La Croce degli Zaccaria…

Nella cripta del Museo della cattedrale di S. Lorenzo è custodito uno dei più importanti gioielli del mondo occidentale; un manufatto di inestimabile valore storico, religioso, gemmologico e simbolico. Si tratta della Croce degli Zaccaria, così chiamata dal nome della nobile famiglia genovese che a lungo, prima di donarla al capitolo di S. Lorenzo, ne ebbe la proprietà.

La croce venne commissionata nel IX sec. da Bard, fratello dell’imperatrice madre Teodolinda, per conservare adeguatamente due sacri frammenti della Vera Croce raccolti da San Giovanni Evangelista in persona sui quali, secondo la tradizione, Gesù avrebbe poggiato il capo.

La preziosa reliquia venne donata dal futuro imperatore alla basilica di Efeso, la più importante chiesa cristiana d’Oriente e custodita, su disposizione dell’arcivescovo Ciriaco, all’interno di una sfarzosa teca d’oro.

Nella seconda metà del ‘200 il vescovo Isacco, preoccupato per lo stato di cattiva conservazione della croce, la fece restaurare conferendole l’odierno aspetto di stauroteca (contenitore a forma di croce di reliquie sacre): la parte anteriore è costituita da una lamina d’oro, decorata con pietre preziose e con al centro le due sacre schegge, l’impugnatura invece, sempre di pregiata manifattura bizantina, risale al XV sec.

Il retro reca una scritta in greco che recita: “Questa sacra custodia Bard fabbricò e Isacco arcivescovo rinnovò perché logora”. Alle quattro estremità dei bracci sono raffigurati insieme ai loro monogrammi in alto Cristo pantocratore, al centro la Vergine e ai suoi lati a destra l’arcangelo Gabriele, a sinistra l’arcangelo Michele, in basso San Giovanni Crisostomo.

Nel 1304 i Turchi selgiuchidi saccheggiarono la basilica depredandola di ogni ricchezza, croce compresa.

"Una delle sale della cripta del Museo di S. Lorenzo".
“Una delle sale della cripta del Museo di S. Lorenzo”.

Fu Manuele, signore di Focea e potente esponente della casata degli Zaccaria, erede di quello straordinario ammiraglio che fu Benedetto (fondatore della marina militare castigliana, riorganizzatore di quella francese ed eroe della Meloria) che la riacquistò dagli infedeli in cambio di un’ingente partita di grano.

Solo quattro anni dopo, la notte di pasqua del 1308, un manipolo di avventurieri catalani al comando del terribile condottiero Muntaner razziarono la chiesa di Focea alla quale era stata affidata la custodia della croce e se ne impadronirono. Teodisio, figlio di Manuele lo stesso anno, assediati i pirati nell’isola di Taso, ne ottenne la restituzione. Gli Zaccaria di Focea continuarono a tramandarsi il sacro reliquiario fino al 1380, anno in cui Centurione Zaccaria la donò alla Cattedrale di Genova. Da allora venne portata in processione insieme alla celebre arca del Corpus Domini, anch’essa custodita nella cripta del museo di S. Lorenzo, in occasione dell’omonima ricorrenza e, soprattutto, utilizzata per la benedizione durante la cerimonia del Doge entrante.

"La Croce degli Zaccaria nella sua scenografica collocazione museale".
“La Croce degli Zaccaria nella sua scenografica collocazione museale”.

Gli Zaccaria, i Dogi, la gloriosa Repubblica non ci sono più ma la Croce, testimonianza tangibile di una devozione secolare, benedice ancor oggi l’insediamento dell’arcivescovo di Genova simboleggiando il duplice valore civile e religioso della sacra reliquia.

In Copertina: La Croce degli Zaccaria. Foto di Giovanni Caciagli.

Storia del Maestro… e il legno prende vita e forma…

Nasce a Genova nel 1664 il più grande scultore del suo tempo. Entra giovanissimo, in qualità di apprendista, nella bottega dello zio Gio Batta iniziando a copiare le opere del Bissone.

A soli ventiquattro anni il Maragliano possiede già una bottega tutta sua sita in Via Giulia (attuale Via XX Settembre) e diviene maestro indiscusso delle sculture lignee.

La sua scuola produrrà casse processionali, crocifissi, sculture sacre in tutta la Liguria ma la sua fama varcherà i confini della Repubblica esaudendo commesse per diverse città spagnole, Cadice e Siviglia in particolare.

oratorio di S. Agostino Savona incoronazione di spine
“Oratorio dei SS. Agostino e Monica in Savona. Cassa processionale della incoronazione di spine”.

