Pentema è una frazione di Torriglia (Ge) nota per il suo pesto bianco e soprattutto per il suo celebre presepe.
Il borgo di Péntema che si trova alle falde del monte Antola, è un agglomerato di abitazioni fitte che si allungano sul declivio, dominate dalla grande chiesa, tra muretti a secco e strette viuzze di pietra, sulle quali affacciano i balconi coperti tipici dei paesi dell’entroterra.
In questo suggestivo scenario è stato allestito un presepe contadino che racconta momenti di vita quotidiana dei nostri antenati ricostruiti a grandezza naturale con grande cura e realismo.
Ed è così che le strade del paese si popolano di personaggi fedelmente riproposti anche nei volti degli abitanti di un tempo; i pastori, il falegname, l’ortolano, il fabbro, il cestaio, il barbiere, il ciabattino, il magnano (ovvero il ferramenta di un volta) diventano protagonisti del loro stesso passato.
I volti delle figure -racconta Don Cazzulo- sono stati infatti scolpiti da un artigiano del paese riprendendo i tratti dei compaesani del passato e, per allestire le 40 scene realizzate nel corso di 27 anni, occorrono due mesi di duro e appassionato lavoro.
A completare la narrazione del tempo che fu è presente un piccolo centro multimediale che, corredato di foto d’epoca e un filmato in DVD, racconta la storia di questa vallata.
In Copertina: la Natività. Foto di Antonio Corrado.
La prima intitolata al sacerdote Francesco Maria illustre storico e geografo genovese del ‘700.
La seconda dedicata invece ad Emanuele capitano ed eroe, insieme al più celebre Andrea Doria, della leggendaria impresa della Briglia.
Ad inizio ‘500 queste due strade che si chiamavano Monta dell’Agonia (Salita Cavallo) e Monta della Morte (Salita Accinelli) erano le uniche creuze attraverso le quali era possibile giungere alla zona preposta alle impiccagioni del Castellaccio.
I condannati le percorrevano entrambe: da vivi la prima all’andata, e da cadaveri la seconda al ritorno.
In Copertina: Salita Emanuele Cavallo. Foto di Antonio Corrado.
«Davanti ai negozi de tûtti i speziæ, esposti in bell’ordine pe mettine coæ gh’è un mûggio asciortio de belli offiçieu delizia, sospio de tanti figgieu»
(Nicolò Bacigalupo 1837-1904). Poeta e drammaturgo genovese autore, fra l’altro, di alcune celebri commedie di Govi.
I versi del poeta ci regalano un nostalgico spaccato delle tradizioni dei nostri nonni quando bastava un offiçieu per far contento un bambino e la festa di Halloween apparteneva solo al mondo anglosassone.
Gli offiçieu sono delle candele con un lungo cerino bianco, colorato e decorato da un sottile filo argenteo, piegato più volte fino a conferire la caratteristica graziosa foggia -appunto- ad officiolo (libretto per la recita dell’ufficio dei Morti).
Successivamente vennero aggiunte le forme a scarpette, cappellini, fiaschette, cestini e borsine fino alle più fantasiose recenti rappresentazioni.
Sugli offiçieu si appoggiavano i santini o le immaginette religiose e venivano utilizzati sia per i rosari in casa che per le funzioni serali nelle chiese durante il periodo compreso tra la novena dei morti (24 ottobre) e la commemorazione dei defunti.
L’origine degli offiçieu è incerta. Probabilmente i primi a realizzarli furono le suore di un convento femminile della Val Fontanabuona zona dove infatti quest’antica usanza resiste.
Di certo gli offiçieu, noti anche come òfiçieu, öffiziêu cambiano nome a seconda della zona ma sono patrimonio comune di tutta la Liguria.
A Chiavari si chiamano muchetti, libaeti nel levante ligure e ceiotti ad Imperia e nel ponente.
Tra Piazza Cavour e via delle Grazie si trova il vico dei Mattoni Rossi che da il nome anche al principale palazzo che vi si affaccia.
