Il Bombardino, una delle più diffuse bevande montanare, nacque al rifugio “Mottolino” di Livigno in provincia di Sondrio.
Fin qui nulla di strano se non fosse che ad ideare il cocktail più apprezzato in tutte le mescite dell’arco alpino sia stato un giovane genovese che, dopo aver prestato servizio presso gli alpini, prese in gestione una baita della zona.
Seduto con quattro amici al bar, in una gelida sera come tante, proprio come nella canzone di Gino Paoli, non cambiò il mondo ma inventò un miscuglio di latte, zabaione e whisky bollente con l’auspicio che riscaldasse dal rigido inverno. Il genovese ed i suoi amici fecero assaggiare la calda pozione ad un cliente che esclamò soddisfatto:” Accidenti! è una Bombarda”. Fu così che venne battezzato il nuovo preparato.
Dopo qualche tempo un lavorante del rifugio rivelò a terzi la ricetta del Bombardino contribuendo così alla sua rapida diffusione su tutte le piste da sci del circondario, fino a superare i confini regionali . Al latte venne sostituita la panna montata e al Whisky il Brandy o il Rhum.
Nacquero così le tre varianti con cui ancora oggi è possibile gustarlo:
Calimero con zabaione e caffè espresso; Pirata con zabaione e rhum, Scozzese con Zabaione e Whisky.
Esistono tuttavia delle versioni “free style” in cui i liquori vengono mischiati a piacimento purché collante comune rimanga l’uovo dello zabaione.
Anche sulla neve ci si scalda il cuore con un sorso di Genova!
Antonio Tabucchiè stato uno dei pochi pisani apprezzati dai genovesi. Un rapporto che lo scrittore amante del Portogallo, di Pessoa e della sua cultura, ha avuto modo di consolidare quando nel 1978 venne chiamato ad insegnare nell’ateneo genovese. Genova e Lisbona due città molto simili, con parecchie cose in comune: entrambe affacciate sul mare, inebriate da aromi e profumi portuali, dove il vento regna sovrano; caruggi stretti dove luce ed ombra giocano a nascondino, strade arrampicate in salita alla ricerca di uno scorcio di cielo, di un raggio di sole, sempre appese ad un filo dell’orizzonte. Proprio in quel punto dove cielo e mare si fondono nell’infinito.Genova e Tabucchi, come Lisbona e Pessoa; l’autore di “Sostiene Pereira” ne “Il filo dell’orizzonte”, edito da Feltrinelli nel 1986, aveva così descritto la nostra città:
«Ci sono giorni in cui la bellezza gelosa di questa città sembra svelarsi: nelle giornate terse, per esempio, di vento, quando una brezza che precede il libeccio spazza le strade schioccando come una vela tesa. Allora le case e i campanili acquistano un nitore troppo reale, dai contorni troppo netti, come una fotografia contrastata, la luce e l’ombra si scontrano con prepotenza, senza coniugarsi, disegnando scacchiere nere e bianche di chiazze d’ombra e di barbagli, di vicoli e di piazzette».
Appartenente alla nobile schiatta della famiglia alessandrina dei Canefri, il giovane Ugo s’imbarcò da Genova alla volta di Gerusalemme dove, in veste di cavaliere gerosolimitano, prese parte alla terza Crociata (1189-1192).
Ugo compì la sua metamorfosi, da combattente sul campo, ad infermiere nelle retrovie. Gli venne affidata la prestigiosa gestione dell’Ospitale (l’appellativo Commenda risale al XIV sec.) di San Giovanni dove, per circa 50 anni, si dedicò al soccorso e all’assistenza dei pellegrini in partenza o al rientro dalla Terrasanta.
Uomo pio e timorato di Dio, terminate le sue attività quotidiane, amava ritirarsi in solitaria preghiera in una piccola grotta lungo la collina sovrastante l’ospizio, vicino ad un torrentello che sgorgava tra Oregina e San Barnaba. Il rivo scorreva a cielo aperto e sfociava nel mare nei pressi dell’antico approdo di Capo d’Arena, intitolato poi, a Santa Limbania.