 

Grande amico del pittore Domenico Piola che aveva il suo studio nella poco distante Salita San Leonardo, incontra e apprezza il concittadino Filippo Parodi e il marsigliese Pierre Puget, anch’essi scultori di prim’ordine.

Come il Piola nella pittura e il Parodi nel marmo, Anton Maria rivoluziona l’arte del legno anticipando gli stilemi del Barocco genovese.

Fra le innumerevoli opere, quelle forse più care e note ai genovesi, sono le statuine del presepe e la celeberrima Pietà, entrambe custodite nel Santuario della Madonnetta.

"Particolare del presepe".
“Particolare del presepe”.

 

Dopo oltre cinquant’anni di arte sacra portata ai massimi livelli Maragliano, di ritorno da uno dei suoi frequenti viaggi in Spagna, nel 1739 si spegne nella sua Genova. A raccoglierne la preziosa eredità artistica, oltre ai discepoli della sua bottega Agostino Storace e Pietro Galleano, sarà l’allievo di quest’ultimo Pasquale Navone, il vero continuatore della feconda tradizione scultorea genovese.

 

"Cristo bianco in San Bartolomeo degli Armeni".
“Cristo bianco in San Bartolomeo degli Armeni”.

 

 

Storia di un Monaco…

Il nome della città di Monaco deriva dalla denominazione voluta nella notte dei tempi dai Fenici, che la chiamarono in greco Monoikos “Una casa sola”. Da sempre territorio delle tribù dei Liguri, nel 600 a.C. in omaggio alle fatiche di Ercole, venne ribattezzata dai greci di Marsiglia che l’avevano occupata Portus Herculis Monoeci. Il figlio di Zeus infatti, di ritorno dalle sue leggendarie fatiche, proprio dopo il Rodano aveva dovuto arrestarsi di fronte ai Liguri.

Sebbene non abbia alcun legame con l’origine etimologica del nome il termine monaco ricorre curiosamente a proposito dell’insediamento della famiglia Grimaldi, tuttora casata regnante dell’anacronistico Principato.

"La Rocca di Monaco, costruita dai genovesi nel 1215".
“La Rocca di Monaco costruita dai genovesi nel 1215”.

 

Francesco Grimaldi esponente di spicco della famiglia guelfa, una delle quattro più influenti della città (Fieschi guelfa e Doria e Spinola ghibellina, le altre tre), nel 1297 in occasione di una delle frequenti lotte intestine salpò alla volta della Rocca di Monaco.

L’ammiraglio detto il “Malizia” per la sua astuzia, con uno stratagemma, aiutato da un parente membro del drappello di guardia, riuscì ad introdursi nella fortezza vestito da monaco e a conquistarla.

"La statua del "monaco" Francesco Grimaldi".
“La statua del “monaco” Francesco Grimaldi”.

Da allora fino ai giorni nostri con alterne fortune, interrotti in alcuni brevi periodi i Grimaldi hanno gradualmente perso contatto con la madrepatria e regnato sul Principato.

La tomba di S. Maria di Castello…

Nel secondo chiostro di S. Maria di Castello (un tempo luogo di sepoltura della nobile famiglia dei Grimaldi dell’Oliva), poco distante dalla Loggia della  celebre “Annunciazione” di Giusto da Ravensburg, è custodita una lastra tombale di pregevole fattura, testimonianza di arguta metafora.

Realizzato in marmo bianco di Carrara con cornice in pietra nera di promontorio il sarcofago tardo quattrocentesco è attribuito ad un membro dell’illustre dinastia di scultori dei Gagini.

Raffigura infatti la morte nella più classica delle rappresentazioni: uno scheletro con intorno scolpito un nastro recante i nomi dei fratelli Grimaldi ivi sepolti (Lionello ed Emanuele), armato di arco, falce e faretra, i simboli del Cristo Mietitore. Ai suoi piedi un cospicuo cumulo di monete, un vero e proprio tesoro, meglio sarebbe dire bottino dato che, come costume diffuso del tempo, anche l’illustre schiatta dei Grimaldi praticava la pirateria.

Sul festone è inciso un motto latino che, attribuito a San Gerolamo, recita:

Facile comptemp<n>it omnia qui sese cogitat moriturum.

