“Finalmente, morti di sonno, fradici mezzi e con tanto di occhiale, arrivarono alla bellissima e splendida città di Genova; e una volta sbarcati nel suo ben riparato Mandracchio, dopo aver visitato una chiesa, il capitano insieme con tutti i suoi camerati andarono a finire in un osteria dove, con il “gaudeamus” presente, cancellarono dalla memoria tutte le burrasche passate. Lì conobbero la soavità del Trebbiano, la forza del Montefiascone, la robustezza dell’Asprino, la generosità di due vini greci di Somma e di Candia, il valore di quello delle Cinque Terre, la dolcezza e la placidità della signora Vernaccia, la rusticità della Cèntola, senza che inmezzo a tutti questi signori osasse far capolino la volgarità del romanesco. E quando l’oste ebbe compiuto la rassegna di tanti e così diversi vini , si offerse di far comparire lì, senza ricorrere ad alcun trucco e non come se fossero dipinti su d’un foglio, ma reali e sinceri, il Madrigal, il Coca, l’Alaejos e il vino della imperiale più che imperiale città di Ciudadreal, ostello del Dio della risata. E offerse ancora l’Esquivias, l’Alanìs, il Cazalla, il Guadalcanal e il Membrilla, senza dimenticare il Ribadavìa e i Descargamarìa. Insomma l’oste nominò più vini e più ne mise in tavola, di quanti abbia mai potuto averne nelle sue cantine Bacco in persona. Stupirono il buon Tommaso anche i biondi capelli delle Genovesi, e il bell’aspetto e la cortesia degli uomini, la bellezza meravigliosa della città, che su per quelle rocce pare che sia fatta di case incastonate come i diamanti nell’oro”.
Il brano inizialmente autobiografico è tratto da un racconto delle “Novelle Esemplari” di Cervantes “Il dottor Invetriata” in cui il protagonista Tommaso Rotella, un giovane intelligente ragazzo che, dopo aver conseguito la laurea in materie umanistiche nella facoltà di Salamanca, intraprende la carriera militare prendendo parte a diverse avventure cavalleresche un po’dappertutto in Europa. L’autore del “Don Chisciotte” infatti aveva partecipato a diverse spedizioni militari in un corpo di fanteria e combattuto nella celebre battaglia navale di Lepanto del 1571, in occasione della quale, causa una brutta ferita, perse l’uso della mano sinistra.
Dopo aver elencato l’incredibile varietà di vini presenti in città, testimonianza dell’ineguagliabile opulenza dei commerci della Superba, il poeta spagnolo prosegue lamentando l’attaccamento alle palanche dei genovesi giocando sull’equivoco della parola “conto” inteso sia come racconto di una storia (contà in genovese) e calcolo, ovvero conteggio di denaro.
“Sui marciapiedi di San Francesco s’era riunito un crocchio di Genovesi; e, mentre egli (Tommaso Rotella) passava di lì, uno di loro lo chiamò dicendo: “Venga qua, signor Invetriata, e ci conti qualche cosa”.
E rispose: “Niente affatto, se conto qualche cosa me lo portate a Genova”.
Cervantes ebbe a dire che Napoli, fra tutte le città, era “la migliore d’ Europa, anzi del mondo” ma se era rimasto incantato dalla bella Partenope alla stessa maniera il suo palato aveva apprezzato le fornite osterie della città di Giano.
In un paio di scritti Giordano Bruno fa riferimento ai suoi soggiorni nei territori della Repubblica di Genova, nella Superba in particolare, e a Noli anch’essa Repubblica alleata e sotto sovranità genovese.
Il filosofo campano proveniva da Roma da dove si era dileguato avendo ormai compreso che il processo intentatogli dall’Inquisizione con l’accusa di eterodossia, non volgeva a suo favore.
In un primo momento si era diretto verso le città lombarde ma, causa una violenta epidemia che stava flagellando quelle terre, virò verso Genova dove rimase colpito, lui così razionale, dall’ingenua creduloneria dei fedeli.
Siamo nell’aprile del 1576 nella settimana antecedente la domenica delle Palme e il monaco domenicano entrò, ce lo racconta lui stesso ne “Lo spaccio della bestia trionfante”, in contatto con i membri del suo stesso ordine di S. Maria di Castello: “Ho visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo non toccate, baciate, questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolima. Adoratela, baciatela, porgete limosina: centum accipietis, et vita aeternam possidebitis”.
Di questa preziosa reliquia il filosofo ne parla ancora per bocca di uno dei protagonisti de “Il Candelaio” che, entrando in scena, giura sulla: “benedetta coda dell’asino che adorano i genovesi”.
Da tale illustre testimonianza si deduce che, in occasione della commemorazione dell’entrata in Gerusalemme di Gesù a cavallo di un’asina (o asino, o cavallo, cavalla?), i religiosi domenicani di S. Maria in Castello mostravano la preziosa reliquia ai fedeli.
Di codesta vicenda a Genova non si ha più traccia e i resti dell’animale hanno percorso altre strade fecondando nuove leggende. A Verona, ad esempio, si narra che Cristo, una volta entrato in Gerusalemme, volle che l’asino tornasse libero per il resto dei suoi giorni. Il quadrupede vagò in paesi stranieri e, laddove era necessario attraversare il mare, l’acqua s’induriva come il cristallo, permettendone il passaggio. Fu così che visitò Cipro, Rodi, Creta, Malta, la Sicilia, costeggiò tutto l’Adriatico fino al golfo di Venezia fermandosi nel punto esatto in cui, sarebbe poi sorta la nostra opulenta rivale. Alla bestia però non doveva essere piaciuta quella zona insalubre e paludosa poiché riprese il cammino guadando l’Adige fino a raggiungere Verona, meta ultima del suo lungo peregrinare, dove visse ancora a lungo. Una volta morto gli furono tributate sfarzose esequie e i suoi resti mortali furono conservati dai devoti di quella città nel ventre di un asino artificiale fatto costruire apposta. Questa statua esiste tuttora ed è custodita nella chiesa della Madonna degli Organi dove, quattro dei più robusti monaci del convento, vestiti in pompa magna, la portano in solenne processione.
