Nel maggio 1938 Benito Mussolini, in veste di Capo del Governo, visitò Genova che per l’occasione inaugurò la statua detta del “Navigatore“, opera dello scultore Antonio Maria Morera. In realtà quello che venne mostrato al Duce era un calco in gesso poiché l’originale sarà terminato ed esposto solo l’anno successivo.
Il monumento al marinaio, Piazza della Vittoria , l’attigua Viale Brigate Partigiane e Piazza Rossetti si collocarono nell’ambito del progetto di edilizia fascistacoordinato dall’architetto Piacentini che ridisegnò completamente la zona della Foce.
L’artista scolpì la sua idea di un marinaio forte e possente attorno alla cui figura, nel semicerchio, incise il motto “Vivere non necesse, navigare necesse est”. La massima deriva dallo storico Plutarco il quale, a sua volta, la attribuì a Pompeo che doveva convincere il suo equipaggio, restio ad affrontare la tempesta. I marinai infatti, timorosi per la propria sopravvivenza, non volevano salpare mentre era necessario che lo facessero poiché a Roma, di quel carico di grano proveniente dall’Africa, aveva urgenza. Di fronte al bene comune, in questo caso di Roma, la paura di non farcela ed il rischio di naufragare o morire, doveva passare in secondo piano. Questo significava l’eroico messaggio del condottiero romano. L’autore eseguì il bozzetto, per sottolinearne la mascolina potenza, completamente nudo ma, causa il puritanesimo dell’epoca, il pube venne ricoperto da una succinta ed imbarazzante cintura. Fu scelto come modello l’atleta genovese Nicolò Tronci, campione italiano di ginnastica, che aveva partecipato alle Olimpiadi di Berlino del 1936.
Ai lati erano posti dei fasci littori e sul basamento originale inciso il monito “Giovinezza del Littorio fa di tutti i mari il mare nostro” in seguito, per ovvi motivi politici, vennero rimossi i primi, sostituito il secondo.
Il poeta Gabriele D’Annunzio prese il monumento come fulgido esempio dell’arditismo nazionalistico: “La statua del Navigatore è una forte e serena raffigurazione dell’uomo ligure di mare, rude, tenace e semplice che, armato di un pesante remo, scruta l’orizzonte lontano, a guardia ideale del suo porto e della sua città. La prepotente anatomia muscolare del torace e dei bicipiti, delineate e modellate con forza, ma senza esagerazioni, è chiaramente allusiva alla potente capacità operativa e manovriera dei pesanti antichi remi lignei, armati di pesante cuoio”.
Anche se per fini propagandistici, il Vate colse argutamente l’essenza del navigatore ligure in generale e genovese in particolare; ammiragli, esploratori e marinai, naviganti coraggiosi ed intraprendenti, “Umbre de muri muri de mainé” con il cuore sulla terraferma ma lo sguardo sempre rivolto all’orizzonte, a quell’infinito leopardesco del “e il naufragar m’è dolce in questo mar”.
L’anonimo poeta genovese, d’altra parte, già nel ‘200 aveva colto nel segno: “Noi che sempre navegemo e ‘n gran perigor semo en questo perigoloso mar, ni mai possamo repossar…”.
Il Forte dello Sperone, si eleva sul monte Peralto a 512 metri s.l.m. in un sito estremamente scenografico perché punto d’incontro del baluardo con il ramo settentrionale delle secentesche Mura Nuove.
La congiunzione dei due tratti di mura, quello sul versante della Val Polcevera e quello sul Bisagno forma una prua di una nave, a guisa di sperone che da, appunto, il nome al complesso. La Fortezza si sviluppasu tre bastioni: Bastione Puin affacciato sul lato della Val Bisagno, Punta dello Sperone rivolto anord e del Torbella o Poterna sul Polcevera.
Venne costruita nel 1747, dopo l’insurrezione contro austriaci e piemontesi, sul sito dove dal 1319 sorgeva “la Bastia del Peralto”. La supervisione dei lavori venne affidata al Capitano Speroni e da qui, per assonanza nacque l’errata interpretazione dell’etimologia del suo nome, associata al cognome del militare. La Piazza poteva ospitare fino a 125 soldati che, in caso di necessità, potevano triplicare il loro numero.
Nel 1800, durante l’assedio austro inglese della città, la “Poterna” essendo l’unica via di collegamento con il Diamante e i Due Fratelli, su disposizione del generale Massena, venne chiusa e murata perché, parole sue: “mal difesa e facile a sforzarsi ” e, soprattutto, per difendersi da eventuali sommosse intestine. L’importanza strategica del forte è testimoniata anche dalla sua straordinaria, per l’epoca, potenza di fuoco sempre, via via aumentata, dai difensori della roccaforte.