Numerosi i miracoli di cui è stato protagonista: aver salvato una nave da un naufragio e trasformato acqua in vino, questi ed altri prodigi, raccontati da un ciclo di piccoli affreschi dipinti sulla navata di sinistra della chiesa Inferiore, nei resti della cappella a lui intitolata.
Ma il più celebre di questi episodi fantastici è noto come “Il Miracolo di S. Ugo”:
leggenda narra che, desideroso di accontentare le lavandaie del nosocomio che per pulire i loro panni erano costrette a percorrere in salita un tragitto lungo e faticoso, fece scaturire da un masso del fossato una fresca e zampillante sorgente.
Le inservienti infatti lamentavano la scarsità d’acqua che si accumulava nel fossato solo dopo lunghi giorni di pioggia. Fu così che il Santo, dopo ripetute preghiere, fece sgorgare dal sasso una polla perenne, utile non solo alle domestiche, bensì a tutta la popolazione dei paraggi.
Di fatto la Piazza davanti alla stazione di Porta Principe, chiamata “Acquaverde”, prende il nome dallo stagno formato da quel rivo.
Nella seconda metà dell’800, in seguito ai lavori di costruzione ed ingrandimento dello scalo ferroviario, questi luoghi della memoria sono stati sepolti e distrutti ma la sorgente, in un primo momento scomparsa, non si è arresa all’oblio dei tempi ed ha ripreso a sgorgare rigogliosa.
La polla esiste tuttora e rifornisce la fontanella posta in Via Prè, vicino all’ingresso della chiesa Superiore di S. Giovanni e, all’interno della stazione, i bagni e le utenze della stessa.
La fonte, per secoli, è stata ritenuta possedere virtù taumaturgiche e i luoghi del Santo venerati e onorati dalla cittadinanza con l’erezione di una cappella a questi dedicata.
Il miracolo di S. Ugo è egregiamente rappresentato da un settecentesco quadro di Lorenzo De Ferrari custodito, sopra un altare laterale, nella chiesa Superiore di S. Giovanni. Se l’edificio Inferiore merita assolutamente menzione per la magica (cappelle di S. Brigida e S. Margherita) atmosfera in cui è avvolto, non da meno è il tempio Superiore, l’ultima splendida testimonianza di una chiesa interamente costruita in pietra nera di Promontorio, la pietra indigena proveniente dalla cava di S. Benigno, luoghi dell’anima dove, con un po’di fantasia, si possono ancora ascoltare il metallico scalpitio dei cavalieri, i lamenti dei malati, le urla di Cardinali assassinati, lo sferragliare dei Crociati, le arringhe dell’Embriaco e… le preghiere di S. Ugo.
Fin da piccolo, essendo la madre genovese, Paul Valéry prese a frequentare Genova in ripetuti soggiorni. La dimora della zia Vittoria Cabella, sita dietro il Coro di S. Luca, divenne punto di partenza per le sue escursioni nel centro storico:« Genova è ricca di monumenti e trascorro i giorni a visitarli. La cattedrale è bella, gotico-moresca con statue del tempo antico, iscrizioni che tento di tradurre con quel poco di latino che è rimasto in me. Ho visitato molti palazzi pieni di quadri. Tra gli altri, il palazzo del celebre Andrea Doria, ammiraglio delle Galere, alleato a volte della Francia, a volte dell’Austria. Ho visto una sala del quattordicesimo secolo con vecchi quadri dell’epica. Mi sono seduto sulla poltrona dove si sono seduti prima Carlo V e in seguito Napoleone», scriveva il giovane in una lettera indirizzata ad un amico nel 1887.
In seguito alla morte del padre Valéry abbandonò presto Montpellier e nel 1892 si trasferì con la famiglia in casa degli zii genovesi che, nel frattempo, avevano traslocato nella nuova abitazione al civico n. 7 di Salita S. Francesco di Castelletto.