Tale scultura in legno, opera del XIV sec. è detta della “Musseta” (“Muletta”).
Leggenda narra che la statua si fosse arenata sulle rive dell’Adige, di fronte alla chiesa, e che contenesse al suo interno la pelle dell’asino che aveva trasportato Gesù quando era entrato a Gerusalemme.
Questa epopea aveva incuriosito anche Voltaire che nel suo “Dizionario filosofico” tenta di spiegare razionalmente questa favola con il fatto che la maggior parte degli asini porta sulla schiena una sorta di croce nera sul pellame della schiena. Probabilmente fu notata una croce più evidente delle altre, venne messa in giro la diceria che quello fosse l’asino sacro sul cui dorso Gesù aveva cavalcato e, una volta morto, gli tributarono solenni funerali. Così, secondo il celebre enciclopedista, sarebbe nata la leggenda dell’asino di Verona e, da qui, si sarebbe poi diffusa in Francia dove, questa favola veniva addirittura raccontata durante la messa, al termine, della quale il prete si metteva a ragliare forte per ben tre volte e il popolo gli rispondeva in coro. Un esperto di reliquie francesi Collin de Plancy affermava che: “benché gli abitanti di Verona si vantassero di possedere per intero le reliquie dell’asino di Gesù Cristo, veniva mostrata a Genova, come un prezioso gioiello, la coda dello stesso asino”.
Giordano Bruno da Genova si diresse a Noli dove si mantenne insegnando grammatica “Andai a Noli, territorio genovese, dove mi intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la grammatica a’ figliuoli e leggendo la “Sfera” a certi gentiluomini”.
Il “De Sphera Mundi” era un trattato del XIII sec. opera di un monaco domenicano inglese, illustre professore alla Sorbona di Parigi, tornato di moda al tempo del filosofo campano, proprio per sostenere le tesi tolemaiche contro quelle copernicane sbandierate da Giordano Bruno stesso e dai liberi pensatori come lui. Conoscendo il coraggio e l’intelligenza del filosofo è probabile che questi non si sia limitato a spiegare quel trattato, assai in voga nelle scuole, ma che si sia adoperato per smontarne il contenuto punto su punto. “Eppoi me partii de là (Noli) e andai prima a Savona, dove stetti circa quindici giorni: e da Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il Po”.
Da Venezia viaggiò in tutta Europa rafforzando e diffondendo sempre più le sue tesi rivoluzionarie e destabilizzanti per la chiesa cattolica: in Savoia, in Francia, Inghilterra, Germania, Praga, Svizzera, quindi di nuovo a Venezia infine a Roma dove il 17 febbraio sarà arso vivo in Campo dei Fiori.
“Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla”, furono le sue celebri ed ultime parole.
La sua coscienza si è affidata al giudizio della Storia dalla quale è stato assolto mentre gli uomini continuano a ragliare come asini.
«Li nostri divi asini, privi del proprio sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei, o dei vicarii loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di que’ medesimi. » (Cabala del Cavallo Pegaseo).
Un giorno un capitano svedese ebbe una terribile avventura: nel Golfo del Leone la sua nave, sballottata tra montagne liquide, non resse ed affondò. Poco distante, a lottare contro lo stesso fortunale, si trovava un grande veliero italiano al comando, manco a dirlo di un camoglino. L’ufficiale genovese, pur così impegnato a difendere la propria nave, la propria vita e quella dei propri marinai, trovò il modo e il coraggio di salvare, con un’arrischiatissima, quasi disperata manovra, gran parte dell’equipaggio svedese. Il capitano camoglino ricevette in premio una medaglia e un orologio d’oro dal Re di Svezia in persona, con una dedica incisa nell’interno della cassa della marineria svedese, nonché la riconoscenza imperitura del suo omologo scandinavo.
Il capitano svedese era un tipo alto, massiccio, biondo con gli occhi azzurri, il volto cotto dalla salsedine e arrossato dal sole. Da quel giorno non smise più di onorarel’Italia con un brindisi intonando un sincero e genuino “Skal” di ringraziamento ai camoglini che lo avevano salvato.
Qualche tempo dopo quel capitano fece ritorno, durante uno dei suoi frequenti viaggi, a Genova e si presentò ad una cena a cui era stato invitato, con un occhio gonfio e un evidente strappo alla sua giacca di panno blu.
Dopo essersi scusato per il ritardo con i padroni di casa spiegò che si era picchiato in porto, lui così contegnoso e serio, con quattro marittimi ubriachi, probabilmente tedeschi, che avevano osato oltraggiare a voce alta l’Italia. Lui che a quel Paese doveva la vita, non poteva permetterlo e si era lanciato da solo contro di loro stendendoli al tappeto, così recitano le cronache del tempo. Quel fiero capitano svedese, degno erede dei suoi avi vichinghi, si chiamava Helmer Wykburg.