Con l’avvento dell’amministrazione francese (1805 1814) subì rifacimenti e migliorie, passato in mano sabauda nel 1815 venne sensibilmente trasformato con ampliamento della caserma e con l’elevazione di due poderose torri angolari ai vertici. La capacità di accoglienza del forte venne triplicata, 300 soldati che, all’occorrenza, potevano aumentare fino a 900.
Ripartito su tre livelli: al primo si trovavano l’ingresso principale, magazzini, locali vari, cisterne, prigione, polveriera e armeria, al secondo gli uffici, le tre camere degli ufficiali, quella del Cappellano e la Cappella, al terzo gli alloggi della truppa. La scenografica ripartizione delle masse, bilanciate sulle sporgenze irregolari del suolo, dona al forte quell’aspetto superbo ed imponente che lo contraddistingue.
Come tutte le altre strutture circostanti, anche questo forte dal 1914 una volta dismesso, è stato abbandonato, trascurato e saccheggiato (ad esempio dall’intelaiatura in legno che ordiva il tetto). Per un breve periodo, durante la Prima Guerra Mondiale, ha ricoperto la funzione di carcere ospitando un contingente di prigionieri serbi e croati. Dagli anni ’50 agli ’80 è stato utilizzato come caserma della Guardia di Finanza. Infatti sul piazzale prospiciente sul lato nord venne costruito un edificio per le necessità dei militari che ne alterarono il prospetto originario.
Fino a qualche anno fa è stato scenario di accattivanti iniziative culturali, fungendo da spettacolare cornice a rappresentazioni artistiche di vario genere, dall’ambito storico letterario, a quello teatrale, come nel caso, ad esempio ,della nota manifestazione “Luci sui Forti”.
Nella speranzosa attesa che anche questo gioiello venga recuperato e valorizzato nell’ambito del progetto “Forti Insieme” di delocalizzazione dal Demanio al Comune, Il Servizio Giardini e Foreste e la cooperativa Dafne, organizzano delle visite guidate. In ogni caso Lo Sperone merita di essere meta di una panoramica passeggiata… per provare l’inimitabile sensazione , in un agreste contesto, di dominare i monti dalla tolda di una nave.
I versi della canzone, dedicata da Zucchero alla nonna, sembrano scritti apposta per descrivere invece lo stupore che si prova davanti al Forte Diamante.
Si staglia a 670 metri s.l.m. sulla vetta dell’omonimo monte sorvegliando dall’alto le vie di comunicazione fra le Valli Polcevera e Bisagno e la città. Eretta la Rocca sui resti di quella trecentesca che un tempo era nota come la “Bastia di Pino”, all’inizio la struttura difensiva fu concepita come un semplice avamposto del Forte Sperone e solo nel 1746, all’epoca della ribellione antiaustriaca del Carbone e del Balilla, i Magistrati delle Fortificazioni ne compresero l’importanza strategica. Fu così che fra il 1756 e il 1758, incoraggiati anche dai finanziamenti privati elargiti dal Marchese Giacomo Filippo Durazzo, incaricati gli esperti ingegneri francesi, deliberarono l’erezione di una nuova fortezza.
La planimetria del forte mostra due cinture concentriche poligonali dalla singolare forma stellare, di cui quella esterna, nel suo vertice nord orientale mostra un baluardo pentagonale volto sulla strada a mezza costa che, un tempo passando sotto Porta delle Chiappe, collegava Genova con Torrazza e proseguiva verso la pianura padana.
Nell’anno 1800 durante l’eroico assedio subito dalla Superba per mano austriaca, il Diamante fu teatro di un episodio di coraggio e orgoglio leggendario, protagonista la guarnigione francese posta a difesa della città: Il Comandante austriaco, Conte di Hohenzollern, impadronitosi delle vicine rocche dei Due Fratelli minacciò il presidio del forte stellato difeso dall’ufficiale francese Bertrand. “Vi intimo, Comandante, di rendere all’istante il vostro Forte, altrimenti tutto è pronto ed io vi prendo d’assalto e vi passo a fil di spada. Potete ancora ottenere una capitolazione onorevole”.
