Bomba su bomba…

Fin dai tempi remoti innumerevoli sono state le volte in cui Genova è stata distrutta, umiliata, offesa:

penso ai Cartaginesi guidati da Magone che nel 205 a.C. la rasero al suolo, ai Saraceni nel 935 d.C. che ne violarono il litorale, per non parlare di francesi, spagnoli, austriaci, inglesi e Savoia.

"Il bombardamento del 1684 illustrato da Jan Karel Donatus".
“Il bombardamento del 1684 illustrato da Jan Karel Donatus”.

Il terribile sacco di Genova ad opera degli spagnoli nel 1522 ma senza dubbio alcuno l’aggressione ordita nel 1684 da Luigi XIV re Sole entra di diritto fra le più terribili. Non da meno fu l’assedio austro inglese del 1800 ricordato per l’eroica e strenua resistenza portata avanti dalla città comandata dal generale nizzardo Massena.

Che dire poi del vergognoso eccidio del 1849 perpetrato dai bersaglieri del generale La Marmora per conto dei Savoia?

In tempi più recenti durante la seconda guerra mondiale i bombardamenti degli alleati provocarono circa 9000 vittime civili oltre a danni incalcolabili agli impianti industriali e al patrimonio artistico della città.

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“I resti del complesso conventuale di S. Silvestro in Sarzano dopo i raid del 1942. Genova colpita al cuore”.

Genova come recita l’antico motto “flangar non flectar” mi spezzerò ma non mi piegherò che si può anche leggere al contrario “Flectar non flangar” mi piegherò ma non mi spezzerò, si è sempre orgogliosamente rialzata.

Le prime avvisaglie si ebbero il 11 e 13  giugno 1940,  cioè nei giorni immediatamente successivi all’entrata in guerra dell’Italia quando Inghilterra e Francia iniziarono i primi attacchi aerei. Ma il 14 giugno di quell’anno fu la data che rimase impressa nella memoria dei genovesi poiché  i Francesi intentarono addirittura un’azione navale contro Savona e Genova. L’operazione ebbe esito di poco conto ma scalfì non poco l’umore della popolazione e il morale dell’esercito, proiettati subito nello scontro, senza neanche aver avuto il tempo di realizzare la gravità della situazione.

Nel periodo compreso fra il 1941 e il 1945 gli storici hanno calcolato che i bombardamenti distrussero o danneggiarono gravemente 16000 edifici in tutta l’area comunale.

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“La chiesa di S. Stefano dopo il bombardamento dell’8 agosto 1943”.

La Superba dovette subire ben 86 incursioni aeree volte non solo a colpire le industrie e il porto ma anche il centro abitato con l’intenzione di terrorizzare la popolazione.

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“La zona atterrata di S. Donato in cui si staglia eroico il suo campanile”.

Il 9 febbraio 1941 le navi inglesi provenienti da Gibilterra attuarono “l’operazione Grog” entrando, di sorpresa, senza incontrare alcuna resistenza nel golfo di Genova seminando morte e distruzione. Dalle 8:15, così raccontano le cronache del tempo, fino alle 9:45 i britannici scaricarono sulla Superba 273 proiettili di grosso e 782 di piccolo calibro. Circa 300 tonnellate di bombe provocarono 141 morti, 227 feriti e 2500 senzatetto, oltre 250 gli edifici distrutti, quattro navi ancorate in porto affondate e le acciaierie dell’Ansaldo danneggiate gravemente. In quest’occasione venne colpita anche la Cattedrale dove però l’ordigno non esplose. Via XX settembre, la civica biblioteca Berio, il centro storico e le colline, le zone maggiormente colpite.

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“La lapide che ricorda le vittime della tragedia della galleria delle Grazie”.

Legata sempre ai bombardamenti è la tragedia che si verificò nella galleria delle Grazie presso Porta Soprana dove, la notte fra il 23 e il 24 ottobre 1942, 354 genovesi morirono calpestati dalla ressa di persone che, terrorizzate, cercavano di entrare nel rifugio.

L’anno seguente l’8 agosto 1943 è il teatro Carlo Felice ad essere distrutto in compagnia delle chiese di S. Stefano, Consolazione e S. Siro. Ben 169 le tonnellate sganciate su Genova, 100 morti e circa 13000 senza dimora. In quel nefasto autunno la città subì altri 6 bombardamenti causa di 1250 case abbattute.

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“Recco in macerie”.

Fu in questo periodo che la riviera di Levante perse uno dei suoi borghi più affascinanti; per via della posizione strategica del suo ponte ferroviario Recco, in seguito a 27 incursioni aeree fra 10 novembre del ’43 e l’agosto del’44, venne rasa al suolo.

In quell’anno anche Genova venne oltraggiata da 51 devastanti blitz culminati con il crollo, il 10 ottobre del ’44, della galleria di S. Benigno, causato da un fulmine che fece brillare delle cariche esplosive le quali, a loro volta, innescarono lo scoppio di un treno carico di munizioni, ricoverato nella galleria. Sotto i detriti del promontorio perirono 2000 persone.

Nel 1945 a gennaio i bombardamenti furono undici, a febbraio quattro e in marzo tre. Se ne contarono ancora sette anche in aprile quando, finalmente, Genova suonò la diana dell’insurrezione restituendo la libertà ai suoi cittadini.

Sottoripa…

Con i suoi 900 metri di copertura è stato il più lungo centro commerciale del medioevo.

Il suo porticato venne costruito per volere dei Padri del Comune a partire dal 1125 fino al 1133, addirittura 30 anni prima dell’erezione delle Mura del Barbarossa e, per questo, costituisce la più antica opera pubblica di rilievo. Il suo percorso si snodava da Porta di S. Fede fino al molo vecchio senza però soluzione di continuità. Ne sono testimonianza il  breve tratto fra Vico San Marcellino e Vico del Campo, detto “Sottoripa La Scura” per via della sua sopraelevazione e per i porticati più bassi e arretrati rispetto alla ripa. Sarà questa la zona destinata nel ‘600 al ghetto ebraico.

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“Particolari dei decori sulle volte del porticato”.