“Questa città, tutta visibile e presente a se stessa, rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava acuto il poeta.
Fu un periodo di forte instabilità emotiva per il giovane Paul che, nelle notti tra il 2 e il 6 di ottobre, in una città sferzata da piogge e temporali, visse un’esperienza di dolore e travaglio interiori così potenti, da fargli ritenere inutili sia la poesia che la sua stessa esistenza. Quel momento passò alla storia nei manuali di letteratura come la celebre “Nuit de Genes” in cui la tempesta metereologica trovò corrispondenza con quella interiore, a tal punto, da indurlo all’abbandono della poesia e al silenzio per i successivi vent’anni.
Nei primi giorni d’ottobre del 1895 Valéry visitò nuovamente Genova, di ritorno da un giro in altre città italiane, come Trieste, Venezia e Milano scrisse al suo amico e collega Gide: «Rimango un po’ a Genova, dopo ieri sera…».
Nel 1910, dopo 15 lunghi anni, il poeta rientrò in città per salutare la madre ospite, sempre in Castelletto, nella nuova abitazione dei Cabella, di S. Maria della Sanità e, nei suoi appunti, annotò:
«Rivedere Genova -dopo quindici anni- mi dà molte emozioni[…]Ho là molti ricordi della mia infanzia, della mia adolescenza…»… e ancora…
«Genova, città dei gatti. Angoli neri. Si assiste alla sua ininterrotta costruzione dal tredicesimo al ventesimo secolo[…] Sullo sfondo, il monte Fasce, grigiastro e rosato, colore elefante. Carruggi. Qui, moltitudini di bambini giocano attorno a povere prostitute nude, o seminude che si offrono sulla soglia dei loro bassi aperti.[…] Si va nella vita complicata di questi profondi sentieri come si entrerebbe nel mare, nel fondo vero di un oceano stranamente popolato[…] Odori concentrati, odori ghiacciati, droghe, formaggi, caffè abbrustoliti, cacao deliziosi finemente tostati[…] Cucine fragranti. Queste torte gigantesche, farine di ceci, mescolanze, sardine all’olio, uova sode imprigionate nella pasta, torte di spinaci, fritture. Questa cucina è antichissima. Genova è una cava d’ardesia».
Genova cessa di rappresentare per Valéry il ricordo disincantato della gioventù e diviene il “luogo dell’anima”.
Nell’aprile del 1924, tornando da Roma, dopo aver incontrato Mussolini per un colloquio sulla situazione intellettuale in Europa, fece una breve sosta a Genova: «…Contento ed emozionato di ritrovare la mia città Genova. Tutto mi parla qui. Io la preferisco a tutte le Rome».
Ormai illuminato accademico di fama internazionale Valéry tornerà altre volte in città, l’ultima delle quali, nel 1933 ospite dell’Università in Via Balbi dove, come un cattedratico qualunque, terrà la sua “lectio magistralis” senza minimamente fare cenno al suo legame con la Superba.
Valéry, in verità, non ha dimenticato e ci ha lasciato in eredità una delle più appassionate, a mio parere, descrizioni della città:
“Ha una distesa di cupole, di monti calvi,di mare,
di fiumi, di neri fogliami, di tetti rosa.
E quella Lanterna così alta ed elegante,
e meandri popolosi, labirinti affollati,
le cui viuzze salgono, scendono, si intersecano improvvisamente,
sbucano sulla veduta del porto.
Genova, una città piena di sorprese.
Di porte scolpite in marmo, ardesia, casse, formaggi, scale,
biancheria al posto del cielo, cancellate,
bizzarro dialetto dal suono nasale e irritante,
dalle abbreviazioni strane, vocaboli arabi o turchi.
Nel 1346 Brigida la santa svedese, sulla via verso Roma dove avrebbe chiesto al Papa l’approvazione per il suo neonato ordine religioso, sostò a Genova Quarto per una settimana. Un giorno si fece accompagnare dalla parte opposta del golfo, nel ponente cittadino, per fare una passeggiata con la figliaed ammirare la Dominante dall’alto.