Il Capitano francese non si scompose e diede prova di grande determinazione rinnovando il proposito di resistere: ”Signor Generale, l’onore che è il pregio più caro dei veri soldati, proibisce imperiosamente alla brava guarnigione che io comando di rendere il Forte di cui mi si è affidato il comando, perché possa acconsentire alla resa per una semplice intimazione, e mi sta troppo a cuore Signor Generale, di meritare la Vostra stima per dichiararvi che la sola forma e l’impossibilità di difendermi più a lungo, potranno determinarmi a capitolare”.
Bertrand e la sua truppa, circa 250 soldati stipati in un presidio che ne poteva ospitare un centinaio, non si arresero ed anzi, con l’aiuto dei rinforzi del Generale Soult, giunti in soccorso da Forte Sperone, costrinsero le aquile bicipiti, alla ritirata.
Dopo il Congresso di Vienna del 1814 e il relativo passaggio della Repubblica sotto i Savoia la struttura fu restaurata ed ammodernata dal Genio Militare sardo. Sia nel 1849 durante l’aggressione del La Marmora che nel 1857 al tempo di Mazzini e Pisacane fu oggetto di vani tentativi di occupazione da parte dei ribelli.
Dal 1914 il Forte è stato abbandonato al suo destino. Oggi, oltre un secolo dopo, forse nell’ambito del progetto “Forti Insieme” in cui il Demanio ha accettato di cederne al Comune la gestione, si intravvede qualche spiraglio di rinascita per questo e per tutti gli altri 14 splendidi forti che, tutti insieme loro si, costituiscono una delle più estese cinte murarie d’Europa, ben 19 km di perimetro, un patrimonio storico e paesaggistico in cui investire “Palanche” e di cui andare fieri.
Presso località Benedicta, vicino alla Capanne di Marcarolo nel territorio di Bosio, fra il 6 e l’11 aprile 1944, la Guardia Nazionale fascista e i militi tedeschi trucidarono 75 partigiani. Quattro compagnie della Guardia Repubblicana ed un corpo di granatieri di stanza a Bolzaneto accerchiarono la zona presidiata da due Brigate partigiane, la terza garibaldina di Genova, e quella autonoma di Alessandria. Partendo da Busalla, Pontedecimo, Masone, Campo Ligure, Lerma, strinsero il cerchio. Mentre la prima tentò, dividendosi in piccoli gruppi, di rompere l’assedio con azioni di coraggiosa guerriglia, la seconda male armata, si rifugiò nel Monastero di Voltaggio che venne minato e fatto esplodere. Il nucleo fondante era costituito da ex prigionieri fuggiti dai campi di concentramento e da gente dei dintorni, una quarantina di persone in tutto. In seguito si aggiunsero un centinaio di giovani che si erano rifiutati di arruolarsi nelle fila della Repubblica di Salò e si erano accampati nei pressi di un casolare, la cascina della Benedicta. Erano quasi tutti disarmati e rispondevano al comando del Capitano Odino che si era subito messo in contatto con il CNL comunicando la formazione di una nuova brigata a cui necessitavano armi e aiuto. Fu una carneficina i fedelissimi di Odino avevano cercato riparo in un anfratto del monte Tobbio, noto come la Tana del Lupo, traditi dall’abbaiare di un cane che si erano portati dietro, vennero scovati e costretti alla resa. Accerchiati dai repubblichini via via, fu la volta di tutti gli altri ragazzi che si erano sparpagliati in cerca di scampo, di arrendersi al nemico. Subito la maggior parte venne massacrata lungo il torrente Tobbio, i rimanenti ammassati nel cascinale furono successivamente fucilati a Voltaggio, Bagnara e sul Turchino. Il 19 maggio circa un mese dopo, infatti, altri 17 partigiani furono fucilati insieme ad altri 42 prigionieri sul Passo del Turchino come atto di rappresaglia contro l’attentato al cinema Odeon a Genova che era costato la vita a diversi ufficiali della Wehrmacht. Queste efferate dimostrazioni di forza da parte ditedeschi e fascisti anziché spegnere gli ardori dei ribelli, ottennero l’effetto opposto infondendo nuova linfa alla lotta di liberazione. La Brigata partigiana della Val Polcevera si adoperò per recuperare i corpi dei fratelli massacrati e per dare loro degna sepoltura.