Curioso l’equivoco che si è generato in relazione alla genesi del toponimo che non è, come invece erroneamente ritenuto, legato al colore del laterizio.
L’origine corretta del sito rimanda infatti ai nomi delle famiglie Rossi e Matoni che abitavano un tempo in loco.
L’associazione ai mattoni rossi intesi come elemento cromatico è dunque dovuta all’arbitraria annotazione di un burocrate piemontese ottocentesco che contribuì così a creare confusione.
Chissà se l’architetto che sul finire del secolo scorso si è occupato della ricostruzione è caduto anch’egli nell’equivoco o vi ha giocato caratterizzando appunto l’edificio con tanti bei mattoncini rossi?
In Copertina: l’edificio dei Mattoni rossi sito nell’omonimo vico.
Sullo spiano della collina a 180 mt. s.l.m. nel 1100 sorgeva una piccola chiesa dedicata a Santa Tecla.
La zona nel ‘300 divenne proprietà del doge Simone Boccanegra che qui eresse alcuni suoi edifici. Fra questi Il castello è ancora oggi visibile, utilizzato come suggestiva quinta per eventi e congressi, nei giardini dell’ospedale San Martino.
Nel 1747 dopo lo scampato pericolo dell’assedio austriaco Genova sentì l’esigenza di rafforzare e puntellare l’ormai obsoleta secentesca cinta muraria con un sistema di nuove fortificazioni.
Il Forte di Santa Tecla fu uno dei primi quattro forti (insieme al Richelieu, al Quezzi e al Diamante, ad essere progettato.
La costruzione fu iniziata nella seconda metà de Settecento e quasi subito interrotta. Proseguita con scarsi risultati in età napoleonica e portata avanti, fino al completamento (con modifiche al progetto) dopo l’annessione di Genova al Regno di Sardegna 1815.
Alle strutture edificate inizialmente infatti fu integrata una ridotta casamatta. Tale ridotta su due piani era destinata a quartiere e presidio per i soldati, locale per la Cappella, Santa Barbara (polveriera), corpo di guardia, alloggio per gli ufficiali, prigioni, magazzini per legna e provviste alimentari.
Durante l’assedio austriaco del 1800 passato alla storia per la stoica resistenza del generale nizzardo Massena comandante della Piazza di Genova, il forte faceva parte dei cinque contraforti previsti al presidio del settore orientale della città.
In proposito annotava il Tiebalt:
“Il secondo controforte è quello, su cui si trova il Forte di Santa Tecla, la cui costituzione non è finita, ma che con un grande sforzo in pochi istanti può esser posto al coperto degli insulti, e fare grande effetto su tutte le parti della posizione di Sturla e di Albaro. Questo Forte vede tutti i rovesci del primo contro forte, tutte le ondulazioni dei contorni di Albaro, tutti i rovesci della Madonna del Monte, che sarebbe pericolosissimo lasciare occupare, e finalmente assicura la comunicazione della Piazza col Forte Richelieu”.
Dopo aver resistito di nuovo agli austriaci, sotto il governo sabaudo ad opera del Corpo del Genio Sardo, il forte nei primi decenni del secolo venne ristrutturato, rafforzato e ampliato con la costruzione della caserma centrale.
A questo periodo risale appunto l’affissione sul varco principale dello stemma dei Savoia.
“Ha un tracciato a doppia opera a corno, con i mezzi bastioni rivolti a nord e sud che vanno a formare due tenaglie rivolte a est e ovest. Particolarmente interessanti le casematte per artiglieria dei due mezzi bastioni rivolti a nord e il cavaliere sulla cortina che le collega. Fa parte della linea di difesa orientale della piazzaforte formata dai forti San Giuliano, San Martino, Santa Tecla, Richelieu e Monteratti (ciascuno in posizione dominante rispetto a quello che lo precede) e completata, in posizione arretrata a copertura del suo fianco nordoccidentale, dal forte Quezzi e dalla torre Quezzi (un torrione casamattato).” Prof. Emiliano Beri.
