La Colonna Infame di Vico Tre Re Magi…

Il Vico dei Tre Re Magi prende il nome dall’omonimo Oratorio raso al suolo durante la seconda guerra mondiale.

L’Oratorio fu eretto nel 1365 e poi ricostruito in forme barocche nel 1611. Nei primi decenni del Novecento venne concesso a privati ed adibito a fabbrica di mobili. Alcune opere d’arte al suo interno sono state recuperate e conservate presso il vicino museo di S. Agostino, altre purtroppo, sono andate irrimediabilmente distrutte: degli affreschi di Lazzaro Tavarone, Luca Cambiaso e di Bernardo Castello di cui parlano gli storici dell’arte, non si ha più traccia.

Le vicende di questo edificio possono essere assurte ad emblema dell’ignoranza e della superficialità con cui i cementificatori del secolo scorso hanno gestito i beni comuni e distrutto interi quartieri dalla storia millenaria, cancellando le contrade dei Lanaioli, dei Servi, della Madre di Dio e della Marina.

Forse per questo gli abitanti del centro storico proprio qui, nel cuore di Sarzano, dove tutto un giorno ebbe inizio, hanno collocato la loro “Colonna Infame”.

Posta all’angolo con Via del Dragone (nello spiazzo dietro l’abside di S. Agostino) nella prima parte omaggia la più celebre descrizione della nostra città:

“… Arrivando a Genova / Vedrai Dunque / una Città Imperiosa, / Coronata da Aspre Montagne, / Superba per Uomini e per Mura, / Signora del Mare/ Francesco Petrarca 1358, a Cura dei Genovesi / del Centro Storico / Giugno 1990

Sotto prosegue…

“Male non Fare / Paura non Avere”. 1945 1981 – A Vergogna dei Viventi e a Monito / dei Venturi Come Usava ai Tempi / della Gloriosa Repubblica di Genova / Dedichiamo Questa / Colonna Infame / all’ Avidità degli Speculatori / e alle Colpevoli Debolezze / dei Reggitori della Nostra Città. Con Vandaliche Distruzioni Hanno / Cancellato Tesori di Arte e di Storia / Eliminando Interi Quartieri / del Centro Storico Marinaro ed Artigiano / Deturpando per Sempre la Fisionomia / della Città fino all’Inaudito Gesto / di Demolire la Casa Natale di Nicolò Paganini. Essi Hanno Così Disperso la Popolazione / di Questi Quartieri con l’Infame / Risultato di Sradicare le Fiere Tradizioni / che Fecero Genova Rispettata e Potente.

I Genovesi dei / Quartieri della. “Marina” / “Via Madre di Dio” / “Via del Colle” / “Portoria” / “Sarzano e Ravecca”.

… alla base della colonna, conclude poi con le amare parole di un grande musicista:

“Non ci Sarà Mai Più un Secondo Paganini” / Franz Liszt.

“La lapide posta sotto l’edicola della casa natale di Nicolò Paganini in Vico Gattamora”.

A proposito di Paganini in Vico Gattamora sotto l’edicola che ornava la casa natale del celebre violinista era affissa una lapide che recitava:

“Alta Ventura Sortita ad Umile Luogo / in Questa Casa/ il Giorno XXVII di Ottobre dell’Anno MDCCLXXXII / Nacque / a Decoro di Genova a Delizia del Mondo / Nicolò Paganini / nella Divina Arte dei Suoni Insuperato Maestro”.

Nostra Signora del Monte…

Sulla collina di San Fruttuoso si staglia il santuario di Nostra Signora del Monte, uno dei luoghi di culto più amati e frequentati dai genovesi.

“Il santuario di Nostra Signora del Monte”.

In origine, prima dell’anno mille, sul monte si trovava una piccola cappella votiva ma fu solo durante il XII sec. che si deliberò, così annota un antico atto notarile, la costruzione di un edificio molto più imponente.

La  versione in cui tuttora lo possiamo ammirare, che domina e protegge le alture, risale alla prima metà del ‘600. Fra il 1601 e il 1658 infatti subì una radicale ristrutturazione in stile greco-romano. Il progetto e gli affreschi della volta della navata principale sono di Giovanni Andrea Ansaldo, l’altare maggiore, in marmi policromi, è frutto della conclamata maestria dei fratelli Giovanni e Giovanni Battista Orsolino.

Durante l’assedio austriaco del 1746 il convento, in virtù  della sua strategica posizione, venne difeso strenuamente dai soldati della Repubblica che respinsero gli invasori.

“Vista mare dal sagrato”.

Secondo la tradizione, a seguito di strane apparizioni luminose, la Madonna in persona si sarebbe manifestata ai fedeli a partire dal 1440 con reiterate apparizioni anche nel ‘500.

Da allora il santuario venne intitolato dai francescani alla Madonna del Monte e divenne oggetto di pellegrinaggi ed ex voto di carattere, soprattutto, marinaresco.

