“Il Tempo delle Mele”…

Il toponimo di Vico Mele ha una genesi incerta. Secondo alcuni trarrebbe origine dalla famiglia proveniente dall’omonimo paesino sulle alture di Voltri, per altri, molto più semplicemente perché qui avevano sede le botteghe e i magazzini del succoso frutto.

“La parte bassa del prospetto presenta ancora le classiche lesene alternate bianco nere”. Foto di Leti Gagge.

Al vicolo è legata anche una curiosa leggenda che racconta di una misteriosa meretrice, bruna di capelli, di pelle ambrata e dalle prosperose forme che fa girar la testa e, soprattutto, sparir il portafoglio degli incauti clienti.

“Il calco dell’edicola quattrocentesca in stile gotico”.

Al civ. n. 6 si trova il Palazzo Brancaleone Grillo conosciuto anche, dal nome dei successivi proprietari, come Serra. Dentro al cortile di accesso al loggiato si trova una meravigliosa rappresentazione quattrocentesca di Madonna con il Bambino, calco di una delle più affascinanti edicole del centro storico. Realizzata in forma allungata e in un raffinato stile gotico francese presenta nella nicchia il rilievo della Vergine con il Bambinello in braccio.

L’immagine nel suo insieme, e il gioco di sguardi in particolare, trasmettono un intimo senso di complicità. Sotto la mensola, su una pigna con motivi floreali, campeggia lo stemma del casato. Data l’importanza dell’opera, per preservarla dalle intemperie e dai vandalismi, l’originale è conservata presso il Museo di S. Agostino.

“San Giorgio che uccide il drago di G. Gagini”. Foto di Leti Gagge.
“Portale con relativo sovrapporta”. Foto di Leti Gagge.

Il portale del palazzo, attribuito alla sapiente mano di G. Gagini, offre la classica effige di San Giorgio che sconfigge il drago sdraiato sotto il cavallo con la principessa in preghiera. Sullo sfondo due figure femminili alate che reggono in mano la fiaccola e il giglio e sotto gli scudi con gli stemmi nobiliari. La tavella risulta infine impreziosita da una ricca cornice con girali e putti. Alla base l’iscrizione recita:

Qvi Ovcis Voltvs Deo Saspicis Ista Libenter: Omnibvs Invideas Invide Nemo Tibi.

“Quanta storia è passata su questi scalini”. Foto di Leti Gagge.
“Scalone e colonnine murate”. Foto di Leti Gagge.
“La scalinata interrotta al primo piano”. Foto di Leti Gagge.

La facciata presenta la tradizionale alternanza di conci di marmo bianco e nero sulla quale sono visibili alcune colonne murate, poggioli con colonnine di marmo e archetti trilobati che proseguono anche sul lato di Vico Colalanza e Vico San Luca. All’interno lo scenografico scalone marmoreo che, a seguito delle successive ristrutturazioni, s’interrompe al primo piano.

Gli interni del piano nobile offrono affreschi, a tratti sbiaditi, di Luca Cambiaso, “Nozze di Amore e Psiche e Augusto assiso in trono” e di Lazzaro Tavarone, “Mosè con gli Ebrei nel deserto”, opere che permettono al palazzo(a quel tempo di proprietà di Nicolò Spinola) di inserirsi a pieno titolo, già a partire dal 1576, nel rodato sistema dei rolli.

Le numerose colonne con relativi capitelli tamponate lasciano presagire quanto imponente fosse il loggiato originario. Al civ. n. 11 esisteva un analogo portale a quello precedentemente descritto che venne acquistato e trasferito nel suo castello dal Capitano D’Albertis.

“Il sovrapporta con San Giovanni Battista nel deserto”. Foto di Leti Gagge.

All’angolo con Vico San Sepolcro ecco un altro antico portale in pietra nera di promontorio che rappresenta il Battista nel deserto al cospetto del Dio padre che affida la sua famiglia alla protezione divina. Il bassorilievo ricco di simbologie orientali e pagane rappresenta un’allegoria della famiglia proprietaria che volle affidarsi direttamente al Divino senza troppe intermediazioni.

“Il sovrapporta del Battista in primo piano”. Foto di Leti Gagge.