Sotto ripa letteralmente significa “sotto la riva” perché il porticato infatti era a diretto contatto con i moli del porto antico e lì sotto vi si ricoveravano le imbarcazioni. Con l’allargamento e la sostituzione dei moli di legno con quelli in pietra il porticato andò progressivamente allontanandosi dal mare dal quale distava in origine circa 5 metri. Si impose poi ai commercianti di costruire a proprie spese una copertura che proteggesse le botteghe e le attività commerciali dalle intemperie. In cambio essi ottennero di potervi erigere sopra le proprie abitazioni e la concessione dei relativi spazi commerciali.

Ancora fino al secolo scorso Sottoripa era il luogo dove si concentravano scagni, uffici, taverne e trattorie, dove si ingaggiavano marinai e camalli, dove si contrattavano i prezzi delle merci, un colorato e variegato bazar degno delle casbah orientali. Da qui si diramavano dedali di caruggi diretti verso il cuore della città vecchia oggi, per via della risistemazione ottocentesca del fronte mare, scomparsi.

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“Le Terrazze di Marmo costruite fra il 1835 e il 1839 su progetto dell’architetto Ignazio Gardella senior”.

Nel 1836 in pieno regno sabaudo la zona venne rivoluzionata con sbancamenti e demolizioni resesi necessarie per l’apertura della “Carrettera Carlo Alberto”, oggi Via Gramsci, voluta dai piemontesi per snellire il congestionato traffico del porto.

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“Brani dell’antico acquedotto medievale”.

Per lo stesso motivo vennero edificate nel medesimo periodo anche le “Terrazze di marmo” abbandonate poi nel 1885 con l’avvento del trasporto ferroviario. Si concepì allora l’apertura di Via S. Lorenzo cosa che comportò la faraonica opera di arretramento degli attuali palazzi della strada e di Via Vittorio Emanuele II, oggi Via Turati verso levante. I portici da palazzo S. Giorgio a Piazza Cavour vennero abbattuti ed ampliata la piazza stessa. Era questa la parte identificata come “Ripa cultellinorum” dal nome dello stretto vicolo a fianco del porticato dove avevano bottega  coltellieri, fonditori, fabbri, lanternai, bilanciai e i laboratori di metallo utili per gli usi di bordo.

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“Dettaglio delle secolari colonne del porticato con il sovrastante acquedotto”. Foto di Leti Gagge

 

Si procedette, a partire dal 1893, a rivoluzionare tutto l’antico assetto del fronte mare con i riempimenti per la costruzione della Circonvallazione a mare (Corsi Quadrio e Saffi), sparirono all’altezza di Via Ponte Calvi fino a Vico Morchi, le costruzioni sopra il porticato e con esse le tracce dell’antico acquedotto medioevale lungo l’originario percorso romano. Nel tratto compreso tra Vico del Serriglio e Via al Ponte Reale se ne possono ancora oggi ammirare brani superstiti.

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“Il fronte mare di Piazza Caricamento com’era un tempo prima dello scempio”.

I bombardamenti della seconda guerra mondiale completarono lo stravolgimento, avendo provocato danni incalcolabili, causarono l’abbattimento di numerosi palazzi circostanti e la cancellazione di contrade intere come il caso dello scomparso Vico Lanterna.

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“L’orrida e blasfema palazzata di cemento con a fianco un’esterrefatta e imbarazzata Torre Morchi”.

Il colpo di grazia, ancora oggi un’offesa inaccettabile al nostro panorama, ce lo ha inflitto il Ministero della Pubblica Istruzione quando nel 1950 innalzò, incastonato fra le torri medioevali, quell’indescrivibile mostro architettonico di cemento che si affaccia molesto ed estraneo in Piazza Caricamento.

Nonostante ciò Sottoripa, con i suoi odori, colori, suoni e profumi mantiene tuttora inalterato il suo fascino “in saecula saeculorum”.

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“Sottoripa all’imbrunire”. Foto di Leti Gagge

Due Statue dimenticate…

All’inizio dell’attuale Via Gramsci lato Piazza Caricamento, annerite dalla fuliggine e asfissiate dallo smog, si trovano due statue dimenticate e poco note perché difficilmente visibili se non alzando lo sguardo.

Sono le immagini di due dei personaggi più illustri della storia di Genova realizzate, in due nicchie ricavate dalle facciate dei rispettivi palazzi, dal celebre scultore genovese  G.B. Cevasco, a quel tempo appena diciottenne, ma già apprezzato maestro dell’arte dello scalpello:

Al 99r l’ammiraglio Andrea Doria, il signore del mare, colui che nel 1528 liberò la Superba dalla dominazione francese rispondendo a chi gli offriva in signoria la città: “Genova è nata libera e libera deve restare” (discorso in favore dell’Unione delle varie fazioni politiche pronunziato di fronte alla cittadinanza). Raffigurato qui nella sua cotta di rappresentanza pronto ad impugnare la spada a difesa della città.

Il cartiglio sottostante recita:

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“La statua di Andrea Doria al 99r”

Io a libertà ti rendo

Da te, mia patria

Ad esser grande apprendo.

Al civico n. 9 ecco invece Cristoforo Colombo l’esploratore, colui che allargò i confini del mondo conosciuto e aprì nuovi sbocchi e frontiere commerciali e che, ovunque si trovasse, sempre un pensiero in cuor suo serbava per Genova: “Benché il corpo sia qui, il cuore è costantemente lì” (lettera ai concittadini indirizzata al Banco di S. Giorgio). Qui rappresentato in una veste elegante con, posato sopra ad una colonna, il globo a portata di mano.

La relativa epigrafe declama:

Dissi, volli, il creai

Ecco un secondo

Sorger nuovo dall’onde

Ignoto mondo.

Di fronte, parzialmente occultato dalla sopraelevata, l’orizzonte infinito del mare, il loro comune habitat naturale.

“La statua di Cristoforo Colombo al civ. 9”.

Infinito al quale sempre seppero andare oltre…

Chiostro di S. Andrea…

Dietro la casa di Colombo, sotto le torri di Porta Soprana, si trova uno degli angoli più apprezzati dai turisti in città: si tratta del Chiostro di S. Andrea, protagonista di romantici scatti fotografici, nell’immaginario collettivo silente testimone della presenza del futuro esploratore.