Concepito su tre ordini concentrici di mura poteva ospitare nella conformazione ordinaria circa cento soldati che alla bisogna potevano aumentare fino ad oltre quattrocento unità.
Nel 1849 durante i moti insurrezionali contro i Piemontesi fu per un breve tempo occupato dai ribelli e subito recuperato dagli oppressori sabaudi.
Durante la prima guerra mondiale rivestì anche la funzione di carcere per i prigionieri austriaci.
Abbandonato dai militari nel dopoguerra fu fino agli anni ’80 abitato abusivamente da sfollati ed emigrati.
Oggi il forte è fruibile grazie all’opera dei volontari dell’associazione Rete Forte di Santa Tecla che si occupa del mantenimento e della valorizzazione della struttura. Fra gli ambiziosi progetti futuri oltre ad alcuni importanti interventi conservativi, la volontà di bonificare e attrezzare l’area esterna antistante per renderla uno spazio verde godibile da tutti.
In Copertina: Il Forte di Santa Tecla. Foto del Prof. Emiliano Beri.
Fonti: Mura e Fortificazioni di Genova di Carlo Dellepiane.
Sul lato di levante delle Mura Nuove erette nel 1637, subito dopo il Castellaccio, è situata la Porta delle Chiappe (o di S. Simone). Il Brusco indicava il tracciato di una «strada che conduce alla Baracca del Puin, alla Torrazza e a Croce d’Orero».
In origine, come indicano chiaramente i disegni del Codeviola, la Porta esterna di S. Simone non aveva ponte levatoio, ma una semplice rampa in legno, posta a passerella che conduceva al piazzale esterno; nelle successive trasformazioni del XIX sec. l’intero piano della galleria fu abbassato di circa m. 1,30 e di conseguenza furono abbassate le arcate dei due portali estremi. Su quello esterno, incorniciato da un arco in pietra, fu sistemato un ponte levatoio di cui rimangono solamente i fori per il passaggio delle catene di sollevamento. I due stipiti della Porta furono rinforzati da due paraste in mattoni che salivano verticalmente fino alle mensole della garitta. Infine l’intero piano superiore fu demolito e spianato per permettere il passaggio della strada militare, che doveva proseguire senza interruzioni, lungo i rampari del Bisagno fino allo Sperone.
Tratto da “LeFortificazioni di Genova” di Leone Carlo Forti)
In Copertina: Porta delle Chiappe. Foto di Giovanni Cogorno.
Nel 1893 a marzo la Principessa Sissi venne a Genova in incognito, a settembre nacque il Genoa CFC e di lì a poco si stabilì la costruzione del Mercato Orientale.
Con delibera pertanto del 21 ottobre di quell’anno vennero incaricati gli ingegneri comunali Veroggio, Bisagno e Cordoni per dare una sede stabile al mercato dei prodotti agricoli che arrivavano dalla val Bisagno.
Fino a quel momento infatti i bezagnini portavano le loro merci nelle piazze di De Ferrari e dell’Annunziata.
Il nome del nuovo mercato derivava dal fatto che la sua posizione era ad oriente rispetto al centro cittadino di allora.
Il Mercato Orientale di Genova si trova nella scenografica area del chiostro del convento degli Agostiniani annesso alla chiesa della Consolazione.
Del chiostro originario, il mercato comprende i colonnati ai lati posti verso la chiesa e verso la via XX Settembre nonché il portale chiuso sulla piazzetta di accesso al mercato da via Galata, mentre gli altri due lati sono stati completati con la realizzazione del mercato.
In occasione di tale conversione il Mercato Orientale fu il primo edificio costruito a Genova in calcestruzzo armato con la tecnica del sistema Hennebique.
Il mercato fu concepito all’aperto ed è stato successivamente coperto da lucernai per aumentare lo spazio interno disponibile. Le decorazioni sono in marmo bianco, mentre l’originale pavimento in pietra è oggi purtroppo parzialmente coperto da cemento. L’ala dell’edificio affacciata su via XX Settembre ha ospitato per anni gli uffici finanziari, dal 1931 trasferiti nella nuova imponente sede di via Fiume.