Grande eco e risalto ebbe in quel periodo l’affondamento al largo di New York della nave italiana, partita da Genova, “Andrea Doria”. La causa fu proprio una collisione con una nave svedese, la “Stockholm”. Per l’occasione il capitano scandinavo fece pervenire ai suoi amici genovesi la seguente lettera scritta in un fluente italiano:
“Caro gentile amico, la prego accogliere la mia viva simpatia e l’espressione del mio sincero dolore per il tragico affondamento della vostra nave più bella e più grande: l’ “Andrea Doria”. E prego di non credere che tutti gli svedesi abbiano prestato fede alle notizie circa un cattivo comportamento dei marinai italiani che sappiamo tanto coraggiosi e generosi. Gli svedesi, che conoscono il mare come voi italiani, e sanno quante dure battaglie vi si debbano affrontare, hanno avuto tante prove di questo coraggio e di questa generosità. Io non sono che un cittadino qualunque di Svezia, ma come tale mi dico mortificato per quanto alcuni giornali hanno pubblicato. Non discuto la colpa della sciagura che verrà stabilita dall’inchiesta, ma escludo che si possano fare accuse al contegno dei marinai italiani dopo la terribile sciagura. Questo volevo dirvi a nome mio e di tanti altri svedesi che amano l’Italia, quasi una seconda patria e che stimano profondamente gli italiani”.
Goteborg 25 luglio 1956
Helmer Wykburg …
Questa è la storia del Capitano Helmer… Helmer Wykburg.
La storia del salame di S. Olcese è sostanzialmente “cosa loro”, dei Cabella e dei Parodi le due famiglie che, da oltre un secolo, se ne contendono la paternità.
Nei primi decenni dell’Ottocento la fama di questo salume varcò i bucolici confini della Val Polcevera per invadere sapidamente le tavole inurbate dei genovesi.
L’abbinamento con le fave divenne binomio imprescindibile di qualsiasi scampagnata primaverile. Ancora oggi infatti, nel genovesato, non si contano le sagre che, da aprile in poi, celebrano il gustoso connubio. Dato l’aumento della domanda i due salumifici estesero la loro richiesta di forniture alle valli limitrofe, Valle Scrivia, Stura, Bisagno e basso Piemonte o, come dico io, alta Liguria, dalle quali approvvigionarsi delle materie prime, le carni.
Il gustoso insaccato è frutto dell’armonica fusione in parti variabili di carne suina (di Piemonte ed Emilia) e bovina del Piemonte (astigiano, alessandrino, cuneense). Il salame, nonostante la scontata evoluzione tecnologica, tuttora viene essiccato a legna,legato a mano e segue fedele l’antica ricetta che prevede l’aromatizzazione a base di aglio e vino bianco del Polcevera.
Entrambe le famiglie vantano documentati diritti di primogenitura. I Parodi hanno fondato l’impresa nel 1890, mentre i Cabella hanno iniziato nel 1911. Secondo i Cabella a fare fede però è la registrazione in Camera di Commercio e la loro risulta essere la prima. Se poi si discute sulla primitiva produzione casareccia tutto è opinabile e ciascuna delle due parti in causa rivendica la precedenza.
L’ultima controversia tra le due famiglie che si rispettano ma non si frequentano, l’una i Parodi a nord del paese, l’altra i Cabella a sud è proprio legata alla ricetta base. i Parodi e i Cabella hanno tesi diverse, i primi ci metterebbero più suino, i secondi più bovino. Discordi su questo punto focale non hanno trovato un punto d’incontro e quindi il salame di S. Olcese non ha ottenuto la benedizione europea che esigeva una codifica ufficiale della ricetta. Niente ricetta-base nero su bianco, niente benedizione, denominazione e tutela europea.
Pazienza, a S. Olcese ne fanno una questione d’onore .
D’altra parte, all’inizio del capitolo n. 6 del romanzo “Il Padrino”, Mario Puzo così scriveva:
“Peter Clemenza quella notte dormì male. La mattina si alzò presto, si preparò da solo la colazione con un bicchiere di grappa, una spessa fetta di salame di Genova, e un grosso pezzo di pane italiano fresco che veniva ancora consegnato alla porta come nei vecchi tempi”.
Da S. Olcese a New York il salame è “cosa loro”, anzi, “cosa nostra”!
A scanso di equivoci l’associazione tra il Padrino e il salame di S. Olcese è una mia licenza poetica. Il salame di Genova citato da Puzo nulla ha a che fare con il nostro insaccato, trattasi infatti di altro tipo di salume.
In Via del Molo n. 2 i Magazzini dell’Abbondanza edificati fra il 1556 e il 1557 su preesistenti costruzioni medievali. Questi magazzini erano deputati alla conservazione di biade, cereali e di tutto ciò che poteva essere accantonato e distribuito in tempo di carestia, a cura di un apposito funzionario che aveva anche il compito di regolare i prezzi delle merci e di punire azioni speculative, il magistrato, appunto, dell’Abbondanza.
Nel cortile della canonica di S. Marco al Molo, un appariscente tabernacolo barocco con marmi policromi con al suo interno una moderna statua di S. Giuseppe e il Bambino. Trattasi del bozzetto dell’originale scolpito per la tomba del cardinale Siri nell’altare di San Giuseppe, nella navata destra della cattedrale. Di fronte un’edicola della Madonna con Bambinello ed il Battista con un pastorello. Particolari i decori, fra cui una falce per mietere il grano poiché, in origine quest’edicola, era posta sul silos del grano in Ponte Parodi. Sotto il tabernacolo infatti ,una lapide recita:
“I Lavoratori / del Silos Granario / ed / I Cappellani del lavoro / nel 50° di Fondazione / 1943- 1993.
All’esterno della chiesa il bassorilievo del leone di S. Marco preda di guerra genovese della battaglia di Pola del 1380 vinta contro i veneziani. Una lapide posta al di sopra sentenzia:
“Iste Lapis in quo est Figura Sanc / ti Marci Delatus Fuit a Civitate / Polae Capta a Nostris MCCCLXXX die XIIIII Januarii”.