Pochi sanno però che in precedenza si trovava nella zona occupata dall’attuale Piazza De Ferrari e che se non fosse stato per l’opposizione dell’architetto D’Andrade, sarebbe anch’esso andato distrutto come, qualche decennio dopo, sarebbe accaduto alla casa natale di Niccolò Paganini.

Nel 1905 in occasione dei lavori di ampliamento dell’attuale Via XX Settembre, venne quindi smontato e, in attesa di trovargli nuova locazione, ricoverato in S. Agostino e lì dimenticato fino al 1923  quando, con perizia e passione venne rimontato dallo studioso Angelo De Marchi.

Dell’originario chiostro romanico facente parte del monastero benedettino di S. Andrea resta solo la parte interna, il resto è andato perso nei secoli.

Nel 1810 il Chiostro, venne sbarrato da pesanti grate di ferro per impedirne, visto che nel frattempo il complesso era stato convertito in carcere, l’accesso ai detenuti.

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“Dettaglio di un capitello con angeli e fregi floreali”.

 

La struttura è a colonne binate con 32 coppie di capitelli e sei colonne per angolo. I capitelli sui lati sud ed ovest sono originali dell’epoca romanica mentre quelli a nord e ad est risalgono al tardo ‘200.

Numerose e singolari sono le sculture che lo adornano, si notano in particolare; un cavaliere accompagnato da una dama con mantello; un pastore, un cane e tre caproni all’interno di una scena bucolica; un contadino che ara il campo con i buoi; un carro trainato da un cavallo e muli che trasportano pesi; un’adorazione dei Magi; Adamo ed Eva; Daniele nella fossa dei leoni; due centauri; diverse figure di angeli; una donna che tiene per le corna un ariete; un mostro che ingoia una colonna, due aquile ad ali spiegate ed un cervo.

Lo stile richiama molto da vicino quello dei maestri antelami che operarono sulle porte della città, di S. Fede in particolare, e in Cattedrale.

Molto significativi e suggestivi ad esempio, perché simili a quello scolpito all’ingresso del portale destro della cattedrale sono, entrando da destra, due cagnolini incisi sulla base delle colonnine ad angolo. Tre cagnolini dormienti concepiti, a guisa di sigla, dai maestri dello scalpello.

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“Uno dei due cagnolini dormienti”.

 

Storia di una Briglia e di un Cavallo…

Re Luigi XII, occupata Genova nell’aprile del 1507, decise di dotarla di una poderosa fortezza che, insieme a quella del Castelletto, gli avrebbe consentito di tenere in scacco la Superba. Osservando infatti il litorale dal Molo vecchio aveva intuito che, posizionandola ai piedi della Lanterna e fornendola di adeguate artiglierie, avrebbe controllato l’accesso al porto e dominato la città.

Il Sovrano oltre a sottomissione e fedeltà pretese dalla cittadinanza il favoloso esborso di 40000 scudi necessari per l’erezione del “chateau neuf” da posizionarsi sul promontorio di Capo di Faro.

Il progetto iniziale prevedeva una costruzione a pianta quadra di circa 60 passi per lato e l’abbattimento del vecchio Faro. Fortunatamente il Senato genovese, preoccupato per quanto stabilito, donò 200 scudi d’oro al progettista dei lavori, l’ingegner De Spin, affinché rinunciasse allo scellerato proposito di demolizione della Lanterna. 

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“Trionfale arrivo di re Luigi XII a Genova in una illustrazione di Jean Marot”.

Per iniziare i cantieri giunsero in città, ingaggiati dai francesi, oltre mille operai e numerose maestranze antelamiche provenienti dalla Lombardia.

I lavori furono completati nell’ottobre dell’anno successivo e gli invasori la battezzarono, con l’inquietante appellativo di “Mouvesine de Co’ de fa”. I genovesi invece da subito la identificarono come la Briglia” per simboleggiare l’oppressione nemica o, più semplicemente in ragione della sua collocazione, “Fortezza della Lanterna”.

Così la descrive lo storico Uberto Foglietta: “sporge lungamente nel mare dal quale è quasi tutto bagnato, e col quale si tiene con la terra è separato da lei con un’altra apertura a a terra, e in mezzo vi sino due dirupate grotte, si che per niuna maniera si può accostare ad esso contro la voglia di quelli che tengono lo scoglio”.

Le cortine e i bastioni della Briglia si alzavano a picco sul mare assecondando la morfologia della scogliera. Era ritenuta una delle più imponenti ed inespugnabili fortezze d’Europa, fornita di artiglierie di ultima generazione, sorvegliata agli ordini del comandante Houdetot, da un presidio di 100 arcieri, 150 soldati e 50 bombaroli.

I genovesi, con l’aiuto degli spagnoli, si ribellarono alla dominazione foresta e, sotto la guida del Doge Ottaviano Fregoso, ripresero la città. Iniziò così uno snervante assedio lungo 16 mesi volto a conquistare la rocca e ad espellere definitivamente il contingente nemico. Le artiglierie francesi  però risposero colpo su colpo alle batterie genovesi del Molo e di Sampierdarena, rendendo vana ogni speranza di cedimento.

Nonostante il blocco navale imposto dal Doge al fine di impedire i rifornimenti al fortilizio, i transalpini inviarono in soccorso una nave, partita da Marsiglia, carica di vettovaglie e munizioni per le truppe asserragliate.

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“Il Doge Ottaviano Fregoso,  rappresentato da Lazzaro Tavarone a poppa di una scialuppa insieme al nocchiero Emanuele Cavallo seduto ai suoi piedi e a tre vogatori, prende possesso della Briglia”.

Il comandante del legno francese nel marzo 1513 tentò di ingannare i genovesi issando il vessillo di S. Giorgio. Una volta giunto a tiro di cannone delle quattro galee poste a difesa dell’ingresso del porto, si aprì un varco a colpi di bombarda riuscendo ad attraccare alla Fortezza.

Se l’azione avesse avuto esito positivo l’assedio dei genovesi sarebbe stato vanificato; ma grazie al coraggio di due capitani Emanuele Cavallo e Andrea Doria che a bordo della loro nave, sfidarono il fuoco di sbarramento della Briglia e riuscirono ad agganciare l’imbarcazione francese, l’epilogo fu ben diverso.