Tale Madonna con immancabile Bambino venne rappresentata da una statua  lignea quattrocentesca, oggi ricoverata nella cripta, dell’artista senese Francesco Valdambrino. Al suo interno le cappelle vennero concesse in patronato a nobili famiglie patrizie quali Saluzzo, De Ferrari, Salvago, Adorno, Grimaldi, Fieschi, Negrone. Qui vennero sepolti tre dogi appartenenti a quest’ultima casata: Bendinello, Domenico, e G. Battista. Le tre tombe si trovano nella quarta cappella della navata di destra, quella detta di “S. Anna” perché un tempo, fino al 1812, custodiva il braccio della santa. La preziosa reliquia, dopo varie peripezie, a metà del ‘400, era stata qui ricoverata per sfuggire alle razzie dei turchi, proveniente dalla colonia di Pera. La santa viene qui effigiata in una pala d’altare opera di Domenico Fiasella.

“Sul risseu del sagrato i simboli della Madonna, dei francescani e lo stemma della Repubblica di Genova”. Foto di Leti Gagge.

 

Da qui si accede al secentesco chiostro  e alla sala degli ex voto. Nella cappella dei Salvago è possibile ammirare un pregevole polittico di un “Annunciazione” della seconda metà del ‘400 di mano anonima, in quella a destra del presbiterio, una notevole “Natività” di G.B. Carlone.

Da una porta in fondo alla navata di sinistra si accede alla sacrestia, locale in cui sono conservate opere d’arte che arricchirebbero la collezione di qualsiasi museo: tre dipinti, “S. Francesco d’Assisi”, “S. Antonio da Padova” e “S. Caterina da Siena”, di Bernardo Stozzi, una tela “L’albero di Jesse”, di Andrea Semino, una “Annunciazione”, di Giovanni Andrea Ansaldo e una “Flagellazione”, di Sebastiano del Piombo. Nel refettorio del convento, oltre ad un pulpito di ardesia, intarsiato con figure di Madonne e santi francescani, è possibile ammirare una splendida “Ultima Cena” del 1641, di Orazio De Ferrari, uno dei tanti insuperati maestri del ‘600 genovese, recentemente riportato agli onori dalle recensioni di Vittorio Sgarbi.

“Il sagrato in risseu”. Foto di Leti Gagge.

Affissa fuori sul sagrato della chiesa c’è poi una curiosa lapide che rammenta una battuta di caccia avvenuta il 2 agosto del 1785. Protagonista di tale targa è il re delle Due Sicilie Ferdinando IV di Borbone che, proprio come il “Geordie” di Faber, uccise tre cervi nei boschi ai piedi del monte.

Ultima curiosità al santuario si deve anche il nome dell’omonimo amaro, un digestivo a base di 36 erbe e spezie, preparato per secoli dai frati del convento. Sul finire dell’800 la ricetta dell’Amaro di Santa Maria al Monte, inalterata dal 1858, è stata affidata e brevettata dall’esperto liquorista Nicola Vignale. La produzione  è stata dislocata a distillerie esterne ed è oggi acquistabile in qualsiasi rivendita.

“Antica cartolina del santuario”.
“La creuza in salita di accesso al sagrato”.

Dal santuario si gode di un invidiabile panorama e di un punto di vista privilegiato. Genova onora la Madonna e si mostra in tutta la sua bellezza… forse per questo un tempo ogni nave che entrava in porto le rendeva omaggio sparando un colpo a salve di cannone!

“Il Cielo in una stanza”…

… Storia di predoni… di banditori… di catapulte… di cantautori…di case chiuse…

Varcato l’imponente accesso di Porta Soprana a sinistra si sale verso Via Ravecca, dritto si scende verso Salita del Prione e a destra si procede lungo Via di Porta Soprana. Tra queste ultime due, sul piano di S. Andrea, ci si imbatte in un anonimo caruggio, uno stretto vicolo dal curioso toponimo: Vico delle Carabaghe.

Un tempo fino agli anni ’50 del ‘900, come testimoniato dai versi di Camillo Sbarbaro e dai racconti di Remo Borzini e Giancarlo Fusco, questa era una contrada affollata di rinomate case di tolleranza.

Non si sa se l’origine del nome “Carabaghe”  ovvero il calarsi le braghe di popolare memoria sia dovuta alla vocazione erotica del quartiere oppure se sia legata all’etimo della vicina Salita del Prione dove, a far calare le braghe, erano invece i predoni. Secondo alcuni storici infatti il toponimo deriverebbe dal latino barbaro “Predoni Castri”, poi “Montata Castri” che stava ad indicare la pericolosità del luogo, in mano ai briganti.

Altri studiosi propendono invece per  un’altra versione che nulla avrebbe a che fare con quanto sopra affermato. In cima alla salita era posta una grossa pietra, “Prion”, sulla quale il cintraco, il banditore urlava i suoi proclami alla cittadinanza.

Quasi sicuramente invece l’interpretazione corretta deriva dal cinquecentesco utilizzo di piccole catapulte, denominate “calabrage”, che servivano per lanciare, sul nemico, oltre le mura, sassi di piccole dimensioni. Gli strumenti bellici venivano quindi, data la vicinanza alla Porta, ricoverati nell’attiguo caruggio che perciò ne assunse il nome, mutato nel tempo, in “carabaghe”.