Così, prima ancora di combattere, morirono i ragazzi disarmati e inermi della Brigata di Odino, sotto gli occhi impotenti e inorriditi dei contadini della zona. Settandadue uomini caddero sul campo in seguito agli scontri e alla deflagrazione del Monastero. Settantacinque partigiani vennero fucilati sommariamente sul posto dal plotone dei granatieri di Bolzaneto agli ordini di un ufficiale tedesco e gettati, insieme agli altri 72, in una fossa comune. L’unico a salvarsi e ci racconta egli stesso come, fu proprio il comandante Ennio Odino che nel suo “CriK in W. Valsesia, La Resistenza in provincia di Alessandria ricorda”: “Alle tane del lupo, tranne qualche morto fummo presi tutti: eravamo quasi duecento. Alla luce dei bengala ci accompagnarono, con le mani alla nuca e in fila indiana, alla Benedicta (…). Arrivati lì, fummo immediatamente rinchiusi tutti, feriti e non, nella cappelletta che era a sinistra, a piano terra per chi entrava nel cortile. Il mattino successivo (…) fummo chiamati a cinque per volta fuori dalla chiesetta nel cortile interno della cascina. (…) Io ricordo che ero il quinto del gruppo, dal 21 l 25, e sulla destra scendendo, venti metri prima della piccola cappella che esiste attualmente, notai cinque di Serravalle, tutti imbrattati di sangue. (…) Continuammo a scendere e arrivammo dov’è attualmente la cappelletta, di fronte alla quale, al di là della piccola valle, poco più in alto dov’è oggi una piccola croce, notai alcuni bersaglieri, otto o dieci, armati con dei moschetti. Dov’è la cappelletta ci fecero fermare e ci spararono addosso… Io dovevo sostenere un compagno che la sera prima, alle tane del lupo., era stato ferito ad un ginocchio. Questo fatto mi salvò (…) Caddi come altri a terra e il compagno che sorreggevo mi venne addosso e mi sporcò di sangue tutta la faccia. Rimasi lì immobile e sentii alcune raffiche di machine-pistole fischiarmi alle orecchie: erano i colpi di grazia che un tedesco delle SS dava a coloro che non erano morti e si lamentavano per il dolore delle ferite subite. Fu il momento più terribile della mia vita. (…) si sentì sparare dall’alto della collina: era il gruppo di Leo che pur sapendo che i colpi non sarebbero neppure arrivati fin lì, aveva cercato per lo meno di creare allarme fra il plotone di esecuzione composto di bersaglieri di stanza a Bolzaneto, e fra i tedeschi. Infatti coloro che li comandavano diedero ordine di ritirarsi all’interno della Benedicta e io, dopo qualche minuto, scivolai fuori dal gruppo di fucilati e salii attraverso il ruscello”. I prigionieri superstiti vennero condotti nel carcere di Marassi a Genova e a Villa Rosaa Novi Ligure. Coloro i quali 351 ragazzi, renitenti alla leva, si erano presentati spontaneamente alle SS, in cambio di un condono di pena promesso ma non rispettato, vennero inviati dalla stazione piemontese nei lager in Germania, dove 140 di loro trovarono la morte.
Da allora il Sacrario in cui sono onorate le loro membra costituisce per i Partigiani della Liguria, come testimoniato dall’orgoglioso racconto del partigiano “Marzo”, il simbolo della barbarie fascista e della spietata ferocia tedesca.
Tratto da “La Repubblica di Torriglia” di G. B. Canepa: “Ricordo che la notizia si sparse rapidamente per i monti e le voci che correvano parevano esagerate, tanto era stata inaudita la ferocia con cui quei maledetti s’erano accaniti; ed erano gli stessi tedeschi che propagavano queste voci, le ingigantivano e ne menavano vanto, nell’intento di demoralizzarci e di sconsigliare chi pensava di unirsi a noi per combattere.
E invece ecco che un senso di orrore e di odio s’impadronì di tutti i partigiani, e si può dire che da quel giorno ebbe inizio la vera lotta in Liguria. Dalle montagne di Ventimiglia a quelle di Oneglia, di Albenga, di Savona; dalle nostre qui nell’entroterra di Genova, le formazioni partigiane si misero in moto, si rinforzarono, si collegarono, e le truppe tedesche e i fascisti non ebbero più tregua”.
Questo soprattutto è il grande contributo che quelli della Benedicta diedero al Movimento della Resistenza Ligure”.
Spuntando da questa parte, quella orientale, il sole di Albaro investe poi della sua luce tutta la città; così, “la luce dell’alba”, la definivano gli antichi.
Albaro non solo è il luogo dove sorge l’alba terrena ma anche quella religiosa poiché su questo dolce declivio i SS. Nazario e Celso approdarono nel I sec.e, per primi, introdussero il Cristianesimo. Nella scomparsa parrocchia di S. Nazaro celebrarono probabilmente la prima messa sul suolo italico.