Il cui senso tradotto è: “disprezza facilmente ogni cosa facilmente chi si pensa prossimo alla morte”.

Ovvero: “A che serviranno le ricchezze nell’aldilà?, certamente non a evitare il tuo mortale destino”. Come d’altra parte non sono servite ai Grimaldi, fondatori fuggiaschi di un Principato e traditori della patria!

Foto di Bruno Evrinetti.

“Ecce Homo”…

queste, secondo il Vangelo di Giovanni, le parole pronunciate da Ponzio Pilato ai Giudei nella speranza che la flagellazione fosse punizione sufficiente per il Cristo.

Le emozioni suscitate da questa sentenza rappresentano uno dei momenti più alti della cristianità e sono state fonte di ispirazione per numerosi artisti che, nel corso dei secoli, si sono cimentati nel cogliere “l’umanità” di quell’episodio: Bosch, il Correggio, Tiziano, Van Dyck, Rembrandt e molti altri ancora.

"Ecce Homo" di Antonello da Messina.
“Ecce Homo” di Antonello da Messina.

 

Le due principali tele raffiguranti “L’Ecce Homo” però non si trovano né al Louvre di Parigi, né al British Museum di Londra o al Prado di Madrid e nemmeno all’Ermitage di San Pietroburgo o al Pergamo Museum di Berlino bensì custodite a Genova, in due dei suoi scrigni più preziosi: la prima, quella datata 1474 la più antica e celeberrima opera di Antonello da Messina, presso la Galleria Nazionale di palazzo Spinola, la seconda risalente al primo decennio del ‘600 addirittura di Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio, nel Museo di palazzo Bianco in Strada Nuova (odierna Via Garibaldi).

Forse è il caso di dire “Ecce Homines”.

Madonne di conchiglie…

Gli approdi della nostra regione sono costellati di spontanee edicole, sorte a ringraziamento per il ritorno dei naviganti.

Speranza, sussistenza, pescato, ignoto, viaggio,  tempesta, guerra, bottino, paura… di non farcela… per questo, i marinai liguri lo sanno bene, prima e dopo aver affrontato il mare è sempre bene affidarsi alla Madonna.

"Madonna dei pescatori di Quinto".
“Madonna dei pescatori di Quinto”.
"Edicola dei pescatori di Camogli".
“I palazzi di Camogli riflessi nell’edicola dei pescatori”.

Di tutte la più cara ai genovesi è “A Madonnin-a dei pescoei” di Sturla per la costruzione della quale hanno contribuito tutti i marinai del borgo: “O Maria i pescatori di Sturla ti hanno portato tutti una pietra ora ti diranno sempre un’Ave Maria”. Intorno, incastonate fra le conchiglie, altre lapidi riportano alcuni versi della Stella Maris, l’Ave Maria in genovese di Piero Bozzo.

“Ave Maria da questo altare guarda sempre chi è per mare” e ancora “Ave Maria, Campana che suoni in mezzo al verde con una voce secolare tanto cara; in questa pace l’anima si perde e i tuoi rintocchi invitano a pregare”.

Un’altra targa rammenta invece i versi della canzone di Costanzo Carbone intitolata appunto   ” la Madonnin-a dei pescoei patrimonio delle esecuzioni dialettali dei Trallalero.

Edicola di Sturla edicola 2 sturla

“Lazzu un lumin lontan, ne o mà de Sturla” (Laggiù un lumino lontano, nel mare di Sturla)

“O brilla, o scomparisce, o s’allontann-a”. (Brilla, poi si spegne, s’allontana)

I biglietti di calice…

Nel 1607 i Serenissimi Collegi al fine di disciplinare la discutibile condotta di molti nobili, rei di non comportarsi in maniera conforme al loro status, introducono la legge di “biglietti di calice”.

Il piccolo consiglio si riunisce così una volta al mese per giudicare ed eventualmente esiliare i patrizi ritenuti colpevoli. Si stabilisce di aprire delle buche nei muri perimetrali dei cortili di palazzo Ducale e di disporre, durante le riunioni del Collegi, dei calici in cui i cittadini avrebbero potuto consegnare in modo anonimo le proprie rimostranze.

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Biglietto di Calice. In lingua genovese “Biggetto de caxo”,

I biglietti di calice erano così chiamati per via della forma dei recipienti che venivano utilizzati per contenerli. Fra gli argomenti si trovava un po’ di tutto: consigli, suggerimenti, proposte, ma anche lamentele, delazioni e mugugni insomma una sorta di prototipo di cassetta delle idee.