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Salita del Prione. Foto di Giovanni Cogorno,

Al di là dei dibattiti sulla genesi della denominazione pochi sanno che in Vico dei Castagna, in fondo a Vico delle Carabaghe, il cantautore Gino Paoli trasse ispirazione, durante un suo incontro passionale, dalle pareti viole di un bordello, per scrivere la celeberrima “Cielo in una stanza” portata in auge da Mina.

Così, dall’amor profano e carnale, è nato quello romantico e poetico di “quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti, ma alberi, alberi infiniti…”

A proposito di congiure…

Certo le più celebri congiure, “mobbe” in genovese, sono quelle dei Fieschi del 1547 e di Vacchero del 1628 ma la storia parte da lontano, molto più lontano: la prima di una certa rilevanza di cui si ha notizia risale al 1164, al tempo delle divisioni fra Guelfi e Ghibellini, quando a farne le spese fu il Console Melchiorre della Volta, assassinato dagli esponenti della fazione opposta.

Altro episodio che merita di essere ricordato è legato a Simone Boccanegra, eletto nel 1339 primo doge della Repubblica.

Costui, invitato al sontuoso banchetto organizzato nella villa di Pietro Maloccello in onore del  suo prestigioso ospite il re di Cipro, morì “vox populi”, avvelenato. 

“Foto delle due lapidi di Via T. Reggio”. Foto di Giuseppe Ruzzin.

Fra l’Arcivescovado e palazzo Ducale c’è una strada intitolata ad un vescovo di Genova di fine’800, Tommaso Reggio, che è in realtà una galleria a cielo aperto di misfatti contro la Repubblica.

All’incrocio con Salita alll’Arcivescovato, ad angolo con palazzo Ducale, sono infatti affisse, ad eterno ricordo, due lapidi che raccontano:

la prima del tentativo nel 1648 ad opera di Gian Paolo Balbi di sovvertire l’ordine costituito e d’impadronirsi, con l’appoggio del Cardinale francese Mazarino, del governo della città.

Il nobile riuscì a scappare dalla sua condanna e terminò i suoi giorni ad Amsterdam, commerciando cioccolato.

“La Loggia degli Abati”.

“Ioanni Pavlo Balbi / Hominum Pessimo, Flagitys Omnibus Imbuto, / Impvro, Sicario/ Monetae Probatae, Adveriterinae, Tonsori, Conflatori / Insigni Fvri, et Vectigalivm Famoso Expilatori: / Ob Nefariam in Remp. Conspirationem /  Perdvelli Maiestatis Publicato, / Fisco Bonis Vindicatis, Filys Proscriptis, / Infami Poena Laqvei Damnato,  / Ad Aeternam Ignominiam Nefandae Svi Memoriae /  Lapis Hic Erectus.  / ANNO MDCL.

La seconda invece riferisce del tentativo ordito da Raffaele Della Torre nel 1672, in accordo con il Duca di Savoia, di assalire Savona e Genova calando dalla Val Bisagno. Fallita la “rassa” fu raggiunto e assassinato da un sicario della Repubblica a Venezia.

“Raphael De Turrio-v-y / Aliene Svbstantie Cvnctis Artibvs Exoilator/ Improbvs, / Homicida Predonvm Consors, et in Patrio Mari Pirata, / Proditor, et i Maiestatem Perdvellis, / Machinato Reip.ce Excidio, / Svpplicys  Enormitate Scelervm Svperatis/ Fvrcarvm Svspendio Iterato Damnatvs, / Adscriptis Fisco Bonis, Proscriptis Filys, / Dirvtis Immobilibvs, / Hoc  Perenni  Ignominie Monimento / Ex S.C. Detestabilis Esto. / Anno MDCLXXII.

Il copione è sempre lo stesso puniti con la condanna a morte i cospiratori, distrutte le proprietà, confiscati beni e ricchezze, esiliati i figli. Immortalata la loro vergogna da lapidi a eterno memento.

“Il Chiostro dei Canonici di San Lorenzo”.

Oltre a queste pietre dell’infamia, in via Tommaso Reggio, ve ne sono altre tre più recenti che raccontano il sacrificio, la prima nel 1833, di Jacopo Ruffini incarcerato nelle prigioni del Palazzetto Criminale, dentro la Torre Grimaldina, il ripristino, la seconda, del Campanone della Torre, i lavori di restauro la terza, del 1936 sotto la direzione dell’architetto Orlando Grosso.

“Uno dei due passaggi sopraelevati”.

Il Palazzetto Criminale, un tempo sede dell’Archivio di Stato, venne costruito a metà del XVI sec. su una delle quattro torri che costituivano, in origine, il palazzo del Comune. Al suo esterno degno di nota è il bel portale di pietra sormontato dallo stemma marmoreo di Genova: due eleganti e fieri Grifoni che reggono lo scudo della città.

Il Palazzetto è collegato sia all’Arcivescovado che al palazzo Ducale  da due ponticelli coperti che permettevano al Doge e all’Arcivescovo rapide vie di fuga e, soprattutto, garantivano la possibilità di muoversi indisturbati, all’interno delle stanze del potere, lontano da occhi indiscreti.

“Torre del Popolo o Grimaldina”.