Fin dall’epoca romana la collina su cui si erge è stata la principale fonte, insieme alla Valle del Bisagno, di ortaggi per la città e, come testimoniato dal toponimo della chiesa di S. Maria del Prato, anche un vasto campo adibito al pascolo comune. Nei secoli successivi si è trasformato nel sito prediletto delle nobili famiglie genovesi che vi hanno qui fatto costruire le loro principesche ville di campagna.
In una di queste, sita nell’attuale Via Albaro al civ. 1, Villa Saluzzo Mongiardino prese alloggio nel 1822, appenasbarcato con il suo stravagante seguito, Lord Byron. Il celebre poeta romantico durante il suo soggiorno genovese elaborava i suoi scritti sorvegliato dalle teledi Van Dyck e del Veronese che arricchivano la già sfarzosa settecentesca dimora patrizia del Marchese Saluzzo. In quel periodo compose il suo “Don Juan”. Fra i suoi appunti annotava: “C’è qui un sospiro per quelli che mi amano, un sorriso per quelli che mi odiano, E, sotto qualunque cielo io vada, c’è qui un cuore pronto ad ogni destino”.
Poco distante a Villa Negrotto nell’odierna Via S. Nazaro dimorava anche Mary Shelley compagna del suo fraterno amico Percy morto annegato al largo di Viareggio qualche tempo prima di intraprendere il viaggio dalla Toscana verso Genova. Mentre Byron componeva il suo “Don Giovanni” l’autrice di “Frankenstein” qui si dedicò alla biografia del marito scomparso e scrisse un breve racconto in cui decantava le luci e i colori di “una splendida Genova” vista “dalla collina di Albaro, solitaria e battuta dal vento”.
Come ricordato dalla targa affissa sulla sua dimora genovese Lord Byron partì da Genova alla volta di Missolungi in Grecia, con l’intento di prestare soccorso al popolo greco insorto per la libertà contro l’impero ottomano. Il poeta romantico anglosassone, causa una febbre malarica, trovò la morte nella terra degli eroi classici, che tanto avevano influenzato il suo “umano sentire”, dell’antica Ellade.
Circa 20 anni dopo nel 1844 anche Dickens volle ripercorrere le orme dell’illustre predecessore decidendo di visitare i luoghi di Byron e di dimorare nella zona di Albaro. L’autore di “Oliver Twist” nel quartiere scelse Villa Bagnarello, definendola “la prigione rosa “. Dickens venne diverse volte a Genova e cambiò spesso domicilio al punto di farsi un quadro ben preciso della Superba: “Genova è tutta un contrasto; è la città più sporca e più pittoresca, più volgare e magnifica, repulsiva e più deliziosa che esista.”
Oltre un secolo dopo, in un’altra villa sempre dei Saluzzo, questa volta però quella cinquecentescadetta “Il Paradiso”, saranno gli affreschi di Lazzaro Tavarone, Bernardo Castello e Giovanni Ansaldo a ergersi testimonie fonte d’ispirazione per Fabrizio De André.Dalle creuze agresti e bucoliche della Vecchia Albaro a quelle “cariche di sale gonfie di odori” della città vecchia.
“Bacan d’a corda marsa d’aegua e de sa che a ne liga e a ne porta nte ‘na creuza de ma”… cantava l’inarrivabile Fabrizio!
In foto di copertina il quadro di Alessandro Magnasco “Giardino di Albaro”.
Nel cuore medievale di Genova, in Piazza Sarzano, poco distante da S. Agostino e da S. Silvestro, la chiesa del Santissimo Salvatore ha saputo ritagliarsi il suo spazio nella storia della città. Fondata nel 1141 dai canonici della Congregazione di San Rufo presso Camogli, si stabilì che essendone alle dirette dipendenze, a titolo simbolico, ogni natale tributasse un denaro ed una candela alla cattedrale di S. Lorenzo. Si affaccia sulla piazza, l’unica a quel tempo così spaziosa, dove si tenevano i tornei, il mercato e le adunanze. Quando nel 1311 Genova era lacerata da lotte e divisioni intestine, S. Salvatore fu attonito testimone della prima dedizione della città, in signoria, ad un principe straniero, l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo. Nel 1640 assistette sgomenta all’omicidio del giovane emergente pittore Pellegro Piola, il cui assassinio ebbe grande risalto nelle cronache cittadine del tempo.