Fatta la legge trovato l’inganno infatti, se da un lato questo tipo di denuncia anonima permise ai Supremi Sindacatori di intervenire con risolutezza nelle situazioni più scabrose, dall’altro, molto più spesso, le fitte relazioni e i legami di potere fra le famiglie ne attenuarono la funzione punitiva.

La Bomba inesplosa… nel segno della Regina…

Il 9 febbraio del 1941 Genova subisce il secondo  bombardamento navale inglese di una certa portata, un grande proiettile calibro 381 sfonda il tetto della cattedrale durante una funzione religiosa ma, miracolosamente, rimane inesploso.

“Questa Bomba/ lanciata dalla flotta inglese/ pur sfondando le pareti/ di questa insigne cattedrale/ qui cadeva inesplosa/ il IX febbraio MCMXLI./ A riconoscenza perenne/ Genova/ città di Maria/ volle incisa in pietra/ la memoria di tanta grazia.”

In realtà l’ordigno inesploso il 18 febbraio venne rimosso dai Vigili del Fuoco e artificeri, caricato su un autocarro, trasbordato su di una chiatta e rigettato in mare al largo del golfo. Un altro invece, caduto poco distante, non risparmiò il vicino edificio dell’Archivio di Stato.

Quindi la bomba che ammiriamo in chiesa, seppur corrispondente alle stesse caratteristiche, non può essere la stessa piovuta dal cielo in quella drammatica circostanza, più probabilmente si tratta di un’altra granata, trovata  nelle vicinanze, anch’essa non scoppiata e posta dai fedeli nella navata laterale a eterno ricordo dell’offesa subita.

Dopo Magone nel 218 a. C, il Sacco di Genova del 1522, il bombardamento di Re Sole  del 1684 e l’eccidio del La Marmora del 1849 Genova ancora “Superba” si oppone alle bombe nemiche!

Documenti gentilmente forniti dal Coordinamento ligure studi militari C.L.S.M. Batteria “G.Mameli”
Documenti gentilmente forniti dal Coordinamento ligure studi militari C.L.S.M. Batteria “G.Mameli”
Documenti gentilmente forniti dal Coordinamento ligure studi militari C.L.S.M. Batteria “G.Mameli”

Specchio, specchio delle mie brame…

qual è la torre più alta del reame?

all’inizio del 1100 Genova si presentava come una roccaforte turrita munita di sessantasei poderosi torrioni.

Sul finire del secolo nel 1196 però, a causa delle continue lotte intestine, il console Drudo Marcellino decretò che fossero tutte mozzate e avessero altezza massima di ottanta palmi (venti metri).

Quella dell’Embriaco, dominatore di Cesarea e conquistatore di Gerusalemme, alta ben centosessantacinque palmi (circa quarantuno metri) venne invece, probabilmente per rispetto al prestigio della famiglia, risparmiata.

Dal ‘500 risulta accorpata all’attiguo Palazzo Brignole Sale ma in realtà, secondo molti storici sarebbe solo una delle diverse torri, e nemmeno quella più antica, presenti nel nucleo originario di Sarzano, di proprietà non dell’Embriaco bensì dei De Castro, un’altra nobile schiatta di quel tempo.

La torre, di pietra bugnata proveniente da materiale di recupero della precedente cinta muraria anteriore al nono secolo d.C., alla sua sommità è costituita da tre fregi di archetti dentellati in laterizio con peducci in pietra. La posticcia merlatura di tipo guelfa è stata aggiunta successivamente dall’architetto Grosso nel 1927 in occasione dei lavori di ristrutturazione. Nel 1996, causa un fulmine, è rimasta mutilata da un lato conferendole l’attuale fisionomia.

Sul basamento della torre è stato affisso, per volere degli allora proprietari della costruzione, i Brignole Sale, il decreto del Podestà che recita:

“Opera degli Embriaci, Coetanea al Patrio Comune/ dalle Leggi dell’Eccedente Sua Altezza Rispettata/ Benché Trapassata in Cattaneo, in Sale, in Brignole Sale/ Recando ai Posteri/ in un Colla Piazza Palagio e Via il Nome dei Fondatori/ Sta/ di Pietoso Eroismo e di Civile Grandezza/ Monumento e Testimonio/ Ludovica Brignole Sale in Melzi d’Eril/ v’Appose Quest’Epigrafe. Nel MDCCCLXIX. (1869).