Sempre da questo lato è esposta una grande lapide del 1513 dal testo molto lungo che, in sintesi, elenca i lavori relativi al prolungamento dei moli.
In Via del Molo, all’angolo con Vico Palla, la settecentesca Madonna della Misericordia che appare al beato Botta. Purtroppo versa in pessime condizioni, scrostata, presenta vistose crepe. L’abraso cartiglio riporta “Moles Esto et Mollias”. Ritorna il monito: “Ergiti diga e placa le tempeste”.
Al civ. n. 13 l’edificio che ospita l’Asilo notturno Massoero.La struttura fondata nel 1912 all’interno di un cinquecentesco palazzo che costituiva uno dei magazzini del grano. Il palazzo fu anche sede dell’Annona e della relativa caserma.
La lapide rammenta.
“Notturno Asilo / Hanno i Raminghi Senza Tetto / Questo Edificio Apprestato dal Comune / per Iniziativa di Luigi Massoero / Cittadino Integro. Pio , Operosissimo / Che al Benefico Scopo l’Intero Suo Patrimonio Legava / MCMXXII”.
Poco distante un’altra lapide che racconta le vicende relative al magistrato dell’Abbondanza.
Dalla piazzetta della Porta del Molo salendo a sinistra, si accede alle antiche murache nel medioevo si affacciavano direttamente sul mare. Il primo tratto, detto delle “cannoniere” fa ancora parte del corpo della porta ed era così chiamato perché vi erano allocate le batterie di cannoni della Repubblica.
Continuando si attraversa il camminamento di ronda e ci si congiunge con il tratto di quel che resta delle Mura della Malapaga. Visto che tali fortificazioni furono demolite per permettere la costruzione della caserma della Guardia di Finanza, posta sullo slargo verso Cavour, proprio al posto dell’antica prigione destinata esclusivamente ai colpevoli di reati a carattere economico e fallimenti dolosi. Nel 1949 questi luoghi ispirarono il regista francese Renè Clement che scelse Genova come scenografia per il suo il film. Tanto è vero che intitolò la pellicola, con protagonisti Jean Gabin e Isa Miranda (fra gli altri anche una giovanissima Ave Ninchi), vincitrice dell’Oscar come miglior film straniero, “Le Mura di Malapaga”. Al di la dei successi e dei riconoscimenti della critica, il lungometraggio riveste una notevole importanza storica poiché, nonostante alcune false inquadrature causa necessità di copione, costituisce un preziosissimo ed irripetibile documentario della Genova del dopoguerra.
Sul lato delle scalette di Vico Palla, al civ. n. 1, sopra un portalino si affaccia un inquietante testa ghignante.
In zona ve ne sono altre, sparse qua e la, che scrutano di nascosto. Forse un richiamo al fatto che sul Molo, terminata l’era napoleonica della ghigliottina, avvenivano , per impiccagione,le esecuzioni capitali.
Vico Bottai deve il nome dalle botteghe costruttori di botti che erano ancora attivi ad inizio del ‘900, mentre l’attiguo Vico Cimella fino al 1868 era noto come il Vico della Rosa. Mutò il nome in onore della cittadina francese di Cimiez, vicino Nizza, un tempo territorio genovese, paese natale di San Celso martire, fra i primi predicatori del Vangelo in Liguria.
Sul fondo di Vico Bottai un tripudio di archetti in laterizio che avevano il compito di consolidare ed evitare cedimenti nei magazzini ed erano ingegnosamente utilizzati come condotti d’acqua.
Dalle scalette di Vico delle Vele una piccola edicola con statuetta moderna la cui epigrafe certifica la devozione di cui fu oggetto: “Aedam Hano Bellico / Furore Deletam / Clerus Populusque / S. Marci / Reposuerunt”. La data risulta incompleta si legge solo 1° Nov (…) Anno Sancto. Sotto un rilievo inmarmo con il testo: “Mater Misericordiae / Protege Nos / A. D. MDCCCLXXV – MCMVII.
Vico delle Vele prende il nome dai laboratori che nel ‘600 furono adibiti a tale attività. Prima erano siti in Piazza Sarzano.
Tornati nella piazzetta del Molo si incontra l’edificio del Baluardo che costeggia tutta la via fino ad inglobare anche la chiesa di S. Marco sormontato dal camminamento di ronda che un tempo si affacciava direttamente sui moli. Nel tratto del Baluardo si apre un piccolo varco chiamato “Porta della Marinetta” che collega la Via del Molo con le calate Cattaneo e Mandraccio, proprio in corrispondenza dell’abside della chiesa. Davanti alla chiesa si notano tre archi tamponati retti da pilastrini di pietra, si tratta della trecentesca loggia di S. Marco inglobata nell’edificio nel 1848.
Dato che in questo quartiere i mercanti orientali avevano le proprie attività commerciali, logge, fondachi, abitazioni e luoghi di culto, la zona venne identificata come dei “Greci”. Da qui il nome della scomparsa torre sorella della Lanterna, detta appunto Torre dei Greci che, per circa trecento anni, dal ‘300 al ‘600, protesse il levante cittadino.
Quando passo di lì, ancora oggi, sussurro tra me e me, “Ergiti diga e placa le tempeste”…
Il promontorio del Molo ha da sempre rappresentato la protezione naturale ed il rifugio delle imbarcazioni nella rada che ha dato origine al porto.
Nel corso dei secoli il baluardo naturale è stato prolungato a più riprese e munito di poderose mura sia sul lato del mare aperto (Mura del Molo e Mura della Malapaga) che su quello interno (il Baluardo).