Nella Via ha sede il Museo Diocesano il cui edificio venne costruito fra il 1176 e il 1184 come residenza dei canonici di San Lorenzo. Di particolare interesse il chiostro, frutto di diverse ristrutturazioni e stili nei secoli; due ali sono infatti medievali, due secentesche come, del resto, le relative sopraelevazioni. Trecentesca è invece la Loggia degli Abati ( in realtà ricostruita nel 1935 da O. Grosso), edificata su una preesistente proprietà dei Fieschi, per dare alloggio, appunto, agli Abati del Popolo.

Palazzo dell’Arcivescovado, Palazzetto Criminale, Torre Grimaldina, Loggia degli Abati, Museo Diocesano e Chiostro dei Canonici, osservate pure con il naso all’insù, ma guardatevi alle spalle, i traditori vi osservano dietro ad ogni anfratto!

In Copertina: la lapide che racconta le vicende di Gian Paolo Balbi.

Storia di un re… di una regina…

Il 1311 è un anno importante nella storia della Repubblica poiché, per la prima volta, Genova dilaniata dalle lotte intestine, si dà in signoria ad un sovrano straniero.

“Quel che resta del corpo principale del monumento a Margherita di Brabante di Giovanni Pisano”.

Nel gennaio di quell’anno infatti, Enrico VII di Lussemburgo (nome volgare Arrigo VII) viene incoronato in Sant’Ambrogio a Milano re d’Italia. Due sole città Genova (come in occasione del celebre “Abbiamo già dato” sbattuto in faccia a Federico Barbarossa) e Venezia rifiutano di pronunciare il giuramento di fedeltà fino a che non vengano garantiti loro gli antichi privilegi.

Re Enrico VII nomina suo Vicario a Genova Amedeo di Savoia, conferma le concessioni ai genovesi e mantiene inalterata la struttura governativa della città. Genova deve però contribuire al faraonico compenso del suo nuovo reggente corrispondendogli la cospicua cifra di quarantamila fiorini annui.

In ottobre, durante il suo viaggio a Roma, per la cerimonia d’incoronazione imperiale, il re passa per Genova dove, davanti a S. Salvatore, nella piazza di Sarzano viene accolto con tutti gli onori. Oltre al numeroso esercito ed al ricco seguito ad accompagnarlo c’è la sua sposa, la regina Margherita di Brabante. Ai due sovrani i genovesi, sotto forma di dono, regalano ottantamila fiorini d’oro.

Le due fazioni che, in quel periodo, si contendevano il governo della Dominante erano capeggiate da Opizzino Spinola e Guglielmo Fieschi i quali, in cambio dell’appoggio reale, avrebbero garantito al sovrano il completo dominio della città per 20 anni. Enrico VII, da accorto politico, chiede che sia l’assemblea popolare a ratificargli tale proposta. In questo modo podestà, abate del popolo e senato forniscono mandato al nobile Rolando di Castiglione per il conferimento per 20 anni della potestà di Genova.

Le lotte di parte, soprattutto fra Doria e Spinola, non cessarono ma in questo modo la Repubblica aveva manlevato parte delle proprie responsabilità, riversando su altri le proprie inettitudini e il sovrano, senza colpo ferire, aveva acquisito un importante territorio, una flotta invincibile ed un sacco di palanche.

Ma il prezzo che Enrico VII dovette pagare fu comunque più alto di quanto avesse potuto immaginare poiché, a causa della peste portata in città dalle sue truppe, il 13 dicembre di quell’anno in S. Domenico pianse l’amata sposa, morta a causa del morbo.

Quanto riferito da alcuni tardi cronisti, ovvero che Margherita fosse morta nel convento di S. Domenico assistita amorevolmente dai frati, risulta poco credibile, soprattutto se messo a confronto con la testimonianza di Albertino Mussato suo contemporaneo (che conobbe la coppia reale), secondo il quale la morte della regina sarebbe invece avvenuta fuori città «in palatio eredum Benedicti Zachariae».

La notizia è del resto compatibile con la possibilità che l’imperatrice, a causa della sua malattia, si trovasse al di fuori della mura urbane, che il sarcofago fosse privo di murature e di lapidi e che, secondo il volere di Enrico, esso dovesse essere trasferito in Germania. Ma era trascorsa appena una settimana dalla morte, che a Margherita già veniva attribuito il primo miracolo e le sue spoglie cominciarono a essere oggetto di un’intensa devozione popolare. La fama della sua santità si diffuse spontaneamente; voci di altre opere miracolose si propagarono finché, nel 1313, ella fu dichiarata beata.

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“A sinistra la Madonna priva di Bambinello del museo di S. Agostino, al centro la Giustizia di Palazzo Spinola, in basso a destra la Prudenza della collezione svizzera, in alto a destra la Temperanza di proprietà dei Doria”.
“Testa della Fortezza a Palazzo Spinola”.

Fu il culto rapidamente cresciuto intorno alla figura della consorte che indusse Enrico, presumibilmente, ad abbandonare l’idea di trasferirne i resti in patria. Anzi, nella primavera del 1312, quando egli era a Pisa, commissionò allo scultore Giovanni Pisano un monumento che celebrasse nel modo più splendido Margherita e le sue virtù. Ne è testimonianza un documento che stabilisce il pagamento di 80 fiorini d’oro all’artista pisano, come compenso per l’esecuzione della pregevole opera.