Nel 1653 grazie al corposo lascito di una facoltosa famiglia del quartiere la chiesa venne ricostruita in forme barocche. Nel 1684, in seguito al bombardamento francese del re Sole subì il crollo del soffitto e fu oggetto di nuovi interventi. Ulteriori modifiche vennero apportate poi, anche nel tardo ‘700. Nel 1809 accorpò il titolo della vicina chiesa della comunità lucchese di S. Croce mutando il nome in chiesa di S. Salvatore e S. Croce. Qui furono battezzati il pittore Gioacchino Assereto e il musicista Nicolò Paganini il cui certificato di nascita è custodito presso la parrocchia di San Donato.
Nel 1942 durante la Seconda Guerra Mondiale venne quasi completamente distrutta, la sua storia e le sue opere d’arte sotterrate sotto le macerie fino a quando, negli anni ’80 e ’90, è stata acquistata dalla vicina università che, una volta sconsacrata, ne ha ricavato l’aula magna di architettura, una struttura in grado di ospitare 340 persone per conferenze, concerti ed eventi.
S. Salvatore è vero, non ha opere d’arte, arredi o quadrerie di particolare rilievo, né ne ha mai avute, ma con i suoi colori rosso mattone e giallo ocra,che si accendono o si smorzano a seconda dell’angolo da cui la si osserva, là “nei quartieri dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi”… funge da specchio dell’anima… l’anima di Sarzano.
Prima di percorrere Vico Sotto le Murette ed ammirare i brani delle antiche mura del Barbarossa, allo sbocco con la scalinata che scende verso le Mura della Marina, si troval’oratorio di S. Antonio della Marina.
Venne costruito nei primi anni del XV sec e, causa il bombardamento del 1684 del Re Sole, ricostruito nel XVII sec. Con l’occupazione francese e relativa soppressione napoleonica degli ordini religiosi, fu adibito a stalla. Nel 1828 venne recuperato e restaurato su progetto dell’architetto Carlo Barabino che lo rivisitò in chiave neoclassica.
L’esterno risulta piuttosto anonimo e la facciata sembra sbirciare timida il mare. Dal punto di vista storico, tuttavia, è interessante l’edicola posta a lato del portone con Sant’Antonio e Madonna con Bambino del 1637, sulla cui mensola sono scolpite le chiavi della città a simboleggiare il fatto che da quell’anno la Madonna è la Regina di Genova. Sotto di essa la dicitura un tempo affissa sulle porte della cinta muraria secentesca: “Posuerunt me custodem” (mi misero a protezione).
Ancora più sotto la commovente e relativamente recente lapide che recita:
Su tutte il celeberrimo Cristo Morodelle Fucine del Bissoni del 1639 ritenuto il primo esempio di grande crocifisso processionale ligure. Scolpito inlegno di giuggiolo tinto al naturale con fregi in tartaruga e fogliame d’oro. Il gonnellino insieme agli altri orpelli d’argento e i diamanti con cui era decorata la scritta “INRI” sono stati depredati dalle truppe napoleoniche.
Non da meno sono poi il Cristo Bianco, datato 1710, opera del Maragliano e la strepitosa tardo settecentesca cassa processionale con San Giacomo Maggiore che abbatte i Mori di Pasquale Navone, proveniente anch’esso dalla Confraternita delle Fucine.
Vi sono poi affreschi ottocenteschi di Giuseppe Passano e soprattutto quelli cinquecenteschi di Luca Cambiaso, tele di Orazio Cambiaso e di altri artisti minori della scuola genovese che si sono impegnati nel raccontare gli episodi salienti della vita del santo.
Di pregevole fattura infine l’altare ottocentesco con le tre relative statue frutto del talento di Ignazio Peschiera.
L’oratorio inoltre, fatto singolare e curioso, avendone ereditato il titolo dalla vicina dismessa chiesa, è sede della parrocchia di S. Salvatore, il cui sconsacrato edificio ospita l’aula magna della facoltà di architettura.
“Ebony and Ivory live together in perfect harmony” cantavano in duetto Paul Mc Cartney e Stevie Wonder… e se nel mondo questa resta ancora un’utopia irrealizzata, il “ Cristo Moro” equello “ Bianco”, nell’oratorio di S. Antonio della Marina, convivono in perfetta armonia.