Fu così che, giunta sul colle del Peralto, in località Mura delle Chiappe, espresse la nefasta profezia: “Un giorno il viandante che passerà dall’alto dei colli che recingono Genova, accennando con la mano i lontani cumuli di detriti, dirà: laggiù fu Genova ”.
Probabilmente i genovesi non gli dovevano essere risultati troppo simpatici forse perché la Santa aveva già intravisto in loro quel carattere superbo e altezzoso che, 12 anni più tardi, nel 1358 Petrarca avrebbe scolpito nell’eternità: “Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per genti e per mura, il cui aspetto la indica signora del mare”. Non tutti sanno però che la celebre descrizione del poeta toscano proseguiva con un monito, non molto diverso nella sostanza dalla profezia della Santa “… la stessa potenza, come è già accaduto a molte città, le nuoce e le reca danno, perché offre materia alle contese e alle gelosie cittadine…”
D’altra parte il conterraneo Sommo Dante nel canto XXIII dell’Inferno, nei versi 151-153, aveva sentenziato: “Ahi Genovesi, uomini diversi d’ogne costume e pien d’ogni magagna, perché non siete voi del mondo spersi?”.
Dante, Santa Brigida, Petrarca, se tre indizi costituiscono una prova, la conferma è sugellata da un’altra predizione, parte di una raccolta di scritture notarili quattrocentesche, custodita presso l’archivio vescovile di Piacenza, opera di un anonimo scrittore:
“Tra Capo di Faro ed Albaro si erge una CIVITAS OPULENTISSIMA, che sarà distrutta dal drago, allora si dirà HIC FUIT IANUA SUPERBA”.
Il drago faceva riferimento al simbolo cittadino rappresentato sul sigillo e sulle monete della città insieme al Grifo. Forse l’anonimo non ricordava che S. Giorgio il drago lo aveva ucciso e che, il Grifone a Genova, simboleggiava la riconquistata libertà.
Nel 1695 la Madonna in persona, dal 1637 Regina di Genova, avrebbe indicato in sogno a Padre Carlo Giacinto, il punto esatto dove erigere un Santuario a lei dedicato, non molto lontano da dove, oltre tre secoli prima, Santa Brigida aveva emesso il suo infausto vaticinio. Il nuovo tempio avrebbe dovuto essere rivolto a nord, cioè a monte, anziché a sud, verso il mare in modo da non essere testimone di quanto profetizzato. Nonostante gli altri numerosi preesistenti santuari: il Gazzo, la Vittoria, Madonna del Monte e Guardia, Nostra Signora Assunta di Carbonara, questo è il nome completo della Madonnetta, divenne l’unico luogo di culto ufficialmente riconosciuto dalla Repubblica.
Dopo la profezia di Santa Brigida e dopo l’erezione del santuario, Genova ha comunque dovuto subire ed affrontare numerose distruzioni e sventure, in particolare il Sacco di spagnoli e lanzichenecchi nel 1522, il bombardamento del re Sole nel 1684, l’occupazione austriaca riscattata dal Balilla nel 1746, il cannoneggiamento inglese del 1800, il massacro del La Marmora nel 1849, i bombardamenti alleati della Seconda Guerra Mondiale e le rappresaglie tedesche nel periodo antecedente la Liberazione Genova. Con buona pace della santa svedese, dei due poeti toscani, e dell’anonimo piacentino, si è sempre rialzata.
Ma la Superba non ha portato rancore visto che la descrizione del Petrarca è tuttora la più celebre ed apprezzata e alla santa svedese oltre ai trogoli e una strada, sono stati intitolate una chiesa e due conventi nella zona compresa tra Via Prè e Via Balbi.