Margherita di Brabante venne dunque sepolta nel convento di San Francesco di Castelletto e il re incaricò il più grande artista del suo tempo, Giovanni Pisano perché scolpisse un monumento funebre che rendesse giustizia alla sua bellezza e bontà. L’imperatore era profondamente innamorato della sua compagna a cui rimase, vedovo inconsolabile, fedele fino alla fine dei suoi giorni avvenuta, causa malaria, nell’agosto del 1313 a soli 38 anni.

“La statua senza testa e Bambinello del museo di S. Agostino”.

Dopo i cinquecenteschi smembramenti del convento, con relativi trasferimenti e vicissitudini (grazie a Santo Varni, grande scultore genovese, nel 1874 il gruppo con Margherita venne ritrovato in un’anonima nicchia del giardino di Villa Brignole-Sale a Voltri) dal 1984 il monumento è esposto nel Museo di S. Agostino.

Scolpita in marmo apuano, la statua purtroppo non è integra, ma è mutila capo e mani, nell’ angelo di sinistra, braccio destro Margherita, testa, in quello di destra. L’artista la rappresentò splendida, più di quanto non fosse in realtà, immaginandola nel momento in cui appena rinata dopo la dipartita, per le sue virtù terrene, poté accedere direttamente al cospetto di Dio in tutta la sua radiosa bellezza e purezza.

“La Giustizia custodita nella galleria nazionale di Palazzo Spinola in Pellicceria”.

Oltre alla figura principale della regina sorretta dagli angeli, facevano parte del gruppo originario una piccola statuetta di Madonna, oggi priva di testa e senza Bambino visibile sempre nel museo di S. Agostino, una statua della “Giustizia” in buono stato e un altra della “Fortezza” con solo la testa, conservate a palazzo Spinola in Pellicceria. La testa della “Prudenza” fa parte di una collezione privata svizzera, quella della “Temperanza” appartiene alla famiglia Doria.

“Monumento funebre di Enrico VII, nella cattedrale di S. Maria Assunta di Pisa, eseguito dal maestro pisano Tino Camaino”.

”La regina Margherita di Brabante sollevata al cielo da due angeli” questo il titolo completo del mausoleo di Giovanni Pisano, oltre ad essere  l’ultima opera, il capolavoro dell’artista toscano, probabilmente è la più importante scultura funebre di tutto il Medioevo.

“La Passio di S. Lorenzo”…

Posto sull’architrave del portale principale della cattedrale di Genova si trova un bassorilievo datato alla prima metà del XII sec.

La scultura rappresenta San Lorenzo disteso orizzontalmente su una graticola, ai lati due addetti che attizzano le braci con i mantici, sovrano e popolo che assistono al martirio.

In questa splendida immagine viene mirabilmente condensata la “Passio di San Lorenzo”:

“Cattedrale di S.Lorenzo in notturna”. Foto di Leti Gagge.

Lorenzo era un giovane diacono che, stretto collaboratore di Papa Sisto II, venne insieme al Pontefice perseguitato sotto il regno di Valeriano. Per volere dell’imperatore infatti era stata emanata un’ordinanza che disponeva l’esecuzione immediata per decapitazione di tutti i  membri del clero che non avessero abiurato. Le terribili sentenze vennero eseguite per il Papa, il 6 agosto (S. Sisto tanto caro ai genovesi vincitori in quel giorno alla Meloria) lungo la Via Appia, il 10 agosto per il suo diacono, presso la Tiburtina. Secondo la tradizione Costantino onorerà quel luogo con l’erezione della maestosa basilica di San Lorenzo al Verano fuori le mura.

E’ intorno al IV sec. che iniziò a diffondersi la leggenda che Lorenzo fosse morto non per decapitazione ma arso vivo. Numerosi agiografi si occuparono della vicenda che, per quanto riguarda Genova, iniziò nel momento in cui Jacopo da Varagine ce ne tramandò il passaggio, durante il trasferimento dalla Spagna a Roma, in città.

I due futuri santi sostarono in preghiera in una piccola cappella sul Broglio, proprio nel luogo dove oggi sorge la superba cattedrale.

Scrive Jacopo: al prefetto Decio (futuro successore di Valeriano) che gli  intimò: ”Sacrifica agli dei o passerai questa notte fra i tormenti, Lorenzo rispose: ”La mia notte non è oscura, ma tutta raggiante di splendore”. L’imperatore furibondo ordinò che fosse portato qua un letto perché “vi riposi l’empio Lorenzo”. Il Santo venne disteso sulla graticola sotto la quale venne acceso il fuoco. Ma Lorenzo, proprio come molti secoli dopo farà Giordano Bruno con i suoi inquisitori, sfidò Valeriano: ”Sappi miserabile, che questi carboni ardenti mi sono di refrigerio: ma per te sono pegno di pena eterna” poi, rivolto a Decio, proseguì: ”Mi hai abbastanza abbrustolito da una parte, ora rigirami dall’altra parte e mangiami”. Lorenzo rese grazie al Signore dicendo: ”Ti ringrazio Gesù, perché ti sei degnato di aprirmi le porte del tuo regno!” e morì.