“Non si deve muovere la Bastia di Promontorio per far Tenaglia fino che non sia finito il cinto in detta parte”. Così, in fase di progettazione delle Nuove Mura, annotava Padre Fiorenzuola l’architetto incaricato dello studio per la costruzione del nuovo forte. La vecchia bastia cinquecentesca (eretta in realtà intorno al 1478) di promontorio che “tenerebbe netto Cornigliano e il principio della Polcevera, essendo che fino a Coronata può tirare, difenderebbe la Lanterna, L’Oliva e San Pier d’Arena, perché tutti questi lochi lo domina benissimo”, nel 1633 con il completamento delle Mura, venne atterrata. Sul relativo piano si edificò, come struttura complementare alla cinta, la fortificazione avanzata a “Tenaglia”; costruita su due mezzi bastioni laterali, con un piccolo cortile intermedio a due lunghi lati paralleli delimitanti, nell’insieme, un recinto fortificato a 217 metri s.l.m.
Circa un secolo dopo, nel 1747 dopo la cacciata austriaca del Balilla, vennero rinforzati i parapetti del forte perché fossero in grado di opporre maggiore resistenza alle artiglierie nemiche.
Nel 1797 durante la rivolta antifrancese vi si asserragliarono i ribelli genovesi che, dopo dura lotta e numerosi caduti, furono sconfitti dagli invasori.
La storia del forte mutò dopo l’annessione ai Savoia del 1816 che provvidero ad elevare la cortina settentrionale e della fronte a ponente con il contemporaneo innalzamento di cortine in parallelo a chiusura del perimetro. Si ottenne così un corpo continuo a “L” con al suo interno una caserma ma indipendente e in posizione più avanzata rispetto alle mura secentesche. Per questo venne collegato alla cinta mediante un ponte levatoio.
In occasione dei moti insurrezionali del 1849 contro i Savoia Il Tenaglia venne occupato dagli insorti e fu riconquistato dai piemontesi solo grazie al tradimento di un personaggio ambiguo proveniente da Torino.
Costui a conferma del detto “piemontesi falsi e cortesi”seppe ingraziarsi i ribelli a tal punto da strappare loro il comando del Forte e riconsegnarlo alle truppe regie che, sotto la guida del CapitanoGovone dei Bersaglieri, avevano già ripreso possesso anche del Crocetta e del Belvedere.
Durante la Seconda Guerra Mondiale la fortezza, utilizzata come postazione per una batteria antiaerea, causa i bombardamenti patiti, subì gravi danni alla cortina meridionale e il crollo totale della caserma nella zona centrale.
Curiosa è poi la storia legata al nome, visto che nella toponomastica ufficiale, il forte è sempre stato identificato con il nome “Tenaglia” al singolare mentre recentemente i volontari dell’associazione che ne hanno ottenuto dal Demanio la concessione, hanno rinvenuto una targa coperta dai rovi e nel più completo abbandono. La lapide posta all’ingresso, vicino a dove un tempo c’era il ponte levatoio, reca scolpito il titolo al plurale, “Tenaglie”. Incuriositi da questo particolare costoro hanno effettuato delle ricerche secondo le quali tale variante risalirebbe a documenti sia cinque che settecenteschi. Probabilmente si è passati dal plurale al singolare poiché tenaglia in francesesi traduce “Tenaille” e, quindi di conseguenza, così è rimasto per tradizione e storpiatura popolare.
Come in ogni forte o castello che si rispetti non poteva infine mancare la caccia al tesoro: due interessanti vicende sono infatti legate a presunti gruzzoli lasciati dai militari nei secoli; il primo risalirebbe al tempo di Napoleone, il secondo all’epoca della Seconda Guerra Mondiale. A proposito di quest’ultimo leggenda narra che, molti anni dopo il termine del conflitto, un soldato tedesco armato di pala si sia presentato al picchetto di guardia con la bizzarra e, per altro non esaudita, richiesta di accedere al forte per recuperare il suo ingente patrimonio che aveva sepolto lì al tempo in cui l’artiglieria tedesca sparava contro l’aviazione alleata.
Posto in posizione strategica dalla sua sommità si gode di un panorama invidiabile che domina sulle Valli Polcevera e Bisagno e che spazia dalla Madonna della Guardia, al Gazzo, a Capo Mele fino al Promontorio di Portofino.
Da alcuni anni Il Tenaglie o Tenaglia che dir si voglia è stato recuperato e restituito alla cittadinanza grazie all’operato di un gruppo di volontari della “Piuma Onlus” che, in occasione di determinati eventi apre, con meraviglia dei visitatori, la storica struttura.
Nei pressi di S. Giorgio è situata un’antica piazzetta la cui conformazione è stata stravolta dalle opere di fine ‘800 per la realizzazione di Via S. Lorenzo.