A destra una cicogna, forse uno struzzo vicino ad un leopardo sdraiato a terra davanti ad uno sfondo di alberi e rocce. Sulla sinistra San Giuseppe accompagna con la mano una figura femminile alata che esce da uno scudo. La scena rappresenta la presentazione del casato al cospetto del Dio Padre che appare all’estrema sinistra pronto ad accogliere benignamente la richiesta.

“L’Annunciazione in pietra nera sotto l’archivolto De Franchi”.

Sotto l’archivolto De Franchi ci si imbatte in un’altra Annunciazione in pietra nera decorata con stemmi abrasi del XVI sec.

All’angolo con Vico Spinola antiche tracce di una loggia tamponata con archi in pietra del XIII sec.

Nella piazzetta di San Sepolcro sorgeva, come testimoniato da apposita lapide, un antico oratorio oggi sostituito da una mediocre costruzione del dopoguerra.

Sul muro al civ. n. 2, vicino ai resti marmorei della decorazione dello scomparso portale, la lapide che attesta la proprietà del palazzo:

Dom / Hec Plateola Cvm Domo Magna Oposita / Est  Mag. Ci et Potenti.mi Militis. D. Lvce Spin / Vle Q. S. P. D. Io; Baptiste Hoc Anno  Em  / pta Ab Heredibvs Q Brancaleonis / et Antoniotis De Grilis Die pma Sept / Embris MCCCCLXXXXVI (1496).

“Vico Mele e il palazzo Brancaleone Grillo”. Foto di Leti Gagge.

La nobile schiatta ebbe origine da un certo Uberto valoroso capitano che nel 806 fu il primo a salire sulle mura di Costantinopoli durante l’assedio della città. L’imperatore Niceforo (dal greco significa “Colui che porta la vittoria”) testimone del fatto lo indicò come esempio ai suoi soldati: “Vedete voi quel grillo con quanta celerità sale sui muri?”. Da questo episodio l’origine del cognome dei suoi discendenti che ricoprirono ruoli di assoluto prestigio: cardinali come Geraldo nel 1134 , Oberto nel 1155 e Ottone 1251; ammiragli quali Simone vittorioso nel 1264 sui veneziani, Accellino che nel 1310 con sole dieci galee espugnò Rodi; padroni di territori e titoli nobiliari come Manfredo signore di Cassano Spinola nel 1306, Antonio di Piacenza nel 1317, Antonio di Sigismondo di Lerma nel 1396.

Nel 1528, con la riforma voluta da A. Doria, formarono il nono albergo. Molti ancora, per tutto il ‘600 e il ‘700, furono i membri di questa illustre casata che ricoprirono di prestigiosi incarichi e che di allori si fregiarono.

“Era una casa”…

… molto carina. Senza soffitto senza cucina. Non si poteva entrarci dentro. Perché non c’era il pavimento. Non si poteva andare a letto. In quella casa non c’era il tetto. Non si poteva fare pipì. Perché non c’era vasino lì. Ma era bella, bella davvero. In via dei matti numero zero”… così recitava la prima strofa della celebre canzone di Sergio Endrigo. Per fortuna nella casa di cui vi voglio parlare c’è quasi tutto e risulta tuttora essere una delle attrazioni turistiche più gettonate della Superba. Sita proprio davanti allo scenografico ingresso di Porta Soprana, uno dei due principali varchi ancora esistenti delle Mura del Barbarossa, ecco la presunta Casa di Colombo.

Presunta si, perché secondo gli studiosi qui avrebbe abitato Domenico Colombo, padre del più celebre, a quel tempo giovinetto, Cristoforo. Si ipotizza di conseguenza che, insieme al padre, vi avrebbe dimorato anche il futuro esploratore che, all’epoca, avrebbe dovuto avere circa quattro anni.

“La casa di Colombo con i rampicanti che ne coprono le iscrizioni”. Foto di Leti Gagge.

Domenico infatti, a causa dei mutamenti politici avvenuti in seno al governo cittadino, aveva perso il suo tranquillo lavoro di custode presso la Porta dell’Olivella ed era stato costretto ad inventarsi un nuovo impiego. Si era quindi riciclato artigiano lanaiuolo e per praticare tale attività che, proprio nella contrada dei Lanaiuoli  presso Vico Dritto di Ponticello aveva il suo fulcro cittadino, vi si era trasferito.