L’8 giugno del 1976 ahimè, proprio sotto l’arco sottostante la statua della santa, in Salita S. Brigida, il procuratore generale di Genova Francesco Coco e due agenti della sua scorta furono barbaramente trucidati da un commando armato delle Brigate Rosse.
Il poeta siciliano futuro premio Nobel per la letteratura nel 1959 s’innamorò perdutamente della Liguria nel 1930 quando, trasferito al Genio civile di Imperia prima e di Genova poi, ebbe modo di conoscere e frequentare Camillo Sbarbaro ed Eugenio Montale, collaborando alla rivista letteraria “Circoli”.
Tre artisti, di cui due premi Nobel e uno Sbarbaro certo non da meno che, da questa terra incrociandosi, trassero feconda ispirazione per influenzare la poesia mondiale del ‘900.
Quasimodo nella sua ultima raccolta ““Dare e avere” 1960 – ‘65” consegna ai posteri una meravigliosa poesia dedicata alla “Liguria”.
In questo componimento il poeta riesce a rievocare l’asprezza della montagna, il sibilo delle vipere, il canto degli usignoli, lo scrosciare delle acque del Roja e, in un continuo crescendo emotivo, l’eterna lotta fra il mare e la terra.
Ma il verso che da sempre mi ha colpito è quel “Ma se il Ligure alza una mano, la muove in segno di giustizia”… e allora sfilano nella mia mente tutte quelle popolazioni liguri che si opposero fieramente all’occupazione della Roma imperiale; i marinai che, sprezzanti del pericolo, difesero le nostre coste dai Turchi e dai Saraceni; i genovesi tutti che, coraggiosi e indomiti, nel 1684 non si piegarono alla boria del Re Sole; il Balilla e la sua audace ribellione contro gli austriaci; i Capitani De Stefanis e Pareto e la loro disperata difesa contro i bersaglieri del La Marmora; Genova intera che nel 1800, oltre ogni umana aspettativa, resistette all’assedio austro piemontese e inglese; i camalli che nel 1924 protestarono contro l’omicidio Matteotti e impedirono alle Camicie Nere l’accesso al porto; i Partigiani che tra l’8 settembre 1943 e l’aprile 1945 contribuirono alla liberazione della Superba, unica caso in Europa nell’era moderna, dai Tedeschi prima dell’ingresso degli alleati; i lavoratori che scioperarono nel giugno 1960 contro la scellerata idea di convocare il congresso nazionale del rinato Partito Fascista in città, contribuendo alla caduta del governo Tambroni.
L’avara Liguria è la mia terra!
Foto di copertina spiaggia di Porto Pidocchio a Framura.
Tutti conoscono i Menhir e i Dolmen di Carnac in Francia e di Stonehenge in Inghilterra, pochi sanno però che nell’alta Valle Sturla, lungo la strada provinciale in direzione Borzonasca si trova il più grande ed importante reperto megalitico d’Europa e, forse, del mondo. Infatti se i primi risalgono nell’era neolitica, al terzo o secondo millennio prima di Cristo, quello di Borzone, probabilmente, addirittura a 12000 anni prima del Salvatore, in pieno Paleolitico.
Proprio in località Borzone, più precisamente Rocche di Borzone, frazione di Borzonasca si staglia sulle alture il “Volto megalitico di Borzone”: una gigantesca scultura rupestre alta sette metri e larga quattro raffigurante un volto umano, secondo alcuni maschile, secondo altri femminile. Un’immagine primordiale di un Dio antropomorfo, o di una dea frutto di una società matriarcale?
Svariate sono le ipotesi ma quel che è certo è che sia opera dell’ingegno dell’Homo Sapiens Sapiens. Il nostro più vicino progenitore ha così impresso e immortalato se stesso nella roccia.
Il singolare sito venne scoperto nel 1965 da Giuliani, assessore del comune di Borzonasca, che si trovava in zona per un sopralluogo relativo alla costruzione della strada. Alzando gli occhi scoprì casualmente il misterioso volto nascosto dalla fitta vegetazione circostante.