I portici che proseguivano fino al molo vecchio sono stati demoliti e sostituiti da quelli ottocenteschi, i relativi magazzini del Porto Franco che occupavano tutto lo spazio (odierna Via Turati) scomparsi.
Al loro posto un parcheggio, il sottopasso e la sopraelevata.
Il toponimo trae origine dalla parola araba “Reba o rayba” che significa mercato o magazzino delle biade.
Fin dal ‘200 la piazza era identificata con il diminutivo di Raibetta perché dedicata allo smercio di legumi e per distinguerla dall’attigua e più importante Raiba, lo spazio assegnato alla compravendita dei cereali.
Nello stesso spiazzo vi era anche “la clapa piscium” ovvero il mercato del pesce.
Qui avveniva un singolare rituale di messa alla berlina che vedeva protagonisti coloro i quali si macchiavano di fallimenti: al malcapitato venivano requisiti tutti i beni restanti in favore dei creditori e doveva, fra l’ilarità dei concittadini chiamati a raccolta, patire l’umiliazione di sbattere tre volte le natiche sulla pietra.
Da qui il nostrano, per dire che si è toccato il fondo, “dar di culo sulla ciappa”.
La morfologia del centro storico genovese si era sempre dipanata in epoca medioevale intorno al concetto di “piazza castello” attorno al quale la famiglia egemone costituiva la propria consorteria con fondaci, magazzini, attività mercantili e artigianali, chiesa e dimora gentilizia (vedi ad esempio i Doria in Piazza S. Matteo, gli Embriaco nell’omonima piazza, i Cattaneo Della Volta in San Giorgio).
Gli spazi consolidati nei millenni non bastavano più a contenere gli slanci di grandezza dei nobili genovesi che, a metà del ‘500 in pieno Rinascimento, cominciarono a concepire la loro rivoluzione viaria e immobiliare, un percorso che si sarebbe snodato per oltre due secoli.
Fra il 1551 e il 1558 si procedette allo sbancamento della collina sottostante il Castelletto e alla demolizione del vicino postribolo in S. Francesco per permettere l’edificazione dei primi palazzi in Strada Maggiore o Nuova (poi Via Aurea, oggi Via Garibaldi), una via monumentalevoluta, su progetto di Bernardino Cantone, per offrire residenze di prestigio alle principali famiglie patrizie.
La strada aveva come unico accesso il varco da Piazza Fontane Marose poiché l’odierna Piazza della Meridiana era occupata dai terreni di Palazzo Durazzo. Come ancor oggi possiamo intuire tutti i palazzi lato monte ed alcuni verso valle, erano impreziositi da meravigliosi giardini pensili, una piccola Babilonia, che si arrampicavano fino sotto al Castelletto.
I terreni per l’edificazione delle dimore furono una vera e propria operazione di speculazione edilizia promossa dal Comune che, bisognoso di palanche, aveva diviso in lotti la proprietà per venderli all’asta.
Nel 1622 il pittore fiammingo Rubens rimase particolarmente affascinato dalle sfarzose dimore di Strada Nuova a tal punto da pubblicare un volume “I Palazzi di Genova” a loro dedicato in cui le indicavaai compatrioti come modello architettonico da imitare.
Nel frattempo l’espansione residenziale era continuata a ponente con l’apertura di Strada Grande del Guastato su disegno di Bartolomeo Bianco (Via Balbi) iniziata fra il 1602 e il 1613, completata nel 1655, i cui appalti vennero affidati appunto alla ricca famiglia dei Balbi che vi fece costruire , fra gli altri, il futuro Palazzo Reale. Proseguita con la realizzazione di Strada Nuovissima (Via Cairoli) nel 1786 il progetto si concluse con iprolungati lavori terminati sul finire del ‘700 a causa degli imponenti sbancamenti resisi necessari per consentire il livellamento e quindi il collegamento fra le due arterie costruite in tempi diversi.
Genova era ora attraversata da una nuova direttrice che collegava il ponente cittadinoal centro fino a Piazza Fontane Marose e poi, attraverso Salita S. Caterina, si dirigeva verso la valle del Bisagno e la collina di Albaro.
Il cerchio si chiuderà solo nel 1832 quando l’architetto Carlo Barabino traccerà strada Carlo Felice (Via XXV aprile) che unirà il percorso a Piazza De Ferrari collegandolo al nuovo centro cittadino e alle Vie Giulia e Consolazione (Via XX settembre).
Genova muta il suo baricentro ma non il suo fascino.