Fra il 1455 e il 1470 l’antica dimora avrebbe dunque ospitato l’esploratore dove il padre, per arrotondare e riuscire a sbarcare il lunario, oltre ai tessuti, smerciava vini e formaggi.

“Cartina delle rotte percorse dall’esploratore durante i suoi viaggi nel nuovo continente”. Foto di Sergio Gandus.
“Il racconto del primo viaggio del 1492 tratto dai Diari di bordo”. Foto di Sergio Gandus.

Ai foresti lasciamo pure l’illusione di quel “presunta” ma in realtà, essendo l’abitazione originale andata distrutta nel maggio 1684, gli storici concordano nel decretarne la non autenticità. Insomma un “falso storico” acclarato.

Fu infatti il devastante bombardamento navale francese ordinato da Re Sole, Luigi XIV, a radere al suolo senza alcuna pietà la costruzione primitiva che era costituita da due o tre piani dei quali il primo adibito a bottega e gli altri due ad abitazione.

Nel ‘700 sulle macerie di quella originaria la casa fu ricostruita, più o meno fedelmente, nella versione che possiamo ammirare ancora oggi e nel corso dei secoli successivi venne ulteriormente modificata con la sopraelevazione di altri piani fino al raggiungimento dei cinque.

“Bassorilievo marmoreo che riproduce la caravella Santa Maria. Scultura fatta eseguire dal Capitano D’Albertis grande ammiratore dell’illustre predecessore”. Foto di Sergio Gandus.

Nel 1887 il Comune ne divenne proprietario impegnandosi, per fortuna, a preservarla dai futuri sconvolgimenti che avrebbero interessato la zona. Nel 1898 infatti le case di Vico Dritto di Ponticello vennero abbattute e con esse i tre piani posticci che, appunto, poggiavano sulle costruzioni limitrofe. Nei primi decenni del Novecento con la risistemazione del quartiere e, di fatto, la sparizione degli antichi borghi di Ponticello e del Morcento (attuale Via Ceccardi) la casa di Colombo è rimasta isolata e avulsa dal suo originale e vitale contesto.

Sul prospetto che oggi consideriamo principale campeggia la lapide marmorea sotto lo stemma cittadino protetto da due orgogliosi Grifoni che recita:

“Nulla Domus Titulo Degnior Paternis In Aedibus Christophorus Columbus Pueritiam Primamque Juventam Transegi”. “Nessuna casa è più degna di considerazione di questa in cui Cristoforo Colombo trascorse, tra le mura paterne, la prima gioventù”.

“Lapide che ricorda la dimora di Domenico e Cristoforo Colombo”. Foto di Sergio Gandus.

L’ingresso principale originale era invece posto verso il lato oggi occupato dal chiostro di S. Andrea la cui presenza in loco costituisce anch’essa, sebbene la conformazione sia assai suggestiva, un falso storico. Peccato perché l’immagine del futuro grande esploratore assorto sotto le colonne del chiostro del XII sec. intento nello studiare le sue ardite rotte era molto suggestiva.

“La Casa di Colombo orfana delle case di Vico Dritto di Ponticello a cui era addossata, in compagnia del Chiostro di S. Andrea sorvegliato dalle torri di Porta Soprana”. Cartolina primi decenni del ‘900 tratta dalla Collezione di Stefano Finauri”.

Le ormai millenarie pietre vennero salvate dall’architetto portoghese Alfredo d’Andrade che si adoperò per recuperarle.

Nel corso infine di un restauro condotto nel 2001 sono stati effettuati importanti ritrovamenti di carattere storico archeologico che hanno portato alla luce tracce di muratura di probabile origine romana e una canaletta medievale sotterranea per lo smaltimento delle acque, una sorta di primitivo impianto fognario. La gestione della casa museo è oggi affidata all’Associazione Culturale Genovese “Porta Soprana” che al suo interno ha predisposto un percorso didattico “sulla rotta”, è il caso di dirlo, dell’Ammiraglio.