Durante il duro scontro il capitano francese tuffatosi in mare cercando la fuga, venne catturato insieme ad altri 32 marinai e, con essi, imprigionato; sei furono gli impiccati. La nave sequestrata ai nemici fu ancorata nel porticciolo sotto Sarzano.

 Andrea Doria, rimasto ferito, per il coraggio dimostrato ebbe onori e rinnovati incarichi, Emanuele Cavallo la riconoscenza del Doge e l’esenzione perpetua dalle tasse per sé e per gli eredi.

La guarnigione francese, nonostante la carenza di provviste, continuò eroicamente la resistenza ad oltranza. In un primo momento si pensò di minare la “Mouvesine” dalle fondamenta, poi di incendiarla, ma entrambi i tentativi ebbero risultati deludenti.

Il 16 marzo 1514 il presidio francese provato dalla fame e abbandonato dalla madrepatria, finalmente si arrese. II Doge, ordinò nonostante le suppliche francesi di risparmiarla, l’atterramento della Briglia. All’ingente spesa preventivata per l’abbattimento della Fortezza  contribuì personalmente in maniera significativa Fregoso stesso.  Allo spettacolo della demolizione affidata agli artificieri e ai maestri antelami, assistettero nobili e principi  giunti da tutta Italia.

Oltre alla Briglia purtroppo anche la torre del Faro era rimasta gravemente danneggiata e solo nel 1543 i Padri del Comune deliberarono di ripristinarla.

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“La Briglia in primo piano quasi copre la Lanterna”.

La Lanterna venne restaurata utilizzando sia pietre provenienti dalla cava di Carignano, magistralmente lavorate dai “piccapietra” dell’omonimo quartiere, che i resti della Fortezza e, a lavori ultimati, elevata all’attuale altezza di 117 metri dal livello del mare. Venne decorata all’esterno sul prospetto orientale con il fregio del Comune (S. Giorgio e i Grifoni) dipinto dal maestro Evangelista da Milano.

Al suo interno a metà delle scale venne posta  la famosa lapide scritta, a celebrazione della definitiva libertà conquistata poi nel 1528 ad opera di Andrea Doria, dal letterato e annalista Jacopo Bonfadio:

“Anno della nascita di Cristo 1543, e quindicesimo della restituita libertà; Pietro Gio Battista Lercari e Luciano Spinola, Padri del Comune, riedificarono questa Torre  che i nostri padri avevano costruita e che rimase distrutta nel  1512  dai proiettili, nell’assedio della rocca della Lanterna”.

Nel 1626 la Lanterna divenne il fulcro e parte integrante del nuovo progetto delle Mura Nuove terminate nel 1639, l’ultima cinta muraria della città.

Ad ogni Cavallo la sua Briglia…

Benedetto l’eroe della Meloria… (quarta parte)…

Sul finire del ‘200 i rapporti fra le due monarchie si erano inaspriti per via delle rivalità sorte fra i Normanni, nuovi sudditi francesi e i marinai spagnoli di Baiona, al servizio del Regno d’oltre Manica. I Francesi, imparentatisi con i regni del nord (Danimarca e Norvegia), confidavano nell’aiuto di quest’ultimi per sconfiggere i nemici ma, a causa dello scoppio di una guerra, costoro furono costretti a rivolgersi ai genovesi, signori del Mediterraneo, per fronteggiare gli inglesi nell’Atlantico. Come in passato già aveva fatto Luigi il Santo al tempo delle sue crociate, conferendo per la prima volta il titolo di ammiraglio di Francia ad Ugo Lercari e Guglielmo da Levanto e a Guglielmo Boccanegra la costruzione del porto di Aigües Mortes, a Filippo il Bello parve scontato ingaggiare Benedetto Zaccaria.

Fu così che sul finire del 1294, per volere del sovrano francese, Benedetto prese il comando della flotta con il titolo di “amiraus géneraus”. Ispezionò  i porti e stabilì che questi dovessero essere organizzati come quello di Siviglia.

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“Il porto di Aigües Mortes in Camargue fondato a metà ‘200 dal genovese Guglielmo Boccanegra”.

Stilò un preventivo di spesa molto preciso e documentato per allestire la flotta, ingaggiare i marinai risistemare i porti e formare il personale.

Aumentò la paga mensile degli equipaggi da 35 a 40 soldi perché, parole sue “il soldo dei buoni marinai è guadagnato, quello dei cattivi è perduto”. Impose, per avere più opzioni nell’arruolamento, il divieto di navigazione. In questo modo avrebbe avuto maggiori richieste d’imbarco e più possibilità di scelta. .

Presentò al re un piano d’azione articolato in quattro punti:

1) ordinaria guerra sul mare.

2) saccheggio costante dei porti nemici e rogo di ogni galea conquistata.

3) ovunque possibile, effettuare sbarchi e causare devastazione.

4) rifiuto dello scontro a terra con i nemici finalizzato a risalire rapidamente a bordo per ripetere la stessa aggressione in altro luogo.

Così facendo il nemico, non sapendo quando e dove sarebbe stato attaccato sarebbe stato costretto, a causa della paura, ad aumentare il presidio delle coste con conseguente incremento delle spese per la difesa del litorale. I sudditi, insoddisfatti per l’eccessivo esborso delle tasse necessario per mantenere le armate, si sarebbero ribellati mentre gallesi e scozzesi avrebbero trovato terreno fertile per rinfocolare le loro mire secessioniste. Le richieste del genovese furono esaudite, anzi di gran lunga superate, visto che il monarca armò 57 galee e 223 navi in grado di ospitare a bordo circa 7000 uomini.

"Filippo IV il Bello".
“Filippo IV il Bello”.

Forte dell’alleanza con l’Olanda e con le città basche, 500 anni prima di Napoleone, Benedetto replicò in grande quanto realizato contro Pisa , mise in atto il blocco continentale alla perfida Albione, ma l’isola riuscì a sopravvivere grazie al consolidamento dei canali commerciali con le Fiandre. Benedetto allora si concentrò sugli scali del mare del nord indebolendo la flotta mercantile fiamminga.

Nel frattempo i due stati, stanchi di combattersi, nel 1298 avevano stabilito una tregua e in quel periodo suggellarono matrimoni di stirpe: Edoardo d’Inghilterra impalmò Margherita di Francia e il di lei figlio Edoardo II la sorella di Filippo il Bello.