Negli antichi documenti dei “Conservatores portus et moduli”, i magistrati adibiti alle attività marittime, il quartiere era indicato con il nome “Contrada Moduli”. Qui si trovava una fontanella, detta del “Bordigotto”, protagonista di un antichissimo episodio avvenuto nel 935 quando, presagio nefasto, cominciò a zampillare sangue. Di lì a poco infatti, Genova avrebbe subito un devastante attacco saraceno, uno dei più terribili che la sua millenaria storia ricordi.
In pieno ‘500 vennero rafforzate le mura che partivano da Porta Soprana e proseguivano fino alla punta del Molo vecchio che venne dotato di un’apposito varco, costruito dall’Alessi, chiamato -appunto- Porta Molo Vecchio.
Il quartiere era la sede di tutte quelle attività che ruotavano intorno alle manutenzioni navali: botteghe, fabbriche e laboratori di fabbri, bottai e arredatori marittimi. In particolare vi si costruivano cannoni e proiettili per la Repubblica.
Nel ‘600 la zona divenne destinata ai magazzini annonari (del sale, del grano e dell’abbondanza) e le attività prima elencate si trasferirono in parte di fronte, alla “ripa coltellinaria”, odierna Via Turati, in parte in Darsena.
In seguito alle trasformazioni di fine ‘800, inizio ‘900, la contrada è stata via via isolata dal resto della città, costituendo un’appendice del porto. I bombardamenti del 1942 e la costruzione nel 1969 della sopraelevata hanno cambiato in pochi anni ciò che era rimasto immutato per secoli. Grazie al disegno di riqualifica voluto da Renzo Piano nel 1992, il Molo ha ripreso vita traendo giovamento dalla rinascita del Porto Antico.
In Piazza Cavour ai civ. n. 3 e 4, a fianco della caserma della Guardia di Finanza, si notano tre arcate rivolte verso il molo e due verso la piazza che costituivano una duecentesca loggia confinante, un tempo, con il casone delle prigioni della Malapaga.
Al civ. n. 54r ecco una delle edicole più note, quella secentesca di San Giovanni Battista. Si tratta di un’edicola in stucco a tempietto con colonne ioniche in marmo. La statua del santo, ricoverata in una profonda nicchia, è protetta da un’elaborata grata in ferro. Ai lati due coccarde con cartigli e scudi abrasi. Alla base l’epigrafe: “Moles Esto / et Mollias / MDCXXXIIII. (“Ergiti scoglio, (diga) e placa il mare (le tempeste”).
Il tabernacolo è collocato sopra la fontana detta dei “Cannoni del Molo”, una cisterna del 1634 che costituiva una delle stazioni terminali della via dell’acqua.
Con il termine cannoni venivano indicati i tubi che fornivano acqua alle fontane pubbliche. A differenza dei bronzini, dotati di valvole, i cannoni necessitavano, per la loro chiusura, di tappi di ferro, bronzo, marmo o ceramica.
A lato dell’edicola del Battista sono visibili due listarelle di marmo incise con numeri arabi e romani, incastonate nelle pietre, con numerose fessure per l’areazione. Una vecchia targa in ghisa riporta la dicitura “Pozzo Pubblico N. 25” con tanto di stemma e corona.
In Copertina: Via del Molo angolo Piazza Cavour. Cartolina tratta dalla collezione di Stefano Finauri.
… storia dell’antica Porta del Molo e della vera Porta Siberia.
Per la costruzione della Porta del Molo o Ciberia l’architetto perugino Galeazzo Alessi si ispirò al progetto della porta di San Miniato di Firenze eseguito da Michelangelo.
“… Fu chiamato dai genovesi con suo molto onore a’ servigii di quella repubblica, per la quale la prima opera che facesse si fu racconciare e fortificare il porto et il molo, anzi quasi farlo un altro da quello che era prima. Conciò sia che allargandosi in mare per buono spazio”… annota il Vasari ( e il molo s’allungò di più di 600 passi) riportando il racconto di Filippo Alberti,” fece fare un bellissimo portone” (la porta del Molo in seguito chiamata Sibaria o Siberia, realizzata fra il 1553 e il 1555), che giace in mezzo circolo, molto a!dorno di colonne rustiche e di nicchie a quelle intorno. All’estremità di quel circolo si congiungono due baluardotti, che difendono detto portone. In sulla piazza poi, sopra il molo, alle spalle di detto portone, verso la città fece un portico grandissimo, il quale riceve il corpo della guardia, d’ordine dorico e, sopra esso, quanto è lo spazio che egli tiene, et insieme i due baluardi e porta, resta una piazza spedita per comodo dell’artiglieria, la quale a guisa di cavaliere sta sopra il molo e difende il porto dentro e fuora. Et oltre questo che è fatto, si dà ordine per suo disegno, e già dalla Signoria è stato approvato il modello dell’accrescimento della città, con molta lode di Galeazzo, che in queste et altre opere ha mostrato di essere ingegnosissimo”.
La porta è collegata con le Mura di Malapaga da un lato e con il Mandraccio dall’altro. Sul fronte mare si presenta a tenagliacon due bastioni laterali mentre il prospetto interno è costituito da un porticato classicheggiante a lesene doriche con fregi di armi e scudi della Repubblica.
A completare il sistema difensivo insieme a quella principale del Molo, altre due porte minori: della Marinetta o Giarretta e di S. Marco accanto all’omonima chiesa.
Legata alla costruzione della porta è la leggenda che narra di una delle versioni più note inerenti l’etimo della parola “massacan”: I manovali che stavano lavorando alla sommità dell’edificio videro in lontananza le navi turche pararsi minacciose all’orizzonte. Non solo furono i primi a lanciare l’allarme ma, al grido di “Ammassae, ammassae i chen”, si scagliarono coraggiosamente contro il nemico respingendo il saraceno invasore.