“Il retro del genovino d’oro del 1250 che raffigura il castello rappresentato come un doppio porticato con tre torri”.

“L’archivolto di Santa Maria in Passione”.

Qui si trovava il primitivo “Castrum” cittadino la cui relativa porta di accesso era localizzata sulla collina di Castello. Nelle antiche descrizioni degli Annali e sul “genovino”, la moneta ufficiale del Comune, tale zona era infatti raffigurata come un doppio porticato puntellato da tre torri, i resti delle quali, nonostante diversi ritrovamenti, non sono mai stati identificati con certezza.

A tal proposito nel dopoguerra, durante i lavori di recupero della zona bombardata, sono stati rinvenuti i ruderi di due torri utilizzate come basamenti per le costruzioni sovrastanti. La prima lungo il lato orientale delle mura, la seconda all’interno di quello che, un tempo, era il Palazzo del Vescovo, poi convento della chiesa di San Silvestro.

E allora dove e quale sarebbe la vera torre Embriaci?

Secondo un’ipotesi ormai condivisa dalla maggior parte degli studiosi, il vanto di “Testa di maglio” sarebbe invece riconducibile al basamento che funge oggi da varco nell’attigua Piazza Santa Maria in Passione. Tale teoria, suffragata da recenti  ritrovamenti e scoperte, ha sostituito e soppiantato la precedente vulgata tramandata per secoli.

Entrando infatti nella sala delle conferenze della vicina Casa Paganini (ex chiesa del convento di S. Maria delle Grazie la Nuova) attraverso una botola si può accedere allo scavo che ha portato alla luce la sottostante originaria  base della primitiva torre.

“Il basamento della torre originale dell’Embriaco”.

 

 

 

Storia di un misterioso testimone…

Sul lato del portale di San Gottardo angolo Via San Lorenzo, alzando lo sguardo si nota la familiare statua colonna, di fattura provenzale detta dell’ “arrotino”, in cui il protagonista regge in mano una curiosa pietra tonda.

La struttura poggia su un leone stiloforo del XIII sec. a sua volta sostenuto da una mensola recante l’effige di S. Matteo. Ai piedi della statua due teste attaccate di figure antropomorfe. Ai tre lati del basamento sono scolpite in sequenza una scena di lotta con un leone, un cane che bracca una preda e una scena di lotta con un altro cane. Altri animali magici alati sulla schiena del leone stiloforo si mordono il corpo vicino ad un animaletto rampante attaccato all’anello della colonna.

Dall’altro lato, verso Scurreria, in corrispondenza del portale di San Giovanni il Vecchio un altro leone stiloforo poggia su una mensola con sopra scolpita un’aquila, simbolo di San Giovanni Evangelista. Si presume perciò che l’arrotino, come la Lanterna, avesse una statua gemella andata perduta.

"Le spoglie di Jacopo da Varagine in S. Maria di Castello".
“La parte di spoglie di Jacopo da Varagine conservate in S. Maria di Castello a Genova”. L’altra parte è invece custodita nella chiesa di San Domenico nella natia Varazze.

Ma chi è il misterioso personaggio che sorveglia il nostro andirivieni quotidiano? dell’identificazione con San Giovanni Evangelista la più plausibile, abbiamo già detto. Tuttavia secondo altri invece rappresenterebbe Jacopo da Varagine, il celebre arcivescovo, incontrastato signore dell’influente curia genovese, autore della “Legenda Aurea” (una sorta di biografia di santi un vero best seller per tutto il Medioevo) e del “Chronicon Ianuense” (un importante resoconto storico sulla città dalle origini al 1297) oppure, più banalmente il ritratto di uno dei tanti scultori che lavorò al prospetto della cattedrale.

Per altri ancora sarebbe Janus, il principe troiano dal quale deriverebbe il mito del Giano fondatore della città.

Anche sul cerchio, parafrasando il poeta “avrei poi da ridire”; per taluni è una semplice meridiana circolare o, al limite, un piatto con una croce scalpellata che rappresenterebbe simbolicamente la pietra di fondazione del tempio.

Ma i genovesi, si sa, sono gente pragmatica e da sempre l’hanno interpretato come la mola di un arrotino, a campione dei tanti artigiani che collaborarono all’erezione del loro amato duomo cittadino.