Costei, Isabella di Francia, fece deporre e assassinare il marito. Edoardo loro erede concorse alla successione del trono di Francia contro Filippo di Valois dando origine alla guerra dei cent’anni.

In questo mutato e complesso contesto il compito di Benedetto non aveva più ragion d’essere quindi, rispettati gli impegni presi con la corona e imposto ai nordici la forza dei genovesi anche sull’Atlantico, nel 1300 si dimise dal ruolo di ammiraglio supremo.

Sarà comunque un suo concittadino Ranieri Grimaldi nel 1304 a portare a termine l’interrotto progetto di ridimensionamento della flotta mercantile fiamminga.

Era giunto il tempo per Benedetto di tornare, ancora una volta, ad occuparsi delle proprie faccende in Oriente.

In quegli anni infatti le orde mongoliche avevano tolto ai musulmani i territori della Siria e l’ammiraglio partì entusiasta per aggregarsi, lieto di riprendere il discorso interrotto in precedenza con l’Egitto. Quando ormai le armate del sultano sembravano sul punto di cadere sconfitte sotto i colpi del Khan Ghazan, questi fu richiamato in patria per soffocare una rivolta intestina e la spedizione fallì miseramente.

I successivi tentativi di organizzare altri interventi furono soffocati sul nascere da papa Bonifacio VIII che temeva che dietro a questi propositi di riconquista si celassero solo gli interessi di singoli individui e non dell’Occidente intero.

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“Porto di Siviglia nel ‘500 ma già da secoli genovesi avevano qui basi privilegiate”.

Ad aggravare la situazione i veneziani sconfitti da Lamba Doria a Curzola nel 1298, per rivalsa, avevano preso a devastare i domini della Repubblica in oriente, possesso di Focea incluso. Da troppi anni infatti Zaccaria mancava dai suoi feudi e il mare di Bisanzio era tornato ad essere infestato da pirati, turchi e catalani, resisi baldanzosi a causa di un’imbelle marineria greca. Anche i traffici di allume che tanto avevano arricchito Benedetto cominciarono ad essere in pericolo. Il genovese, stanco di aspettare il supporto del re di Costantinopoli, più volte chiamato in causa, decise di farsi giustizia da sé e, con abile colpo di mano, da fine e coraggioso stratega quale era, rinforzò le difese di Focea ed occupò l’isola di Scio.

Riuscì così ad annoverare fra le sue proprietà due dei principali prodotti del levante, oltre all’allume di Focea, ora anche il mastice di cui l’isola era l’unica produttrice. Il mastice era molto apprezzato in oriente per gli elaborati aromatici, per la realizzazione di un liquore e per profumare e candeggiare i denti. In Europa veniva utilizzato invece per rendere le vernici trasparenti e per scopi farmaceutici.

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“Il mare e il suo infinito orizzonte”.

Benedetto aveva conseguito il monopolio dei commerci di allume e mastice, con le sue navi ancorate dal Mediterraneo all’Atlantico aveva mercanteggiato pellami, armi, grano e spezie in tutto il mondo. Aveva trattato alla pari con i re, ricoperto le massime cariche militari per conto di Spagna e Francia, ridotto all’impasse gli inglesi, combattuto, sfidato e vinto quasi tutti i popoli del mare, imponendo la legge dei genovesi. A chi gli ricordava le difficoltà che avrebbe incontrato durante le sue battaglie, spesso molto ardite, probabilmente avrà risposto: ”io sono genovese, in mare, sono gli altri a doversi preoccupare di me”.

Ma sicuramente l’impresa di cui, in cuor suo, andava più fiero era la leggendaria vittoria della Meloria sui pisani, occasione in cui aveva reso eterno onore e prestigio alla sua città natale.

Nel 1307, ormai vecchio, stava ancora progettando l’ennesimo viaggio in oriente quando si ammalò gravemente.

Morì nei primi mesi dell’anno successivo a casa sua, a Genova proprio di fronte al porto, con lo sguardo rivolto lontano verso il mare, il suo mare.

In copertina: Il porto di Focea.

Benedetto l’eroe della Meloria… (terza parte)…

Benedetto salpò da Genova il 10 giugno 1288 con le due sole navi avute in dote dalla Repubblica e, sapendo che si sarebbe dovuto confrontare con forze ben maggiori, si diresse subito alla volta di Focea dove ingaggiò altre due navi e in otto giorni allestì la sua nave preferita, la “Divizia”.

Davanti al porto di Tripoli, oltre alla flotta della principessa Lucia che rivendicava per ragioni ereditarie il possesso della città, si schierarono la galea del gran maestro dei Templari, una di quello degli Ospitalieri, una del  siniscalco del Regno gerosolimitano e un’armata comune allestita da pisani e veneziani.

Il genovese non si scompose, entrò nel porto a gonfie vele pronto a sfidare chiunque e il giorno dopo intimò la resa al contingente nemico che, seppur superiore di numero, non osò opporre resistenza ben conoscendo la forza dello Zaccaria.

“Il glorioso gonfalone di S. Giorgio”

Nel nome di S. Giorgio stipulò trattati commerciali privilegiati e accordi vantaggiosi con i rappresentanti della città e ne sottopose la giurisdizione alla Repubblica.

Genova però, non accolse il dono con piacere perché sapeva, come temuto, che ciò gli avrebbe cagionato danni nei rapporti con l’Egitto; quindi non solo non nominò il podestà ma nemmeno inviò soccorso al suo ammiraglio, intendendo così  dimostrare la propria estraneità ai fatti. 

Zaccaria coinvolse il re del vicino stato confinante di Cipro (interessato a mantenere la zona nell’area d’influenza cristiana) sancendo un accordo sia economico che militare in base al quale la Repubblica si impegnava a fornire una flotta di presidio. Analogo patto mercantile stipulò anche con il monarca d’Armenia.

Il Senato genovese si rifiutò di ratificare tale accordo preferendo scontentare il sovrano di Cipro che non il sultano del Cairo.

Nel frattempo l’Egitto aveva mosso le sue soverchianti forze contro la città ed una coalizione di ciprioti, veneziani e cristiani in genere aveva provato a resistere. Preso atto della disperata situazione i veneti abbandonarono la lotta e Benedetto, temendo che costoro gli portassero via le galee, li seguì a ruota non prima di aver imbarcato più uomini, donne e bambini possibile.

