’apice durante la Guerra dei Cent’anni a fianco dei francesi e perdurò ancora per gran parte del Cinquecento.

Oggi la Compagnia dei “Balestrieri del Mandraccio” con sede nella Casa del Boia si occupa di mantenerne viva la storia attraverso accurate rievocazioni in costume.

Storia di un cagnolino…

longevo e di un artista riconoscente…

Scolpito sulla colonna destra del portale della Cattedrale di S. Lorenzo, lato dell’omonima via riposa, ad altezza occhi un cagnolino opera di uno degli artisti che, nel ‘500, restaurarono la chiesa.

Pare che i due fossero inseparabili così che, alla morte dell’animale, lo scultore appartenente alla Corporazione degli antelami (maestranze provenienti dal comasco e dal Canton Ticino) volle ricordarlo dormiente per l’eternità.

La gradevole storiella è priva di fondamento e trova palese smentita nelle numerose altre simili rappresentazioni zoomorfe presenti in città.

Ad esempio nel chiostro di S. Andrea dietro la casa di Colombo ve ne è uno identico.

Le figure antropomorfe, fitomorfe e zoomorfe, soprattutto se fantasiose e bizzarre, come spiegato dal Prof. Giacomo Montanari (curatore delle manifestazioni dei Rolli) erano infatti patrimonio consolidato dell’arte già dal XIII secolo.

La leggenda sostiene che accarezzarlo porti fortuna ma il marmo, a forza delle attenzioni che gli hanno riservato i genovesi, ormai è liscio e consumato. Meglio quindi, al fine di  preservarne l’integrità, limitarsi ad ammirarlo. Il cagnolino stesso ve ne sarà grato.