Gli abitanti del luogo non si scomposero più di tanto sostenendo, in base a racconti tramandati nel corso dei secoli, che “Il Volto di Cristo” così familiarmente chiamato, fosse stato scolpito in tempi remoti dai monaci della vicina Abbazia di Borzonasca. Secondo un’antica tradizione infatti, una volta l’anno, tutti i valligiani vi si riunivano davanti, in compagnia dei frati, in preghiera. A conferma di questa suggestiva tesi la presenza di alcune piccole teste litiche su diverse abitazioni della zona.
La particolare fattura del manufatto ha però rivelato che “il Volto di Borzone” apparteneva non alla storia, bensì alla preistoria, essendo di diversi millenni anteriore rispetto a quanto affermasse la leggenda consolidata.
In base ad alcuni rilievi sul posto effettuate da esperti, le sculture megalitiche, collegate fra di loro nello stesso blocco di pietra sarebbero addirittura, osservando attentamente, due.
La questione rimane dibattuta, oggetto di studi e perizie da parte dei dotti della materia.
Studiosi appassionati o semplici curiosi turisti se ci si vuole quindi immergere nella preistoria e spingersi a ritroso agli albori del genere umano, non necessariamente bisogna partire alla volta di Spagna, Gran Bretagna o Francia, basta fare un salto nel nostro affascinante e misterioso entroterra.
Recitava lo slogan pubblicitario diqualche decennio fa di Renzo Arbore a proposito delle proprietà della birra.
Ritornello che si può ben adattare alle vicende della rinfrescante bevanda all’ombra della Lanterna. Se è vero che Magone nel 218 a. C. aveva raso al suolo la città a causa del sapore acetato del suo vino, altrettanto vero è che la birra ha avuto sempre, come testimoniato dal ritrovamento di Pombia, un ruolo rilevante nella cultura degli antichi Liguri.
In epoca moderna poi Genova è stata una delle principali città in cui, sotto gli influssi asburgici, attecchì il consumo del dissetante fermentato.
Nel 1882 infatti, in pieno regno sabaudo in seguito alla triplice alleanza di cui facevano parte piemontesi, prussiani e austriaci, numerosi funzionari stranieri presero residenza nel centro cittadino.
Fu così che a Genova fiorirono decine di birrerie spesso con tanto di oste bavarese verace e bionde e allegre “kellerine” a servire schiumantiboccali. Molti di questi locali erano concentrati nel salotto della città, nell’area che dalla Prefettura degradava lungo Salita S. Caterina e la galleria Mazzini. Fra questi spiccavano in particolare, la Gambrinuse la Lowenbrau che si trovavano in via S. Sebastiano.
Il proprietario di quest’ultima si chiamava Monsch ed era un bavarese purosangue, da lui andavano a ristorarsi sia i funzionari asburgici che quelli italiani nell’encomiabile tentativo di trovare qualche argomento in comune oltre all’alleanza militare. Svolazzava per il locale la celebre Nelly, una prosperosa cameriera che colpirà la fantasia poetica di Camillo Sbarbaro che tra una sosta in un bordello e una in birreria ebbe modo di ricordare nella sua raccolta di versi “Fuochi fatui” anche la bella kellerina.
La Gambrinus arredata con stile tirolese era apprezzata trasversalmente dai ricchi notabili genovesi come dai semplici operai e portuali che amavano risalire i caruggi dal porto per andarsi a rinfrescare il palato con un’invitante birra. Genova in quegli anni godeva di un favorevole situazione economica, dopo l’annessione al Regno d’Italia e la crisi del ’49, culminata con la vergognosa repressione del La Marmora, la politica dei Savoia fu quella di richiamare verso la città capitali forestidi una certa rilevanza. Allo stesso tempo l’aumento dei flussi migratori verso Nord e Sud America costituì uno straordinario impulso per il porto che conobbe, in quegli anni, un periodo di considerevole sviluppo. Anche la vita mondana della città era in grande fermento: il teatro Carlo Felice richiamava attori e attrici di fama internazionale; Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio trascorrevano notti pantagrueliche nei ristoranti della galleria, frequentati anche daLina Cavalieri, attrice ritenuta da molti ammiratori la “donna più bella del mondo”. Le feste e i luculliani banchetti organizzati in suo onore fornirono copioso materiale per i giornali dell’epoca.