San Lorenzo insieme a San Giovanni Battista, S. Giorgio, San Bernardo e S. Siro è uno dei cinque santi patroni e protettori della Superba.

“Le spade nel pugno, gli allori alle chiome…”

… recita uno dei versi dell’Inno di guerra di Garibaldi “All’armi! all’armi!” scritto da L. Mercantini. Chi più di Gerolamo “Nino” Bixio personifica quest’immagine?

Nel cuore del quartiere di Carignano, in Piazza R. Piaggio, si trova il monumento innalzato al generale garibaldino. Occultato alla vista, lato Via Corsica ricoperto da frasche, come oggi costume diffuso, custodito nel più completo abbandono, fra panchine e ringhiere divelte, fu inaugurato nel 1952, opera della maestria di Guido Galletti.

La statua marmorea gli venne commissionata per sostituire quella primitiva in bronzo, eseguita nel tardo ‘800, dallo scultore Enrico Pazzi, andata distrutta durante il bombardamento del 1940.

Il braccio destro di Garibaldi, avventuroso marinaio e coraggioso soldato, venne immortalato nel fiero atto di sguainare la spada.

Lo scultore londinese di nascita, ma genovese d’adozione lasciò altre preziose testimonianze della sua arte in città e in Liguria quali, ad esempio, “Il Cristo degli Abissi di Camogli”, la statua del “Padre Santo” delle Grazie, quelle rappresentanti “L’Ardire” sopra la galleria Bixio del Portello e il monumento funebre del Cardinale Pietro Boetto nella Cappella di S. Giovanni in cattedrale.

“Cartolina del 1907 che illustra la statua scolpita da Enrico Pazzi”.

I figli di Genova meriterebbero maggior rispetto e considerazione, per lo meno dai loro concittadini!

Foto di Bruno Evrinetti.

“Il Vecchio e il Mare”…

Il celebre cronista americano capitò varie volte in Liguria, a Genova, in Val Trebbia e a Rapallo in particolare. Da Genova infatti nel 1918, al termine della prima guerra mondiale, si era imbarcato per tornare in patria. Interessante, anche se non propriamente edificante, è la descrizione che ne fece lo scrittore americano nel  1922 in “Che cosa ti dice la patria”: ”Pioveva a dirotto quando passammo per i sobborghi di Genova e anche andammo molto piano dietro ai tram e ai camion, il fango schizzava sul marciapiede così che la gente si affrettava a rifugiarsi nelle porte delle case quando ci vedeva arrivare. A San Pier D’Arena, il sobborgo industriale di Genova, c’era una larga strada con delle rotaie da una parte e dall’altra, e ci tenemmo nel mezzo per evitare d’infangare gli uomini che tornavano a casa dal lavoro. Alla nostra sinistra avevamo il Mediterraneo. C’era mare grosso, le onde si rompevano e il vento ne portava gli spruzzi fino all’automobile. Il letto di un fiume che quando eravamo passati venendo in Italia era largo, asciutto e pieno di pietre, adesso scorreva in piena e l’acqua arrivava fino agli argini. Quest’acqua fangosa scolorava in quella del mare e quando le onde rompendosi si assottigliavano e diventavano bianche, anche l’acqua gialla si schiariva e fiocchi di spuma, portati dal vento, volavano attraverso la strada.

“Lo sguardo sornione e beffardo di Ernest Hemingway”.

Una grossa automobile ci sorpassò ad alta velocità e una cortina d’acqua fangosa ricoperse il parabrezza e il radiatore. Il tergicristalli automatico si muoveva avanti e indietro appannando il vetro. Ci fermammo a mangiare a Sestri (Ponente). Non c’era riscaldamento nella trattoria e tenemmo addosso pastrano e cappello. Potevamo vedere la macchina fuori, attraverso la finestra. Era coperta di fango e stava accanto a barche tirate a secco lontano dalle onde. Nella trattoria il nostro fiato faceva nuvolette.

La pasta asciutta era buona; il vino sapeva d’aceto (qui concorda con Magone) e lo allungammo con l’acqua. Dopo il cameriere portò una bistecca con patate fritte. Un uomo e una donna sedevano all’estremità più lontana della sala. Lui era un uomo di mezza età e lei giovane e vestita di nero. Durante tutto il pasto si vide il suo respiro nell’aria fredda e umida. L’uomo la guardava e scuoteva la testa. Mangiavano senza parlare  e lui le stringeva la mano sotto la tavola. La donna era bella ed entrambi sembravano tristi. Avevano vicino una valigia.

Avevamo i giornali e lessi forte a Guido (l’autista) il resoconto dei combattimenti a Shangay. Dopo mangiato, Guido uscì col cameriere in cerca di un posto che nella trattoria non esisteva e io pulii con uno straccio il parabrezza, i fanali e la targa posteriore. Quando Guido tornò voltammo la macchina e partimmo. Il cameriere lo aveva portato dall’altra parte della strada in una vecchia casa. Le persone che l’abitavano erano molto sospettose e il cameriere era rimasto con lui per vedere che non rubasse niente”.