"Mappa di Tripoli".
“Mappa di Tripoli”.

I musulmani presero la città, la razziarono, la rasero al suolo e uccisero tutta la popolazione maschile. Donne e bambini furono ridotti in schiavitù. Benedetto sbarcò a Cipro i superstiti di Tripoli e ribussò vanamente alle porte dei regni cristiani d’Oriente per riprendersi il maltolto. Un aiuto insperato gli giunse solo dalla colonia genovese di Caffa che inviò tre galee. Ben poca cosa per affrontare la potenza egiziana ma, forte del rinforzo ottenuto, per pura rivalsa, attaccò un legno recante le insegne del sultano.

Merci e prigionieri furono condotti a Genova e consegnati come trofeo di guerra. Genova sprofondò nel terrore, come giustificare al principe orientale tale oltraggio? Un’ambasceria guidata da Alberto Spinola fu inviata ad Alessandria per restituire merci e uomini con tanto di umilianti scuse. Fu giurato che nulla mancava al carico e che il danno sarebbe stato risarcito. Il sultano, soddisfatto, rinnovò le convenzioni commerciali e diplomatiche con la Superba.

A partire da quest’episodio in poi  Benedetto non godette più della stima di prima da parte dei suoi concittadini ma, per riconoscenza e rispetto dell’impresa della Meloria, nessuno osò proporre l’onta dell’esilio.

Ripulito il Mediterraneo dai pirati, il Bosforo dai corsari, sconfitta Pisa e preso atto che la sua città non poteva o non voleva veramente opporsi all’avanzata saracena dell’Egitto (suo antagonista nel commercio dell’allume) rivolse la sua attenzione alla Spagna dove era stato chiamato per combattere altri saraceni, i temibili marocchini. Costoro infestavano lo stretto di Gibilterra danneggiando i traffici della Castiglia e foraggiando le truppe  moresche per la conquista dell’Europa.

"Lo Stretto di Gibilterra".
“Lo Stretto di Gibilterra”.

Entrò in carica nel 1291 con una formazione di dodici galee con l’obiettivo di contrastare la pericolosa flotta africana. Compito non facile visto che nel 1285 cento navi spagnole si erano ritirate di fronte alle trentasei dell’emiro.

Accortosi che il naviglio nemico era molto più agile e maneggevole del suo e che per questo riusciva a sfuggirgli, apportò una storica modifica, l’introduzione del “terzarolo” cioè del terzo rematore (da qui anche il verbo “interzare dei veneziani”). Questo accorgimento  avrebbe compensato la carenza di agilità con una maggiore potenza dinamica.

"La galea con il terzarolo".
“La galea con il terzarolo”.

Benedetto, forte di questa innovazione tattica, fece quello che nessun ammiraglio castigliano fino ad allora aveva anche solo provato ad immaginare: il giorno di S. Sisto, il 6 agosto 1291, sette anni esatti dopo la Meloria, con le sue 12 galee si parò davanti alle 28 saracene remando con la solita andatura in modo da non insospettire i nemici.

"Balestriere genovese con la sua manesca".
“Balestriere genovese con la sua manesca”.

Quando le vele marocchine furono a tiro di balestra Benedetto diede ordine di attaccarsi ai remi e, prima che potessero raggiungere la riva africana e sfuggirgli, le raggiunse e ne catturò 12 davanti ad un incredulo e impotente emiro che, da terra, assistette alla disfatta. Gli equipaggi delle rimanenti 16, una volta sbarcati, furono massacrati dai loro stessi compagni in quanto colpevoli dell’umiliazione patita. Le 12 imbarcazioni catturate invece, attraverso il Guadalquivir, furono portate fino a Siviglia come bottino e donate al re Sancio IV di Castiglia. Fu la leggendaria battaglia di Marzamosa che fruttò al genovese la massima delle onorificenze, il titolo di “almirante mayor de la Mar”, alloro conquistato ai danni dei catalani che si tramandavano il titolo da generazioni.

Il sovrano comprese che la sua scelta era contraria al tentativo di forgiare e premiare una stirpe ispanica comune quindi diede l’appalto ai catalani per costruire nuove navi e acquistò quattro delle sette galee del genovese. Inoltre nominò “adelantado mayor de la frontera” un suo fedele connazionale, il comandante Mahte de Luna. Questi prese gradualmente il comando sia delle operazioni terrestri che di quelle marittime di fatto sminuendo il ruolo del genovese. Benedetto non poté, lui figlio di una città in cui la carica di ammiraglio era di gran lunga superiore a quella di qualsiasi comandante terrestre, fare altro che rinunciare all’incarico. Il comandante Mahte de Luna non riuscendo a convincere Benedetto a sottostare alle sue dipendenze lo denunciò come traditore e si impossessò delle quattro navi con i relativi equipaggi.

"Stemma della Castiglia e Leon".
“Stemma della Castiglia e Leon”.

Le imbarcazioni furono sequestrate ma i marinai si rifiutarono di obbedire, pronti alla morte, agli ordini degli spagnoli. “Prendiamo ordini solo da Benedetto Zaccaria, il vero e unico almirante mayor” dissero i capitani. Per intervento reale Benedetto e i suoi equipaggi furono rilasciati.

Gli spagnoli continueranno la loro guerra contro i Mori senza particolari successi fino a quando un altro genovese Egidio Boccanegra nel 1334 si impossesserà della roccaforte di Algesiras.

Benedetto Zaccaria intanto proseguirà la sua avventura in Francia al servizio di Filippo il Bello per conto del quale sfiderà, prima di far vela nell’olimpo dei signori del mare, i popoli del Nord….

In copertina: galea medievale.

Continua…

Benedetto l’eroe della Meloria… (seconda parte)…

Nel 1282 era scoppiata la guerra che si trascinò per due anni con esito incerto; la vittoria arrideva ora ai genovesi, ora ai pisani. Questi ultimi sembravano in vantaggio, ormai padroni della Sardegna e, a differenza dei liguri lacerati da lotte intestine, uniti e per questo vicini al successo.