 

“Il Discorso illuminato di Anselmo”…

Il nome del Vico trae origine dalla famiglia Adorno proveniente da Taggia che giunse a Genova intorno al 1186 e che, appartenente alla fazione ghibellina, diede alla Repubblica sette Dogi.

Innumerevoli sono dunque gli esponenti di questa illustre casata ma io voglio soffermarmi sull’illuminata figura di Anselmo, un cavaliere, mercante e uomo politico genovese trapiantato nei Paesi Bassi, che si rese protagonista di diverse avventurose missioni diplomatiche.

Nel 1470, infatti, Carlo il Temerario gli affidò il delicato compito di recarsi, attraversando l’Italia, negli stati musulmani del vicino Oriente, per esaminarne le condizioni e riferirne al principe.

Il Duca rimase talmente soddisfatto della relazione che Anselmo gli fece del suo viaggio e dei suoi incontri, che lo nominò suo consigliere e ciambellano personale.

Sono passati oltre cinque secoli eppure quella del genovese del ‘400 appare una visione ancora quanto mai moderna e, per certi versi addirittura futuristica, rispetto al pensiero di molti attuali politici. A tal punto illuminata da chiedersi quale delle due visioni appartenga al Medioevo; se quella di Anselmo o quella dei movimenti che cavalcano sull’onda della paura, l’ignoranza imperante.

“Alcuni pensano, ma ben scioccamente, che non vi sia altra patria che la loro. Altri, pur riconoscendo ch’essa non è la sola, affermano, per smodato attaccamento, che tra la loro patria e i paesi stranieri vi sia la stessa differenza che passa fra il giorno e la notte.

“Itinerario d’Anselmo Adorno in Terrasanta”.

Essi pensano – cosa che è ancora più insensata – che tutte le altre contrade siano immerse nell’oscurità e che nessuna nazione, nessun paese possa essere più favorito e felice del loro. Credono che gli altri siano sprovvisti di saggezza e virtù, e che vivano senza leggi come bestie prive di ragione.

Costoro, che si caratterizzano per una crassa ignoranza, madre di tutti i vizi, sembrano più simili agli animali selvatici che agli esseri umani, mentre gli uomini che hanno conosciuto o percorso il mondo non cadono in errori tanto stupidi.”

Anselmo Adorno,

Brano tratto da “Itinerario di Anselmo Adorno in Terrasanta” del  XV secolo.

In Copertina: Vico degli Adorno in bianco e nero. Foto di Stefano Eloggi.

“La Guerra è la lezione…

… della Storia che o popoli non ricordano mai abbastanza”.

In Corso Aurelio Saffi, superato il palazzo della Questura, s’incontra un particolare ed evocativo edificio dello stesso stile che rimanda all’architettura razionalista del ventennio fascista: si tratta infatti della costruzione a tutti nota come “La Casa del Mutilato” eretta nel 1937 dall’architetto Fuselli ed inaugurata nel maggio dell’anno successivo alla presenza del Duce in persona (durante quella stessa visita genovese inaugurò anche l’ospedale pediatrico Giannina Gaslini).

“Discorso d’inaugurazione del Duce nel Maggio 1938”

La struttura era stata concepita per ospitare l’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra ma in realtà, come ci ricordano le varie targhe affisse all’ingresso, è stata sede anche di: Associazione nazionale combattenti e reduci, Associazione nazionale mutilati in servizio, Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi in guerra, Associazione nazionale vittime civili di guerra, Associazione nazionale Cavalieri dell’ordine di Vittorio Veneto, e Anpi.

Soldati repubblichini e partigiani in qualche modo uniti, purtroppo, dalle brutture della guerra, hanno trovato asilo sotto lo stesso tetto. Con il trascorrere degli anni certi avvenimenti sono caduti nell’oblio e la struttura ha mutato pelle passando dalla vocazione sociale e civile a quella culturale prima e commerciale poi.

“Le ben delimitate decorazioni esterne”. Foto di Leti Gagge.

Dentro alle sale affrescate da Giuseppe Santagata e illuminate dalle sue suggestive vetrate si sono succeduti un cinema il Ritz, un noto Jazz Club il Lousiana, e oggi un risto pub.