Nel febbraio del 1923, Hemingway, giunto nel Tigullio in compagnia della prima moglie Hadley, per una fugace vacanza, descrisse una piovosa giornata invernale trascorsa nell’hotel Riviera di Rapallo in un breve racconto intitolato “Il Gatto sotto la pioggia”.

C’erano solo due americani alloggiati in quell’albergo… La loro camera era al primo piano e dava sul mare. Dava anche sul giardino pubblico e sul monumento ai caduti.

«La loro stanza era al primo piano – dicevamo – e dava sul mare. Dava anche sul giardino pubblico e sul monumento ai caduti. Nel giardino pubblico c’erano grandi palme e panchine verdi. Col tempo bello c’era sempre un pittore col suo cavalletto. Ai pittori piaceva come crescevano le palme, e i vivaci colori degli alberghi affacciati sul giardino pubblico e sul mare. Gli italiani venivano da lontano a vedere il monumento ai caduti, che era di bronzo e luccicava sotto la pioggia. Pioveva. La pioggia gocciolava dai palmizi. L’acqua stagnava nelle pozzanghere sulla ghiaia dei sentieri. Il mare si rompeva in una lunga riga sotto la pioggia e scivolava sul piano inclinato della spiaggia per tornare su a rompersi di nuovo in una lunga riga sotto la pioggia. Le macchine erano sparite dalla piazza vicino ai monumento. Oltre la piazza, sulla soglia del caffè, un cameriere stava guardando fuori verso la piazza deserta».

 Ernest era innamorato del clima e della bellezza dell’Italia e amava la Liguria.  Con la moglie lo scrittore si fermò a Rapallo, in quegli anni uno tra i più vivaci centri della cultura mondiale, per trascorrere qualche giorno in compagnia di Ezra Pound.

Anche Jan Sibelius, Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud, Butler Yeats ed Hermann Hesse erano assidui  frequentatori  del  Tigullio.

“Spencer Tracy protagonista della versione cinematografica nel 1958 del Vecchio e il Mare”.

 Nel 1945 ancora al seguito dell’esercito americano, nelle vesti di corrispondente di guerra americano nei giorni successivi alla liberazione, attraversò la Val Trebbia e la Val D’Aveto, luoghi dove era già stato in uno dei suoi viaggi nel 1927. Partito da Chiavari e diretto a Piacenza, fu anzi costretto a fermarsi una ventina di giorni in zona Vicosoprano.  Fu in quell’occasione che scrisse una frase destinata restare storica e a rendere legittimamente orgogliosi i valligiani: «Oggi ho attraversato la valle più bella del mondo» – con riferimento a entrambe le vallate che (Aveto e Trebbia) dal punto di vista di un americano erano la continuazione l’una dell’altra.

Nel 1948 tornò ancora a Genova dove, all’apice del successo, ormai venerato intellettuale, non passò di certo inosservato, vedendolo scorrazzare su e giù per la Riviera a bordo di una vistosa Buick azzurra decapottabile. L’anno successivo Hemingway soggiornò per l’ultima volta a Genova. Ormai era giunto il tempo per lo scrittore di tornare a Cuba e comporre il suo romanzo capolavoro, chissà, magari anche in piccola parte ispirato dalle nostre atmosfere, “Il Vecchio e il Mare”.

 

“Il lupo della steppa… o di mare?”…

Hermann Hesse spesso, in attesa d’imbarcarsi per i suoi frequenti viaggi in oriente, sostò nella nostra città. 

Il grande poeta tedesco, sublime pittore non solo con le parole ma anche con il pennello dei  suoi natii panorami montanari, scoprì la Superba e, lo dice lui, se ne innamorò. Comprese la differenza fra la limitatezza delle prospettive lacustri, a cui era intimamente legato, e l’infinita, smisurata apertura dell’orizzonte marino, inteso come metafora di nuovi spazi da scrutare e sogni da rincorrere.

La Liguria diviene allegoria del viaggio interiore. Nel suo primo romanzo di un certo successo del 1904, intitolato “Peter Camenzind”, il futuro premio Nobel per la letteratura del 1946, scrive:

“Acquerello di paesaggio alpino di H. Hesse”.
“Il poeta amava scrivere, verseggiare, dipingere, prendere appunti all’aria aperta”.

 “A Genova mi arricchii di un altro grande amore. Era una limpida giornata ventosa, appena dopo mezzogiorno. Avevo appoggiato le braccia ad un largo parapetto: Genova ricca di colori si stendeva alle mie spalle, mentre sotto di me vivevano e si ingrossavano i grandi flutti azzurri del mare. Il mare. Con il suo cupo mugghiare e i suoi desideri  incompresi  l’eterno ed immutabile mi si avventava contro, ed io avvertii in me stringere eterna amicizia, per la vita e per la morte, con quei flutti azzurri e schiumosi. Altrettanto fortemente mi commosse l’ampio orizzonte marino. Nuovamente rividi, come  già nella mia  fanciullezza, l’odorosa azzurra lontananza che mi aspettava invitante simile ad una porta aperta… Per uno oscuro impulso crebbe dentro di me l’antico e doloroso desiderio di gettarmi fra le braccia di Dio ed affratellare la mia povera esistenza all’infinito ed all’eterno”.