Il 5 aprile del 1284 Benedetto Zaccaria issa lo stendardo di S. Giorgio e salpa al comando di 30 galee in assetto da guerra. Il 9 aprile si presenta davanti a Porto pisano provocando i nemici. Inizia a presidiare tutti i collegamenti con Corsica e Sardegna; nel giro di due mesi i convogli mercantili genovesi riprendono a navigare sicuri, mentre quelli pisani non osano uscire dal porto. Il genovese impone ai toscani il blocco commerciale con le isole e con le colonie del Levante e taglia loro i rifornimenti marittimi. I pisani allora tentano di far circolare le proprie merci su imbarcazioni appartenenti a nazioni neutrali come Amalfi, Barcellona e Venezia. Benedetto non chiede di meglio, esperto com’è nella guerra di corsa, in due mesi cattura numerosi vascelli, si impossessa di merci ed equipaggi, rendendo vano anche questo tentativo dei rivali.

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“Alcuni pezzi delle catene di Porto Pisano, restituite dai genovesi nel 1860, oggi custodite nel cimitero monumentale di Pisa”.

Costoro, esasperati, proclamano podestà il veneziano Morosini, nella speranza che ciò serva a guadagnarsi il supporto dei veneti. Venezia invece, fedele ai patti, rimane neutrale e le due repubbliche tirreniche devono sbrigarsela da sole. I toscani giocano il tutto per tutto allestendo una poderosa armata di 65 galee e 11 galeoni, stabiliscono di uscire dal porto di sorpresa e di sterminare la flotta di Benedetto che, nel frattempo, dalla Corsica si preparava ad assediare Sassari in Sardegna. Avvertito del pericolo fa vela verso Genova mentre il Morosini contando di tagliargli la via per il ponente, lo attende vanamente al largo di Albenga. Zaccaria rientra invece per la riviera di levante.

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“La battaglia della Meloria”.

Il 31 luglio i pisani si schierano davanti alla Superba dove ad aspettarli, pronte allo scontro, ci sono 58 galee al comando del capitano del popolo Oberto D’Oria. La sera stessa da Portofino giungono anche le navi dello Zaccaria, sfuggite all’imboscata dei nemici.

Ai pisani,  presi in mezzo dalle due flotte, non resta altra scelta che la ritirata verso i propri lidi. La sera del 5 agosto le due flotte genovesi raggiungono i pisani nella loro baia ma Benedetto ha una geniale intuizione, ammaina le vele, nasconde  gli stendardi e si mantiene a debita distanza, sparpagliando la flotta qua e là confondendola fra le imbarcazioni di supporto.

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“La consegna del pallio d’oro alla chiesa di S. Sisto”.

La mattina del 6 agosto, giorno di S. Sisto, i pisani credendosi più numerosi e incoraggiati della stanchezza dei rivali provati per l’inseguimento, attaccano battaglia. Quando lo scontro sembrava volgere a favore dei pisani, Benedetto entra in scena puntando direttamente la capitana del Morosini, strappandole lo stendardo. Catturata la nave ammiraglia dei pisani, accerchia i nemici facendone scempio: 7 galee affondate, 33 catturate, alcune migliaia i prigionieri (fra cui Rustichello autore sotto dettatura di Marco Polo del “Milione”), lo stendardo, il sigillo del podestà, il gonfalone del comune, lo strepitoso bottino.

Il 6 agosto 1284 Genova pone fine alle ambizioni marittime dei rivali. Benedetto a ringraziamento per l’epica vittoria dona, acclamato dalla folla festante, un prezioso pallio d’oro alla chiesa di S. Sisto di Via Prè.

L’anno seguente i Padri del Comune progettano di dare il colpo di grazia definitivo ai rivali inviando Oberto Spinola dal mare e sollevando loro contro fiorentini e lucchesi, secolari nemici, da terra. Il tentativo, per ragioni politiche, fallisce miseramente.

I pisani cercano di risollevare la testa imbastendo una guerra di corsa e piccola pirateria obbligando i genovesi a mantenere un manipolo di navi a presidio delle proprie rotte. Benedetto è ancora una volta il prescelto per il comando.

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“Antica cartina del Porto Pisano, raffigurante le quattro celebri torri”.

L’ammiraglio avrebbe voluto mettere in piedi però una risoluzione definitiva “Pisa delenda est” ma la Repubblica, comunque provata dalla lunga guerra, si accontenta della semplice supremazia.

Zaccaria è insoddisfatto, inoltre dai suoi feudi in oriente giungono notizie poco rassicuranti. E’ tempo di tornare a Bisanzio e riprendere in mano gli affari di famiglia, i commerci e le sue molteplici attività.

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“Il Faro e la Torre della Meloria”.

Prima però di congedarsi nel 1287 compie con 6 navi quello che tre anni prima non riuscirono a fare in 65: a bordo della sola “Divizia” viola il porto militare facendosi largo fra le torri di difesa, mentre un suo sottoposto (capitano Nicolino da Petraccio), al timone delle altre 5, entra nel bacino mercantile spezzandone le catene. Catene che furono, fino al 1860, appese alla chiesa di San Lorenzo. Benedetto rimase gravemente ferito durante l’eroico assalto ma in seguito alla sua coraggiosa impresa, impauriti, i pisani siglarono la pace. I patti furono talmente duri per i toscani che questi, non rispettandoli, videro nel 1290  il loro approdo definitivamente distrutto ed interrato ad opera di Corrado D’Oria. Alla stessa maniera le catene conquistate nel 1290 furono esposte sulle principali porte e chiese della Superba

Come a suo tempo auspicato da Benedetto “Pisa delenda est”.

Zaccaria, ristabilitosi dalle ferite e rientrato dall’oriente dove in pochi mesi aveva sistemato le sue faccende private, viene richiamato a Genova.

I successi dello Zaccaria gli procurarono molti onori ma anche parecchie invidie. Le gesta dell’ammiraglio rimbalzavano dal Tirreno a Costantinopoli, così i padri del comune, colsero l’occasione della richiesta di aiuto proveniente da Tripoli, per allontanarlo dal Tirreno dove la sua fama ormai precedeva le sue galee. La colonia del regno latino versava in grave difficoltà oggetto delle mire di varie nazioni; la Repubblica lo nominò Vicario del Comune in Oltremare, affidandogli però due sole galee. La missione era ambigua e rischiosa perché avrebbe potuto risultare invisa agli interessi “in loco” sia dei veneziani che degli egiziani.

in questo modo sia che il suo mandato fosse fallito o riuscito, sarebbe stato facile dimostrare, a seconda dell’occorrenza, l’estraneità della Repubblica e riversare tutta la responsabilità sull’ammiraglio, come se avesse agito per interessi personali e privati, senza compromettere quindi le relazioni diplomatiche del Comune.