Alla stessa maniera nel ristorante – birreria di Pippo Luce, fra luci e paillettes, s’innalzavano continui brindisi nei confronti delle belle attrici di passaggio. Il giornalista Anton Giulio Barrili fondatore de “il Caffaro” e Stefano Canzio presidente del Consorzio Autonomo del Porto, entrambi ex garibaldini, discutevano di politica con una birra così come faranno poi negli anni a venire grandi poeti liguri come Eugenio Montale e Camillo Sbarbaro.
A metà di Galleria Mazzini si trovava la birreria Zolezi che offriva musica di classe dal vivo con la particolare proposta, un unicum in tutta Europa, di un apprezzato quartettocomposto solo di violoncelliste viennesi.
L’attrazione al di là della musica era il fascino delle bellezze teutoniche molto gradito agli impiegati della Questura (all’epoca presso Palazzo Ducale). Carabinieri e poliziotti in libera uscita si accalcavano per vedere le prosperose bionde ragazze e le scazzottate, complice qualche birra di troppo, erano all’ordine del giorno.
Un’altra famosa birreria si trovava in Piazza Corvetto gestita dal figlio di un deputato prussiano coadiuvato da un singolare personaggio, un austero cameriere vestito in puro stile asburgico. Altre birrerie si trovavano in largo Zecca, vicino alla stazione Principe e in via Caffaro.
Il fascino e le mescite di quel periodo sono ormai un lontano e sbiadito ricordo, tuttavia esistono ancora in città deilocali dove si può parzialmente rivivere i bei tempi andati, in particolare vanno citati:
L’HofBrauhaus in via Boccardo dove ci si può immergere nella più calorosa atmosfera bavarese accompagnando la birra che si predilige ad un’ottima cucina che abbina ai classici wurstel e stinchi, piatti ricercati e raffinati.
Non da meno, in un’atmosfera invece british, sono il Britannia di Vico Casana dove, con un po’ di fantasia, si ha l’impressione di essere dentro ad un pub londinese, oppure nel cuore di Dublino, all’Irish pub di Vico della Croce Bianca in quello che, un tempo, era il quartiere del ghetto ebraico.
Lo stesso dicasi alla Foce per il Tartan pub di chiara impronta scottish solo che, anziché ascoltare le discussioni fra i supporters cattolici dei Celtics e quelli protestanti dei Rangers di Glasgow, si assiste ai coloriti sfottò fra tifosi genoani e sampdoriani.
Un posto particolare però, nella storia della birra a Genova, spetta al Birrificio di Busalla che da tempo si è conquistato una preziosa nicchia di mercato per la superiore qualità del suo prodotto.
La Fabbrica, nata nel 1905, si è guadagnata l’inserimento nel prestigioso elenco delle imprese Storiche, unico esempio in Liguria nel campo della produzione di birra artigianale.
Altrettanta importanza nella memoria imprenditoriale della Superba riveste il marchio Maltus Faber che ha infatti sede all’interno dello stabilimento di Via Fegino n. 3, sito storico per la birra genovese in quanto, all’inizio del ‘900, ospitava il complesso della Fabbrica di Birra Cervisia.
L’antico marchio venne acquisito dal gruppo Dreher che vi istituì anche una rinomata scuola per Mastri Birrai. Successivamente l’etichetta venne ceduta alla Heineken che, in breve tempo, ne cessò la produzione.
Percorrendo la litoranea fra Capo Noli e Finale, all’altezza di Varigotti, ci si imbatte in una curiosa figura scolpita, a picco sul mare, dall’erosione del mare e del vento.