Sul fornice la lapide datata 1553 proclama:
“Aucta ex s.c. Mole Extructaq / Poreta Propvgnacolo Mvnita/ VrbemCingebantMoenibvs / Qvacunque AllvitrurMari/ ann. MDLIII” (Per decreto del Senato, dopo aver prolungato ilmolo , munita con difese, i cittadini cingevanocon mura la città lungo tutta la parte è lambita dalmare). L’iscrizione è attribuita all’illustre storico ed umanista genovese Jacopo Bonfadio.
Secondo alcuni storici, l’origine del nomesarebbe legata alla nobile famiglia dei Cybo illustre casata genovese che dette alla città un Papa, Innocenzo VIII e diversi cardinali e che proprio nel ‘500 ebbe il suo periodo di maggior splendore.
Il nome “Cibaria”, storpiato poi nei secoli in “Siberia”, deriverebbe dal fatto che era il varco dal quale transitavano principalmente le merci di carattere alimentare destinate ai vicini magazzini dell’Abbondanza.
In realtà quella che si crede essere la Porta Siberia corrisponde alla Porta del Molo, così chiamata anche ai tempi dell’architetto perugino. Nelle antiche mappe infatti, il nome Siberia compare solo nel 1869 ed è il varco, come attestato da relativa lapide in Via del Molo, aperto a metà dell’800 nei pressi di Calata Marinetta. Ne resta traccia nella costruzione lato mare che l’ha inglobata tra il Ristorante le Tre Caravelle e il Baluardo.
Da diversi anni la struttura della Porta del Molo, oltre a fungere da degna cornice per il museo e la Fondazione Luzzati intitolati ad Emanuele, il grande artista e scenografo genovese, scomparso nel 2007, costituisce spettacolare accesso al Porto Antico. Varcata la quinta… Genova sale sul palcoscenico…
I Lavatoi, attualmente situati nei “Giardini Baltimora”, vulgo “Giardini di Plastica” vennero costruiti nel 1797, anno della fugace Repubblica Democratica, dall’architetto al quale devono il nome, Carlo Barabino.
In origine i trogoli, detti della “Marina”, erano collocati nel contesto di una zona densamente popolata e popolare, la via dei Servi, per soddisfare una reale esigenza di servizio pubblico. Si conservano due versioni del progetto: un bozzetto più lineare a tre luci, e un altro analogo a quello realizzato, ma coi grossi pilastri bugnati arricchiti di teste leonine. Al disegno è aggiunta una curiosa nota autobiografica che appare indicativa dello stato d’animo dell’autore: “Lavaderi delli Servi, fatti da me Carlo Barabino 4 n. 1797 fatto in tempo delli Birboni. Lavoro che mi è costato la perdita della quiete d’animo…”
L’opera, ormai completamente decontestualizzata, sorgeva sul lato opposto della valletta del Rivotorbido, accanto alla chiesa di Santa Maria sulla Montagnola dei Servi, affacciata lungo l’asse continuo Borgo Lanaioli-via dei Servi–via Madre di Dio.
Oggi collocati sotto i resti delle Mura di Sarzano, dove un tempo erano altri truogoli, quelli del Colle, all’interno di un parco urbano concepito negli anni ‘70 del secolo scorso in luogo del preesistente quartiere di via Madre di Dio. Sulle macerie reali e morali di millenarie contrade scolpite nella pietra, sorge l’effimero e, dopo meno di 40 anni, già fatiscente centro direzionale dei Liguri. Il sito non ha mai preso vita rimanendo quotidiana memoria della barbarie commessa. Anzi negli anni ’80 era addirittura territorio tacitamente concesso ai tossicodipendenti, una sorta di ghetto a cielo aperto, in cui le aiuole dei giardini erano disseminate di siringhe e preservativi usati.
I lavatoi vennero infatti smontati nel 1979, durante la realizzazione del Piano Regolatore Generale di via Madre di Dio, un modo elegante per sancire la distruzione del quartiere e ricomposti sotto le mura di Sarzano, da Ignazio Gardella, progettista del parco urbano ivi previsto.
L’edificio, in stile neoclassico, presenta un impianto planimetrico lineare, ottenuto dalla ripetitività del modulo-base a pianta pressoché quadrata, e composto essenzialmente da un vano che ospita la fonte (oggi non collegata ad alcuna rete di approvvigionamento idrico) e da altri due locali accessori. La grande vasca rettangolare è situata al centro di uno spazio voltato a tre crociere; essa consta di un elevato in muratura portante intonacata (originariamente in pietra e mattoni ed in seguito ricostruito in elementi di calcestruzzo) concluso da un piano di lavoro in arenaria incisa a solchi paralleli e di una bocca di erogazione a grottesche di marmo collocata su una delle due testate. Gli altri due vani non attrezzati per il lavaggio dei panni sono coperti da volte a botte e comunicano soltanto con l’esterno attraverso grandi archi chiusi da inferriate. L’asimmetria della disposizione planimetrica è magistralmente bilanciata dalla risoluzione adottata nel prospetto: il ritmo seriale ed indifferenziato dei cinque fornici a tutto sesto, mediato da un fregio a triglifi, trova la sua naturale conclusione nel timpano triangolare. L’impostazione dei pilastri rastremati verso l’alto e trattati a bugnato rispecchia la formazione romana e classica di Barabino, così come l’uso della trabeazione dorica, dove con elegante raffinatezza è collocata la targa marmorea inneggiante al popolo sovrano:
“Al Popolo Sovrano / Gli Edili / Libertà / Eguaglianza / l’Anno Primo della Repubblica Ligure Democratica / MDCCXCVII”.