In quella sede 40 anni più tardi mio padre vi avrebbe ricoperto il ruolo di Direttore ed ogni giorno terminato il lavoro, lui grande cultore della buona cucina, in quel mercato vi si recava fiducioso di trovare quel che cercava.
Il Mog occupa una superficie di 5500 metri quadrati. Comprende un piano sotterraneo suddiviso in 42 magazzini ed un pianterreno formato da un porticato perimetrale colonnato che si sviluppa per circa 360 metri. Il mercato ha cinque accessi, di cui due da via XX Settembre, compreso l’ingresso principale a cinque arcate, due da via Galata e uno da via Colombo.
I lavori finalmente si conclusero nel luglio del 1898 e il 2 giugno 1899 il mercato fu inaugurato dal sindaco Francesco Pozzo con una mostra floreale.
Nel dicembre 2017 è stato presentato un progetto per il restauro conservativo e la valorizzazione del piano rialzato dell’edificio, dove è stato realizzato un food market con bar, postazioni per degustare prodotti tipici, scuola di cucina e uno spazio per incontri culturali ed eventi.
La nuova struttura purtroppo inaugurata in pieno covid nel maggio 2019 è oggi, animata dai suoi vivaci locali, assai frequentata.
Il Mog di Genova ha saputo dunque modernizzarsi strizzando l’occhio allo street food, senza per questo rinunciare alla sua storia. Colori, aromi e profumi, sono quelli di sempre.
Se da una parte purtroppo sono quasi sparite le antiche tripperie (ne è rimasta una sola) che occupavano l’ala lato via Galata, dall’altra bezagnini, pesciai, formaggiai, maxellai, pollerie e gastronomie varie continuano ancora a farla da padrone. Qui si trovano primizie ed ogni genere di mercanzie altrimenti difficili da reperire altrove.
A proposito di mercati storici tutti conoscono la celeberrima e più antica Boqueria di Barcellona costruita nel 1836 che in Catalogna è divenuta addirittura una ricercata attenzione turistica.
Credo che il nostro Mercato che è grande il doppio e non meno storicamente affascinante della Boqueria possa in futuro, seguendone l’esempio, ottenere lo stesso successo.
La rappresentazione della natività si dipana fra la città e il porto di Genova con figure orientali che rappresentano da sempre la multi etnicità di una città aperta ai commerci e al mondo.
Il presepe in vetrina – come battezzato dai suoi curstori Giulio Sommariva e Simonetta Maione – dei Musei di Strada Nuova è stato allestito a Palazzo Rosso in una scenografica teca, visibile da via Garibaldi.
Le statuine che animano le scene con la Sacra Famiglia, i pastori e i nobili sono in gran parte dovute all’opera di Pasquale Navone che, pur nato dopo la morte del Maestro, si formò alla bottega del Maragliano.
In tutto circa 30 statuine – alcune delle quali provenienti dalle collezioni civiche, in particolare dal Museo Giannettino Luxoro di Nervi – ispirate dalle stampe seicentesche e settecentesche dell’incisore Antonio Giolfi e del pittore fiammingo Cornelis de Wael. Si riconoscono ad esempio Piazza Banchi e ponti Spinola, Reale e Calvi sotto la futura Piazza Caricamento.
Si tratta di figure a manichino in legno con parti visibili scolpite e policromate e rivestite con tessuti pregiati, tra i quali sete finemente ricamate e tele jeans del 700.
Il presepe è illuminato e visibile anche la sera per tutti coloro che si troveranno a transitare in via Garibaldi e resterà aperto fino al 5 febbraio.
Quando si pensa ai Liguri l’associazione con il mare, vista la gloriosa storia della Repubblica marinara e dei suoi intrepidi naviganti, diventa imprescindibile.
Eppure i Liguri, che sono da considerarsi la più antica popolazione italica di cui si abbia notizia, erano essenzialmente dei montanari costretti per necessità a navigare.