“Ingresso della Casa del Mutilato”. Foto di Leti Gagge.

Io da ragazzo abitavo nella stessa via e il palazzo faceva parte del mio tragitto quotidiano verso la scuola da me frequentata, il Liceo D’Oria. Ricordo che dell’edificio mi avevano colpito diversi aspetti: il suo disegno a bande marmoree bianco nere proprio come le chiese o i palazzi delle antiche e nobili famiglie genovesi, il primo.

La Casa del Mutilato infatti è suddivisa in due ali di cui la prima caratterizzata dall’alternanza del marmo bianco di Carrara e di quello scuro di Levanto, bianca monocroma, l’altra.

Sul cornicione della prima è scolpita la frase: “Il sacrificio è un privilegio di cui bisogna essere degni”.

“La statua della Vittoria di Guido Galletti”. Foto di Leti Gagge.
“La statua vista da un’altra prospettiva”. Foto di Leti Gagge.

La presenza di due statue una delle quali, la seconda, esposta quasi in disparte. Se infatti la dea alata della Vittoria armata di spada di Guido Galletti, sorveglia l’ingresso principale, quella di Eugenio Baroni (in realtà un bozzetto) è relegata di lato.  Una scultura quest’ultima rappresentante il Monumento al Mutilato dedicata a tutti i caduti della Grande Guerra che immortala una scena dal significato assai tragico: un fante esausto sorretto da una parte da una magra ed anziana signora incappucciata e dall’altra da un soldato che gli indica con un braccio mutilo di mano, l’avvenire di sofferenza che ha davanti.

“Il complesso scultoreo del Mutilato di Eugenio Baroni”. Foto di Leti Gagge.
“Primo piano delle statue in cui risaltano i volti allucinati”. Foto di Leti Gagge.
“Cannone della Grande Guerra”. Foto di Leti Gagge.

A questa statua è legato anche un piccolo ricordo personale che riguarda mio nonno materno insieme al quale, a volte, mi soffermavo ad ammirane le fattezze. Dietro di essa c’era un grande cespuglio di alloro dal quale raccoglieva le foglie e qualcuna, oltre che finire meno eroicamente nell’arrosto o nel polpo della nonna, la deponeva sul basamento. Non c’era bisogno di parole o spiegazioni del mio avo per capire l’intensità che quell’immagine sapeva sprigionare.

Infine la terza, la più importante, la scritta, o meglio il motto scolpito nella facciata, tra due teste di medusa che recita “La Guerra è la lezione della Storia che i popoli non ricordano mai abbastanza”. Un monito concepito dal presidente dell’Associazione Mutilati ed Invalidi di Guerra Carlo Delcroix.

Una lezione valida e attuale ancora oggi che, Benito Mussolini, non pago delle nefaste campagne colonialiste in Africa, evidentemente non sarebbe stato in grado di fare propria.

Di lì a poco infatti avrebbe ricondotto nuovamente il Paese in guerra.

Il Proembolon…

“L’Arme” o stemma della città di Genova  prevede la seguente rappresentazione: “D’Argento alla Croce di rosso; lo scudo è cimato da corona ducale col cimiero della testa coronata all’antica di Giano bifronte ed ha per supporti due grifoni affrontati d’oro; il tutto su di una base pregiata da una conchiglia d’oro, accompagnata da ciascun lato da una palma e dal rostro bronzeo di nave romana a testa di cinghiale, di colore verde.” Quest’ultimo elemento interpretato come una palese allusione all’antica vocazione marittima della città  si chiama proembolon, ed è la protuberanza sovrastante il rostro posta quasi all’altezza del ponte delle antiche navi romane.

“Lo Stemma cittadino”.

Fu rinvenuto nel 1597 nel fondale tra Ponte Spinola e la Darsena e nel 1815, dopo il congresso di Vienna venne, insieme a tutta l’armeria della nostra Repubblica che è rimasta abbandonata e dimenticata nei fondi senza essere mai stata esposta, rubata dai Savoia.

Ne esistono tre esemplari:

  1. l’originale custodito presso l’Armeria Reale di Torino
  2. una prima copia sita nel deposito provvisorio del deposito del museo di artiglieria presso la caserma Armione della città sabauda

    “La copia piemontese”. Foto di Eugenio Vajna de Pava.
  3. una seconda copia conservata presso il Museo di Pegli.