I lavatoi del Barabino sono rimasti per lungo tempo nel più completo degrado e abbandono, deturpati, sporcati, imbrattati e violentati dall’ignoranza e oblio altrui, talvolta dimora occasionale di qualche senzatetto. Recentemente, dopo insistenti segnalazioni, sono stati avviati i lavori di ripristino che prevedono, fra i vari interventi, la dotazione di grate anti intrusione e la pulizia dei marmi al fine di restituirli al loro primitivo decoro.
Prima ancora dell’erezione delle mura del Barbarossa (1155) la zona di Soziglia era stata adibita alla macellazione delle carni. L’origine del nome significherebbe infatti “sus” maiale e “”ilium” isola, divenuto poi “eia” quartiere, Suzeia o Suxilia. L’isola prima e il quartiere dei maiali poi. Tale sito venne scelto perché, sia la lavorazione delle carni che l’operato dei fabbri delvicino “Campus fabrorum” in Campetto, necessitavano di parecchia acqua fornita dal sottostante Rio Bachernia.
Al centro della piazza di Soziglia si trovava un barchile del 1578 abbellito con una sinuosa sirena, realizzato da Taddeo Carlone. Troppo ingombrante, a detta degli abitanti del luogo, venne trasferito in Piazza Lavagna e la sirena ricoverata in un magazzino in attesa di essere ristrutturata poiché, causa le sassate deimonelli del quartiere, si presentava mutila in più parti. La fontana, priva del suo ornamento, nel 1844 venne destinata in Piazza Fossatello. Intanto, nel 1726 lo scultore carrarese Francesco Baratta aveva ricevuto l’incarico di realizzare per la piazza, rimasta sguarnita, una statua con soggetto “la Fuga di Enea da Troia con il padre Anchise e il figlio Ascanio”. Il monumento nel 1870, in occasione dell’ inaugurazione del nuovo mercato della frutta vicino alla Nunziata, venne definitivamente trasferito in Piazza Bandiera, dove resiste tuttora assediato dalle automobili.
Nella piazza s’incontrano locali storici la cui fama si diffuse in tutte le principali corti europee:
Al civ. n.74r la Confetteria di Pietro Romanengo. Non v’era ricevimento infatti in cui non si degustassero, fra le tante celebri preparazioni, le gocce di rosolio e lo sciroppo di viole. Sul portale campeggia una guantiera colma di frutta candita con ai lati due putti. Al centro, fra le due vetrine, una cornucopia con fiori e fruttasormontata da un elmo di Mercurio. L’azienda venne fondata nel 1780 in Via della Maddalena e si trasferì qui, nella nuova bottega di Soziglia, nel 1814. Preziosi e particolari gli arredi originali di quel periodo, specchiere e legni intarsiati, pavimenti in marmi policromi, lampadari e soffitti affrescati.
Al civ. n. 98r la Pasticceria Klainguti fondata nel 1828 da quattro fratelli svizzeri che erano giunti a Genova provenienti dalle valli intorno a St. Moritz, con l’intenzione d’imbarcarsi in cerca di fortuna oltreoceano. Ma l’America la trovarono a Genova dove esercitarono con profitto e passione la loro arte. La caffetteria è arredata fra il barocco e il liberty e, a testimonianza della propria storia, conserva orgogliosa un biglietto autografo di Giuseppe Verdi che decanta le virtù dei pasticcini “Falstaff” così battezzati dai proprietari in onore del famoso compositore.
Al civ. n. 10 ci s’imbatte nell’edicola della “Mater Salutis” un medaglione del 1854 posto a ricordo dell’epidemia di colera che colpì in quell’anno la città ma che risparmiò miracolosamente gli abitanti del palazzo su cui è affissa. Scolpita dal Cevasco si tratta dell’ultima edicola sicuramente datata innalzata nel centro storico.
“Il Signore e gli Abitatori di Questa Casa / Cui Parve Grazia dell’Augusta Vergine Salutifera / Il Non Aver Compianto Persona/ Tocca Tra Queste Pareti dall’Indica Lue / Con Dispendio Comune il 31 Dic. 1854 / Qui Ne Allogarono La Cara Effige / Condotta da Gio. Batta Cevasco Valente Scultore / Perché Duri Memoria di Tanto Beneficio”.
Al civ. n. 116r sul palazzo che un tempo fungeva da dogana la grande edicola barocca di “San Giovanni Battista”. Sul timpano spezzato il Padre Eterno benedice i passanti con la mano destramentre con la sinistra regge un mappamondo. San Giovanni è invece raffigurato nell’atto di preghiera con ai piedi l’agnello di Dio. Quando nel palazzo si sviluppò un indomabile incendio vennero portate qui dalla cattedrale le ceneri del santo e le fiamme d’incanto si spensero. Ritenuta pertanto miracolosa questagrande edicolaa tempietto è divenuta nei secoli oggetto di grande devozione. Alla sua base l’epigrafe: “Nostra Tutela Salve”.
All’angolo con Vico del Fieno la secentesca Madonna della Misericordia, un’ altra edicola a tabernacolo classico, curvo spezzato con trigramma di Cristo, la cui mensola è sorretta da tre angeli.
Proseguendo verso la Via e la Piazza dei Macelli di Soziglia, il “Fossatus Susiliae” sopra il rio sottostante si succedono botteghe alimentari di ogni genere in particolare rivendite di stoccafisso e baccalà, besagnini, drogherie, pescherie e, ovviamene, macellerie. Già prima del X sec. infatti, qui era il cuore di uno dei tre mercati di carne cittadini. Gli altri due si trovavano nel quartiere del Molo e in porto.