Ma Benedetto troppo avvezzo agli intrighi di corte era uomo dalle mille risorse…

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“Alcuni anelli delle catene di Porto Pisano esposti sotto le arcate del palazzo del mare, meglio noto come S. Giorgio”.

In copertina: La Battaglia della Meloria. Illustrazione tratta dalle trecentesche Croniche del lucchese Giovanni Sercambi.

Continua…

Benedetto l’eroe della Meloria…

Il mondo intero onora Cristoforo Colombo l’esploratore delle Americhe, molti conoscono Andrea Doria il difensore della cristianità, alcuni ricordano Guglielmo Embriaco il conquistatore di Gerusalemme.

Quasi nessuno, sa di Benedetto Zaccaria, l’eroe della Meloria, eppure questo straordinario personaggio poliedrico merita di essere posto sullo stesso piano dei suoi illustri concittadini; politico, diplomatico, mercante, ammiraglio. Il suo campo d’azione è sbalorditivo da Genova, all’Impero Bizantino, dalla Francia al nord Europa, dalla Castiglia a Tripoli dove, deluso per non essere riuscito a ripristinare l’antica roccaforte genovese, per rappresaglia, sfida e umilia le navi saracene. Al comando della flotta castigliana sconfigge l’invitto stuolo del Marocco, di quella francese devasta la terra di Albione, sotto l’insegna di S. Giorgio distrugge i legni pisani alla Meloria e, sprezzante del pericolo, entra da solo in Portopisano violando lo scalo nemico. Al servizio dei re francesi, 500 anni prima di Napoleone, organizza il blocco continentale ai danni degli inglesi.

Eppure l’esordio non fu dei più promettenti infatti, il giovane Zaccaria, rampollo di una nobile famiglia possidente nella zona De Castro (S. Maria di Castello) nel 1259 ricevette il suo primo incarico dalla Repubblica: la difesa del porto di Tiro in Libano dalle mire nemiche. Fu così che i veneziani si presentarono forti di 24 galee mentre i genovesi ne contavano solo 20, di cui 10 al comando di Benedetto e 10 di un altro ammiraglio: Zaccaria uscì dal porto e affrontò i veneti, mentre il collega, inspiegabilmente rinunciò allo scontro. Catturato dai nemici, impressionati per il coraggio dimostrato, venne incarcerato per mesi e rilasciato solo in cambio della promessa che mai più avrebbe osato affrontare le insegne di S. Marco. Sarà questa l’unica sconfitta della sua gloriosa carriera. Il genovese rimarrà a cercar fortuna in oriente dove, al servizio dell’imperatore di Bisanzio, avrà modo di perfezionare e dimostrare la sua arte marinara.

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“Il porto di Focea”.

Le coste vengono ripulite da pirati, corsari, saraceni e da chiunque osi ostacolare i commerci. Con i proventi dei suoi traffici allestisce una flotta in grado sia di trasportare merci che di dar battaglia. La sua galea, la “Divizia” armata come una corazzata, rinforzata nei fianchi, potenziata nelle vele, diviene il terrore del Bosforo. L’imperatore, riconoscente, gli concede in feudo il porto di Focea. Divenuto consigliere e ambasciatore per conto di Bisanzio amplia la produzione e il commercio dell’allume di rocca, prezioso minerale presente sul suo territorio. Questo prodotto serviva ai conciatori di cuoio, a pittori e mosaicisti, ai farmacisti che lo usavano come emostatico ma, soprattutto ai tintori che, come prescritto in appositi statuti lo utilizzavano per fissare e rendere più brillanti i colori sui tessuti (possedeva egli stesso una rinomata tintoria lungo il Bisagno). Il pregiato composto proveniva anche dall’Italia, dal nord Africa, dall’Egitto e dall’Asia Minore ma Benedetto acquistò gran parte delle miniere concorrenti, esercitando un vero e proprio monopolio che ne fece uno degli uomini più ricchi del suo tempo. Ma non era questo il solo commercio in cui il genovese primeggiava: le sue navi caricavano grano e cereali in Ucraina e Bulgaria, sete e pellami in Oriente, vendeva armi, in particolare spade e coltelli, in Corsica acquistava il sale per rivenderlo nel Levante ed essendo questo monopolio di Genova, seppe lucrarvi sopra con delle vere e proprie speculazioni finanziarie. L’unica mercanzia, in quel tempo molto in voga, della quale non v’è invece traccia, è la tratta degli schiavi.

"Allume di rocca".
“Allume di rocca”.

Acquistò un fondaco privato a Caffa, stipulò accordi privilegiati con l’Armenia, Cipro, la Siria, instaurò contatti e avamposti sul Mare di Azov, operò ad Alessandria d’Egitto. Le sue imbarcazioni frequentavano Maiorca, Almeria, Siviglia, Cadice e Ceuta in Spagna, Marsiglia ed Aigues Mortes in Francia, Bruges nelle Fiandre, ovunque ci fosse un lembo di mare c’era una galea del genovese.

Passano gli anni, ormai la fama di Benedetto Zaccaria, non ha più confini. Dopo 25 anni è tempo di ritornare, Genova, nel momento del bisogno, per la resa dei conti con Pisa, l’eterna rivale, si affida al suo più illustre ammiraglio…

continua….

Genova la conosci…

“Genova la conosci: è imponente, solida, quasi altera, pulita, benestante; notevolissima è la diffusione della lingua tedesca negli alberghi e nei negozi… vi sono più insegne tedesche a Genova che a Trieste o Praga…

Alla fine della settimana ritornerò, avendo consumato buona parte dei miei onorari editoriali, presto vedrò l’ultimo olivo, l’ultima magnolia e così via…”.

In questa lettera ad un amico, datata 17 settembre 1905, il padre della psicanalisi Sigmund Freud esternava il desiderio di rientrare nella sua dimora di Rapallo.