Per molto tempo il Comune ha lottato per riavere la singolare “scultura nautica”. La concessione massima fu, la possibilità per il Comune nel 1898, di acquistare una copia, in ghisa e gesso che restò nel museo di Palazzo Bianco fino al 1928 e che fu poi esposta prima nella sede del Museo Civico di Archeologia Ligure a Villetta Di Negro, quindi nel museo di Villa Durazzo-Pallavicini a Pegli, dove è ancora oggi murata nell’ atrio d’ingresso.

L’Assessorato alla cultura di Genova, varie associazioni culturali e non ultimo appelli come quello di Eugenio  Vajna de Pava, che ringrazio per le foto e le notizie, ne hanno chiesto la sacrosanta restituzione.

 

“O Lomelin o l’ha averto u portego”…

Nel loggiato del Palazzo Gio Batta Centurione in Via San Lorenzo n. 5 (meglio noto come Boggiano Gavotti) spicca il rilievo commissionato da Lorenzo Costa e realizzato da Santo Varni nel 1860. La scultura ricorda il celebre episodio del 1747, quando la rivolta popolare contro l’occupazione austriaca, iniziata nel dicembre del ’46 con le gesta del Balilla, del Carbone, di Ottone e degli altri ribelli si stava evolvendo in senso rivoluzionario. I rivoltosi, delusi dal comportamento dei reggitori della Repubblica, puntarono un cannone dritto contro Palazzo Ducale intenzionati a bombardarlo per dispetto contro quella borghesia che si era schierata con gli austriaci. Il senatore Giacomo Lomellini si pose a braccia aperte davanti all’arma e placò l’insurrezione. Da qui il proverbio “O Lomelin o l’ha averto u portego”, che sta ad indicare un gesto plateale non propriamente eroico.

“L’Isola che non c’è… più”

Camogli è uno dei borghi più suggestivi e affascinanti della Liguria, un luogo magico e ricco di storia, dove realtà e leggenda si fondono mirabilmente in un contesto inimitabile. Oltre ai racconti che ruotano intorno all’origine del suo etimo mi ha sempre incuriosito, ad esempio, la vicenda legata all’isola che c’era e che ora non c’è più, facendo riaffiorare alla mia mente i versi di una  celebre canzone, “L’Isola che non c’è”, di E. Bennato.

“Seconda stella a destra
questo è il cammino
e poi dritto, fino al mattino
non ti puoi sbagliare perché,
quella è l’isola che non c’è”…

“La targa della via che ricorda l’antico toponimo”.

Osservando la piazzetta antistante la chiesa di Santa Maria Assunta che precede la salita al castello si può intuire quanto descritto dalla maiolica, posta sul sagrato della basilica, che raffigura Camogli nel 1518 proprio come se fosse un’isola!

“Arrampicato sullo scoglio il Castello della Dragonara”.
“La spiaggia principale di Camogli con sullo sfondo la basilica di S. Maria Assunta”.

Tra il percorso del lungomare ed il porto è stato eretto un alto palazzo che, imitando l’architettura veneziana, non ha fondamenta ed è stato costruito su un lembo di mare. Un’imponente edificio che funge quasi da scenografica quinta teatrale per confondere il distratto osservatore. Effettivamente questa struttura sembra dilatare il continente quando in realtà il castello, la chiesa e le abitazioni che ne fanno da cornice, formavano una vera e propria isola, collegata alla terraferma con una stretta passerella di legno.

Nella sua opera “Descriptio orae ligusticae” lo storico ed umanista Jacopo Bracelli, descrive così Camogli nel 1448:
“Camuglio è un borgo antico composto in prevalenza da pescatori e marinai ed è difeso da un castello. Vista dal mare Camuglio, la contrada tutta non solo quella che è presso il mare, ma quanto le sue valli e i suoi colli, è pieno di bellissime case e di altri vaghi e belli palazzi, tale che navigando questa costiera, pare che tutta la contrada sia una bella città.
Da Camuglio comincia un capo che è dedicato a San Fruttuoso. Nelle sue acque c’è tanta pescosità di pesce ed inoltre dai monti che sono alle sue spalle se ne ricava legname che serve per costruire alberi e fasciame per le navi della Repubblica, al cui prestigio marinaro uomini di Camogli vi sono imbarcati ed abili costruttori lavorano per le flotte genovesi e della Toscana.”