A proposito di macellerie, all’angolo con Vico dei Corrieri, si incontra la rivendita di carni più patriottica d’Italia con un sontuoso bancone marmoreo intagliato con le figure dei personaggi protagonisti del Risorgimento. Da Garibaldi a Bixio, da Mazzini a D’Azeglio, (alcuni dicono Mameli, altri Cavour e La Marmora). In un angolo si notano la figura intera di Mercurio Dio del commercio e il volto di una giovane donna incoronata a rappresentare l’Italia.
All’incrocio con Vico Lavagna colpisce una particolare rappresentazione della Madonna Assunta. In questo settecentesco dipintosu ardesia la Vergine è raffigurata in volo sorretta da un gruppo di angeli. Poco più avanti, al primo piano, si possono notare le “mampae” le finestre con pannelli mobili riflettenti, espediente tipicamente genovese utilizzato per ottimizzare l’illuminazione degli interni.
Dal civ. n. 15r fino al 25r sono ancora visibili sei archi tamponati, sede originaria dei mattatoi. All’incrocio fra via e piazzetta l’edicola della Corporazione dei Beccai recentemente restaurata. Un grande tabernacolo in stucco custodisce la settecentesca marmorea “Madonna di Città” che seduta, porta il Bambinello in braccio con due curiose teste di cherubini che spuntano dai drappeggi. Alla base un cherubino alato sorregge la mensola , ai lati due grandi angeli in soffici vesti, reggono il timpano curvo con la raggiera e lo spirito Santo. Ai piedi l’epigrafe: “Laniorum Ars Huius / Modi Deipare Simula / Crum Posvit Anno / Dni MDCCXXIV (1724)”.
In questa piazza dove le palazzate colorate si arrampicano le une sulle altre alla ricerca di un posto al sole, non servono spiegazioni, bisogna solo ascoltare i suoni mediterranei delle parlate ed ammirare i vivaci colori che i besagnini dipingono sui loro banchi, mischiati a quelli argentei pennellati dai pescivendoli. Infine occorre abbandonarsi, “In quell’aria carica di sale, gonfia di odori “ cantava Faber, agli invitanti aromi provenienti delle botteghe e respirare… Genova.
Campetto e non Piazza Campetto, come erroneamente si dice, in origine era un rigoglioso orto addossato alle mura dell’antico castrum romano.
Fu nel 1155 con l’erezione delle poderose mura del Barbarossa che divenne snodo cruciale della nuova viabilità cittadina e sede di numerose botteghe artigiane. Il “campus fabrorum”, così indicato nelle antiche mappe, era la zona dei fabbri. Di conseguenza le contrade vicine presero toponimi legati alla lavorazione dei metalli e delle armi: Via degli Orefici, Vico Scudai e Vico degli Indoratori erano le fabbriche dove, fino al ‘600, si forgiavano le spade, gli scudi e le armature della Repubblica, prima che queste attività venissero trasferite nella zona fra la Maddalena e Strada Nuova in Vico del Ferro.
Su Campetto si affacciano diverse prestigiose dimore quali, ai civ. n. 8 e 8a, il cinquecentesco Palazzo di Gio. Vincenzo Imperiale disegnato da Giovanni Battista Castello, detto il “Bergamasco”, una ricca magione patrizia affrescata da Luca Cambiaso e dal Bergamasco stesso; al civ. n. 2 il Palazzo Ottaviano Sauli, poi Casareto De Mari, a tutti noto come “il palazzo del Melograno”. Al suo interno, nell’atrio di un grande magazzino, la secentesca statua di “Ercole”, frutto della superba mano di Filippo Parodi e “la Madonna della Misericordia”, pregevole settecentesca creazione di Francesco Maria Schiaffino che, posta in una nicchia rinvenuta durante un restauro, ornava il “pregadio” privato della famiglia.
Al centro dello spiazzo il barchile con il fauno che suona la conchiglia. La fontanella risale al 1643 scolpita da Giovanni Mazzetti e un tempo si trovava nel quartiere di Ponticello, più o meno nella zona alla confluenza con Via Fieschi, occupata oggi da Piazza Dante. Prima di giungere in Campetto la scultura dal 1936 al 1990 venne spostata nel cortile minore del Ducale quando il Palazzo svolgeva le funzioni di Tribunale.
Sopra il civ. n. 1r una lapide marmorea ricorda il prezioso contributo di G. B. Ottone durante la rivolta anti austriaca del Balilla nel 1746. Il commerciante che aveva qui la sua bottega acquistò e distribuì a sue spese le armi e guidò l’insurrezione.
Ai civici n. 3 e 5 palazzi secenteschi i cui sbiaditi affreschi e i ricchi portali sono trascurata testimonianza di glorie passate.
Al civ. n. 19r occupato oggi da un supermercato di alimentari sorgeva dal 1216 la piccola chiesa di San Paolo. Nel 1600 l’edificio fu destinato a convento dai padri Barnabiti poi, a fine ‘700 soppresso dagli editti napoleonici, trasformato prima in stalla, poi in macelleria in ultimo, fino al 1821, in teatro (“piccolo Teatro di Campetto”). Le colonne della chiesa furono smontate e riutilizzate per la facciata neoclassica della basilica delle Vigne. Alzando lo sguardo tra le corsie del supermercato e sbirciando dietro alle colonne è tuttora possibile ammirare brani di antiche pitture, stucchi e decori.
Al civ. n. 9 Palazzo di Gio. Battista Imperiale i cui sfarzosi affreschi sono ancora visibili lato Via di Scurreria, a fine ‘800 venne impiegato come albergo, il famoso “Albergo Unione”, allora alloggio privilegiato dai sudditi di Sua Maestà. Non a caso nell’atrio una lapide ricorda che vi soggiornò il Dott. James R. Spensley, fra i fondatori del Genoa CFC nel 1893 e padre dello scoutismo genovese.
Campetto è molto, molto più di una semplice piazza…