La natura si è divertita a disegnare un fiero leone mentre scruta il mare. A questa scultura è legata la leggenda che narra di un tal Leone che, molti secoli fa prode marinaio della Repubblica di Noli, si era imbarcato verso l’Africa con la speranza di poter ammirare dal vivo l’esotico felino di cui portava il nome.
Fu così che, giunto sulle coste del Marocco, organizzò con gli indigeni una battuta di caccia che, dopo tre giorni, culminò con la cattura di un maestoso esemplare, dalla folta criniera, del re della Savana.
Leone decise di portare con sè il leone vivo come bottino di caccia per poterlo mostrare orgoglioso a parenti e amici.
Tra antilopi, gazzelle e bestie varie vivedi cui si nutriva e i lavori necessari alla manutenzione della grande gabbia lignea per alloggiarlo, Leone spese tutta la sua paga faticosamente guadagnata in quell’avventuroso viaggio.
Una volta giunto a destinazione, Il leone trasportato sulla collina delle Manie dove abitava il marinaio, ruggiva di continuo e con una potenza inaudita tale da spaventare tutto il vicinato nel raggio di parecchi chilometri.
Finalmente un bel giorno la belva riuscì ad evadere dalla sua gabbia e corse verso il mare da dove, proveniente dall’altra sponda del Mediterraneo, sentiva il malinconico e disperato richiamo della sua amata che, anch’essa, aveva attraversato il deserto per raggiungere la spiaggia. I lamenti della leonessa e i ruggiti del suo compagno infastidirono nonpoco la quiete di un mago che alloggiava lì vicino, in una delle caverne sottostanti la scogliera. Nonostante le rimostranze e le minacce dello stregone il leone non smise mai di ruggire tutto il suo dolore e di rispondere ai richiami della sua bella così questi lo trasformò, per ridurlo al silenzio, in pietra.
Lo si può ammirare, seduto sconsolato, fieramente proteso verso il mare a scrutare l’orizzonte in cerca del suo amore. Nei giorni in cui soffia forte il vento, se si passa da quelle parti, si può ancora oggi udire il doloroso richiamo della leonessa in cerca del compagno rapito… Il leone del Malpasso!
Gli abitanti di Tellaro avevano costruito una chiesetta vicino al mare. Lì avevano posto una sentinella con il compito di suonare a martello le campane in caso di pericolo. “Con questa tempesta nessuno metterà di sicuro la propria nave in mare. Stanotte posso dormire tranquillo”. Sicura di se, la sentinella si appisolò, felice di non dover stare con gli occhi aperti fino al mattino successivo. A mezzanotte in punto i pirati si avvicinarono alla riva. Proprio quando stavano per attraccare, le campane della chiesetta si misero a suonare, battere e rintoccare…
I Tellaresi si precipitarono a difendere il loro paese e ricacciarono in mare i pirati saraceni. Scongiurato il pericolo si chiesero chi avesse suonato la campana, visto che la sentinella dormiva fra le braccia di Morfeo? Ai piedi del campanile i tellaresi videro un enorme polpo attaccato alle funi delle campane: era stato lui a salvare il paese!
La leggenda trae origine da un avvenimento storico realmente accaduto nel luglio del 1660 quando un manipolo di pirati saraceni guidati da Gallo d’Arenzano tentò un fallito assalto al borgo. Una targa affissa all’esterno della chiesa di S. Giorgio celebra il leggendario episodio:
“Saraceni mare nostrum infestantes sunt noctu profligati quod polipus aer cirris suis sacrum pulsabat“.
Da allora i Tellaresi hanno adottato il cefalopode come simbolo del paese anche se, a dire il vero, non gli sono stati poi così grati visto che la sua preparazione culinaria è divenuta una presenza irrinunciabile sulle loro tavole.
Il polpo alla tellarese è una gustosa variante di quello lessato con le patate comune a tutta la regione e prevede nel condimento, a base di olio locale, l’aggiunta ad aglio e prezzemolo, di olive nere della riviera.