“Il Castello della Dragonara”.
“La Croce di San Giorgio sventola orgogliosa sul torrione del castello”.

Era costituita da un sistema difensivo di fortificazioni di cui il principale componente era il Castel Dragone o della Dragonara di cui si hanno notizie fin dal 1130. Sull’isola si trovano anche un altro piccolo baluardo, il Rivellino e la chiesa di Santa Maria Assunta, sorta per assistere religiosamente i militari di stanza al castello e la popolazione che si rifugiava entro le mura dell’isola per difendersi dalle razzie dei corsari o dagli attacchi delle fazioni nemiche del governo genovese da cui dipendeva Camogli.

“La scogliera su cui si staglia il castello”.

Il paese faceva parte del territorio della Repubblica di Genova che nei secoli XIV e XV  patì un periodo di tribolate vicissitudini governative a causa del bellicoso alternarsi al potere delle famiglie nemiche.

Per questo motivo il Castel Dragone fu oggetto di numerosi attacchi e subì in svariate occasioni gravi danni, a tal punto da essere a più riprese, parzialmente distrutto e ricostruito.

La scomparsa, o meglio la trasformazione dell’isola, avvenne dopo la prima metà del XV secolo quando si decise di unirla alla terraferma.

“La competizione tra il mare e il tempo trova a Camogli il suo naturale palcoscenico”.

Venne così a formarsi una piccola spiaggia di 50 metri di lunghezza e di 30 metri di larghezza sulla quale durante l’inverno le imbarcazioni camogliesi utilizzate nella pesca e nei commerci venivano tirate a secco e messe al sicuro.

“Vista dall’alto si può facilmente immaginare la morfologia dell’isola”.

Con un piccolo sforzo d’immaginazione vi troverete aggrappati ad uno scoglio accarezzato dal mare nella Camogli del ‘500 e, come d’incanto, l’isola che non c’è si materializzerà davanti ai vostri occhi e sotto i vostri piedi.

“Forse questo ti sembrerà strano
ma la ragione
ti ha un po’ preso la mano
ed ora sei quasi convinto che
non può esistere un’isola che non c’e.

se continui a cercarla
ma non darti per vinto perchè chi ci ha già rinunciato
e ti ride alle spalle
forse ancora più pazzo di te!”.

In Copertina: la maiolica posta sul sagrato della Basilica di Santa Maria dell’Assunta di Camogli.

Il Castello Türke…

Si staglia imperioso sul Capo di S. Chiara a dominare la spiaggia di Sturla e il Borgo di Boccadasse. Il castello Türke venne eretto nel 1903 dall’architetto fiorentino Gino Coppedè già progettista, fra le altre, di opere assai apprezzate quali il castello Mackenzie prima e quello Bruzzo poi.

Il successo riscontrato per questo suo fiabesco immaginare gli valse numerose committenze da parte della più ricca borghesia cittadina. Sua, ad esempio, anche la firma sulla villa che porta il suo nome in Via Rossetti nel quartiere di Priaruggia e, soprattutto, sulla scenografica e faraonica realizzazione dell’Expo d’Igiene Marina e Colonie del 1914 in occasione della quale, tra Piazza della Vittoria e Piazza Verdi, ideò una vera e propria città nella città.

“Il Castello, visto dal mare, domina il Capo di S. Chiara”.

Per quanto concerne il castello di Sturla la forma adottata è un miscuglio di linguaggi, detto “floreale” in cui si armonizzano diversi stili; dal borghese al moresco, dall’assiro babilonese al medievale, con citazioni del Palazzo della Signoria della natia Firenze, fino al gotico e al neoclassico.

Il Castello Türke, o “del Turco” come comunemente identificato dai residenti del luogo, fa ormai parte di uno degli scorci paesaggistici più suggestivi della città.