Ed eccolo l’incontro concreto con il mare:” A Rapallo lottai per la prima volta contro le onde del mare, e nuotando assaggiai l’acre sapore dell’acqua salata, e provai la potenza dei flutti. Tutto attorno onde azzurre e chiare, scogli color avana, un cielo profondo e tranquillo, e l’eterno, incessante rumoreggiare delle acque.

“Copertina del romanzo Peter Camenzind”.

La vista delle barche che scivolavano al largo sull’acqua, con  la loro nera alberatura e le vele bianche, o il piccolo pennacchio di fumo di un piroscafo che passava lontano mi colpiva ogni volta… Oltre alle mie predilette, le irrequiete nuvole, non conosco simbolo dell’ardente brama di errare per il  mondo più bello e più pregnante di quello di una nave, che passa a grande distanza, diventando sempre più piccola sino a scomparire nell’orizzonte aperto”.

“Per chi suona la campana”…

“Genova a metà del XV sec.”.
Da notare oltre alla Torre dei Greci, sorella minore della Lanterna a destra dell’ingresso del porto, sul Molo Vecchio, le due torri della Darsena, il Castelletto, e la particolare copertura piramidale di S. Lorenzo.
Incisione in legno realizzata nel 1493 dalla bottega di Michael Wolgemut e successivamente colorata a mano.
Per il “Liber Chronicarum” (Cronache di Norimberga) di Hartmann Schedel, stampato a Norimberga il 12 luglio 1493 da Anton Krobergerl.
“La torre campanaria di destra, terminata nel 1522 da Pietro Carlone da Osteno”. Foto di Leti Gagge.

Nel progetto di ampliamento trecentesco della cattedrale di S. Lorenzo le torri campanarie avrebbero dovuto essere due. Causa la morte di colui che le aveva progettate solo una, quella di destra che ancora oggi, con i suoi 60 metri domina il centro storico, venne portata  a termine nei primi decenni del ‘500. Dell’altra, quella di sinistra, non rimane altro che, nella configurazione tuttora visibile, il basamento sormontato dall’elegante loggiato quattrocentesco. Come testimoniato dalla xilografia datata 1493 di Michael Wolgemut, la più antica rappresentazione della città, a quel tempo non esisteva nemmeno la cupola, progettata poi nel ‘500 dall’Alessi, ma solo, al suo posto, una curiosa copertura piramidale. Poco distante nei paraggi della Cattedrale si diramano un Vico ed una Piazza intitolati alla famiglia dei Valauri, o Valori, Piazza e Vico Valoria.

Costoro, che erano i campanari della chiesa di S. Lorenzo, vi si stabilirono e tramandarono il mestiere per oltre due secoli, probabilmente aggregandosi alle numerose maestranze normanne ed antelamiche che operarono alla cinquecentesca ricostruzione del Duomo. Sette, di epoche e provenienze diverse, le campane che i Valauri suonavano con perizia, scandendo il tempo, gli avvenimenti e le cerimonie della città.

“La copertina di Le Campane, il secondo dei cinque racconti scritti ed ispirati a Genova a partire dal 1844. Gli altri quattro sono il celeberrimo Racconto di Natale, il Grillo del focolare, la battaglia della vita e il patto con il fantasma”.
“Piazza Valoria, la dimora dei campanari di San Lorenzo”.

Sull’abilità dei campanari genovesi, a dire il vero, Charles Dickens la pensava diversamente. Durante uno dei suoi soggiorni genovesi, infatti, rimase infastidito dal fracasso dei campanari delle chiese di Albaro. Nel momento in cui si era seduto al tavolo con la ferma intenzione di lavorare, era salito dalla città un tale frastuono di campane da farlo impazzire. Il vento gli aveva portato tutti i rintocchi dei campanili di Genova e le sue idee si erano messe a vorticare fino a perdersi in un turbinio di irritazione e stordimento. Scrive: «…specialmente nei giorni festivi, le campane delle chiese suonano incessantemente; non in armonia, o in qualche conosciuta forma sonora, ma in un orribile, irregolare, spasmodico den den den, con una brusca pausa ogni quindici den o giù di lì; una cosa da impazzire.»., «…avere trovato il titolo e sapere come sfruttare lo spunto delle campane è una gran cosa. Che mi assordino pure da tutte le chiese e conventi di Genova, ormai: non vedo altro che la cella campanaria di Londra in cui le ho collocate…».

Lo scrittore anglosassone ne trasse dunque ispirazione per comporre uno dei suoi celebri cinque racconti di Natale intitolato, appunto, “Campane” in cui il protagonista vede dipanarsi i principali eventi della propria esistenza, ritmati dai rintocchi, in un’atmosfera onirica, dei bronzei batacchi.

“I Mille all’imbarco a Quarto dei Mille>”.

Ultima curiosità, al civico n. 4 della piazza aveva sede lo studio fotografico di Alessandro Pavia, colui che riuscì ad immortalare i ritratti di tutti i 1092 garibaldini facenti parte della spedizione dei Mille.

In Copertina: Piazza dei Valoria. Foto di Leti Gagge.