La fonte più antica che cita i Liguri è rappresentata dalla versione di un frammento di Esiodo (fine VIII-inizi VII secolo a.C.), riportato da Strabone che cita i Liguri (Libuas, Libui o i Libi) insieme agli Etiopi e agli Sciti come i più antichi abitanti del mondo: “Etiopi, Liguri e Sciti allevatori di cavalli”.
Esiodo considera i Liguri la principale Nazione dell’Occidente, elencate i tre grandi popoli che definisce barbari, che controllavano il mondo allora conosciuto, gli Sciti a Oriente, gli Aetiopi nell’Africa, i Liguri a Occidente.
Ad esempio Diodoro Siculo descrive una razza di individui “tenaci e rudi, piccoli di statura, asciutti, nervosi… Costoro abitano una terra sassosa e del tutto sterile e trascorrono un’esistenza faticosa ed infelice per gli sforzi e le vessazioni sostenuti nel lavoro. E dal momento che la terra è coperta di alberi, alcuni di costoro per l’intera giornata, abbattono gli alberi, forniti di scuri affilati e pesanti, altri, avendo avuto l’incarico di lavorare la terra, non fanno altro che estrarre pietre… A causa del continuo lavoro fisico e della scarsezza di cibo, si mantengono nel corpo forti e vigorosi. In queste fatiche hanno le donne come aiuto, abituate a lavorare nel medesimo modo degli uomini. Vivendo di conseguenza sulle montagne coperte di neve ed essendo soliti affrontare dislivelli incredibili sono forti e muscolosi nei corpi… Trascorrono la notte nei campi, raramente in qualche semplice podere o capanna, più spesso in cavità della roccia o in caverne naturali… Generalmente le donne di questi luoghi sono forti come gli uomini e questi come le belve… essi sono coraggiosi e nobili non solo in guerra, ma anche in quelle condizioni della vita non scevre di pericolo” (Diod. IV,20,1.23).
L’esigenza di navigare, abilità poi perfezionata al tempo dei greci e dei romani, nasce in epoca antichissima quando i Liguri erano noti nel Mediterraneo per il commercio della preziosissima ambra baltica e, per questo, erano detti Ambrones. Con lo sviluppo delle popolazioni celtiche i Liguri si ritrovarono a controllare un cruciale accesso al mare, divenendo (a volte loro malgrado) custodi di un’importante via di comunicazione.
«Navigano eziandio per cagione di negozi pel mare di Sardegna e di Libia, spontaneamente esponendosi a pericoli estremi; si servono a ciò di scafi più piccoli delle barchette volgari; né sono pratici del comodo di altre navi; e ciò che fa meraviglia, si è che non temono di sostenere i rischi gravissimi delle tempeste.»
Il mare allora diventa ambito indispensabile per il sostentamento quotidiano (pesca), per il commercio con la speranza sempre rivolta oltre quell’azzurro infinito orizzonte.
Ma il mare significa anche lontananza da casa, precarietà, guerra, invasioni nemiche, tempeste, paura di perdere i propri beni, la morte. Un’eterna scommessa dunque sintetizzata con essenziale pragmatismo dall’atavico detto popolare:
O mâ o l’é o mâ (il mare è il mare/male) palindromo che si può leggere anche in senso inverso.
Non a caso mare e male in lingua genovese si scrivono e pronunciano alla stessa maniera.
In Copertina: mareggiata a Deiva Marina (Sp). Foto di Anna Daneri.
In Piazza delle Erbe sul fronte del palazzo al civ. n. 6r che ospita il celebre Bar Berto si trova un’edicola del XIX secolo raffigurante la Madonna col Bambinello e San Domenico.
All’interno di una cornice rettangolare in stucco con decorazioni e motivi geometrici policromi è collocato un dipinto di autore ignoto.
Il Santo è in ginocchio in atto di adorazione mentre alcuni angeli sorvolano la Vergine e il Bambinello.
Alla base della cornice in rilievo un cherubino alato.