“O caroggio do fi u nu va ciù dritu a San Loenso”…

Carrubeo Fili questo era il suo antico nome. Il toponimo trae origine dalla zona dove fino al XIV sec. si lavorava il lino. Nel 1400 vi si stabilirono anche le botteghe dei copisti, gli artigiani che riproducevano i manoscritti su pergamena decorandoli con preziose miniature.

Per secoli, prima del riassetto urbanistico iniziato nel 1835, il vicolo si dipanava in salita, districandosi in un dedalo intricato di caruggi, fino a pochi metri dalla porta di destra della cattedrale. La sistemazione del quartiere si era resa necessaria sia per fornire il duomo di una piazza degna di tal nome, che per dare adeguato sfogo alle merci che transitavano in Piazza Caricamento.

Ebbe così origine, in quell’epoca, il celebre detto “O caroggio do fi u nu va ciù dritu a San Loenso”, ovvero il caruggio del filo non va più dritto in San Lorenzo, ad indicare che a volte, purtroppo, le cose vanno storte e non più dritte come ai bei tempi.

“Edicola di Vico del Filo all’incrocio con Vico Cinque Lampadi”.

Dell’antico percorso oggi rimane traccia fino al punto in cui, a pochi passi da San Lorenzo, il caruggio gira a sinistra spegnendosi nel loggiato di Palazzo Cicala.

“Le Oche di Albert”…

Dietro la chiesa delle Vigne, nel cuore della città vecchia, si trova uno dei tanti angoli nascosti e poco noti ai genovesi stessi. Si tratta di Piazzetta delle Oche, uno spiazzo triangolare privato appartenuto nei secoli passati alla nobile famiglia dei Vivaldi, la stessa che ha dato i natali agli intraprendenti navigatori ispiratori del “folle volo” dantesco.

“La caratteristica forma triangolare della Piazzetta”.

Veniva utilizzata come aia, popolata da muli e altri animali da cortile che vi razzolavano in libertà. Ma, a farla da padrone, come in Campidoglio, era un gruppo di starnazzanti oche. Di qui il toponimo testimoniato da un murale che le raffigura.

In questo luogo nel lontano 1895 dimorò per qualche mese un ragazzotto di nome Albert Einstein. A sedici anni, il futuro Premio Nobel della Fisica giunse a Genova, dopo aver attraversato a piedi la Val Trebbia.

Era partito da Pavia dove, in seguito ad un’accesa discussione, aveva abbandonato la casa dei genitori.

“Il Portone del Palazzo che ha ospitato il fisico tedesco”.

Einstein era stato infatti, lui futuro genio della scienza, appena bocciato all’esame di ammissione al prestigioso Politecnico di Zurigo. Così, deluso, aveva deciso, preso il suo inseparabile violino, di recarsi nella città di Paganini, ospite di Jacob Koch, lo zio materno mercante di grano all’ingrosso che nella piazzetta aveva ufficio e dimora.

Rimangono traccia nei suoi appunti genovesi dell’ammirazione per la Cattedrale di San Lorenzo, dello splendore di Strada Nuova e soprattutto delle golose prelibatezze della Pasticceria Romanengo di Campetto.

Ed io me lo immagino il giovane Albert ingurgitare manciate di frutta candita ed ogni genere di leccornie da Romanengo, mentre Verdi, il genio della musica, è seduto lì vicino da Klainguti, a pochi passi, intento a gustare i suoi prediletti “Falstaff”.

A Genova ebbe modo di conoscere Ernestina Marangoni con la quale instaurò, mantenendo un fitto rapporto epistolare, un duraturo e sincero rapporto di amicizia.

In una di queste lettere, molti anni dopo, il grande scienziato ormai all’apice del successo scriveva in un incerto italiano: “I mesi felici del mio soggiorno in Italia sono le più belle ricordanze”.

“La lapide affissa in ricordo del soggiorno genovese di Einstein”.

A ricordo dell’illustre ospite, a cura dei condomini del palazzo, è stata di recente affissa una lapide che ne testimonia il gradito soggiorno.

“Non ho alcun talento particolare. Sono solo appassionato e curioso” disse il fisico e se “La logica vi porterà da A a B. – aggiunse – “L’immaginazione vi porterà dappertutto”…

Soprattutto a Genova…