Dalla spianata, dove un tempo sorgeva il temuto Castelletto, si gode senza dubbio del panorama più affascinante della città: sullo sfondo di una distesa di mare turchino si ha l’impressione di accarezzare con lo sguardo un tappeto di tetti d’ardesia.
Campanili che, come diceva Faber, “segnano il confine tra la terra e il cielo”, torri insolenti che sfidano il firmamento e palazzi da re, in una città che di re non ne ha mai voluti.
Davanti a cotanto spettacolo Giorgio Caproni compose la sua celebre lirica nella quale immaginava di salire in paradiso a bordo dell’ascensore che lì lo aveva condotto. Eh si perché Genova nell’immediato dopoguerra, con le macerie dei bombardamenti, proprio un inferno doveva apparire. Un paesaggio desolato che mano a mano che il poeta completava la sua ascesa svelava la sua incomparabile bellezza tramutando l’inferno in paradiso.
Costruito nel 1909, completamente in stile liberty (le cabine son state rifatte nel 2010 in occasione dei suoi cento anni), copre un dislivello di 57 metri, dalla spianata di Castelletto fino a piazza del Portello. Nella seconda strofa de “L’Ascensore” (1948) Giorgio Caproni verseggiava:
“Quando mi sarò deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore notturne,
rubando un poco
di tempo al mio riposo”.
E un inferno certamente era sembrata la Superba a Hermann Melville che così annotava nei suoi appunti nella primavera del 1857:
“La costa verso il sud. Un promontorio. Tutta Genova e le sue fortezze, la loro esterna solitudine. La desolazione, l’aspetto selvaggio delle valli che intercorrono sembrano fare di Genova la capitale e il campo fortificato di Satana; fortificato contro gli Arcangeli. Le nuvole che si addensano sui bastioni sembrano immaginarie. Sono andato sulla parte orientale del porto e ho cominciato il giro della terza linea di fortificazioni”.
E nell’Inferno il Sommo Dante aveva collocato i genovesi: fra i traditori pose, infatti, Branca Doria ancor vivo, reo di aver fatto a pezzi il suocero Michele Zanchè per impossessarsi dei suoi possedimenti sardi.
Come racconta il Foglietta nei suoi resoconti il Poeta, giunto nella Dominante, “fu solennemente bastonato sulla pubblica via dagli amici e dai servi di Brancaleone.
Da questa offesa, non potendo il Sommo, vendicarsi con le mani, si vendicò con le parole e la penna”. Da qui la celebre invettiva scolpita nel Canto XXIII dell’Inferno, versi 151-153:
“Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogni magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?”.
Il “Ghibellin fuggiasco” prende inoltre a modello, dopo averla attraversata entrandovi da Lerici, l’aspra nostra terra, per descrivere la montagna del Purgatorio:
“Tra Lerice e Turbia la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole ed aperta”.
(Canto III del Purgatorio, verso 49-51).
E se avesse ragione Faber nei versi di “Preghiera in Gennaio” dedicata all’amico Tenco, morto suicida?
“Venite in Paradiso
Là dove vado anch’io
Perché non c’è l’inferno
Nel mondo del buon Dio”…
“Dio di misericordia
Il tuo bel Paradiso
L’hai fatto soprattutto
Per chi non ha sorriso
Per quelli che han vissuto
Con la coscienza pura
L’inferno esiste solo
Per chi ne ha paura”.
La Piazzetta dei Cambiaso deve il nome alla nobile famiglia proveniente da San Cipriano in Val Polcevera che ha dato alla patria due dogi e numerosi senatori. A questa schiatta appartiene anche il famoso Luca, il celeberrimo pittore cinquecentesco nato a Moneglia dove suo padre si era trasferito per sfuggire ai rastrellamenti delle truppe borboniche che, appunto, si erano accampate in Val Polcevera.
Lo spiazzo dei Cambiaso, nonostante l’inopportuna presenza, in un contesto così antico di una moderna edicola del XIX sec, costituisce tuttora un affascinante scorcio da far invidia a certi tanto decantati angoli parigini. Tale edicola plasmata nello stucco e dipinta con una Madonna Addolorata fu infatti posta in sostituzione di quella originaria, di cui non si ha più traccia e a cui si doveva il nome dello slargo una volta chiamato Piazza dei sette dolori o del Dolore.
La dimora che subì gravi danni durante i bombardamenti del 1942/43, come del resto gran parte dei palazzi attigui, è un piccolo scrigno dove sono custodite diverse preziose testimonianze:
ad esempio l’atrio del XVI sec. Palazzo Fattinanti, poi Cambiaso sede del teatro Hop Altrove, dal quale si accede al loggiato varcando un semplice portale marmoreo ornato da lesene con capitelli scolpiti con testine e al centro del trave un cartiglio vuoto.
La famiglia Cambiaso fu ascritta al patriziato nel 1576 e fu probabilmente a partire da questa data che costoro si occuparono di abbellire il palazzo commissionando importanti opere agli artisti più in vista del tempo. Ciò che rimane della decorazione murale ad affresco pare infatti riferibile alla cerchia di Andrea Ansaldo (1584-1638) mentre quella a grottesche che adorna la volta dell’atrio e delle scale, nella quale si notano affinità con le decorazioni delle volte nel vicino Palazzo Imperiale, furono eseguite da Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco (1525-1569) e ultimate appunto dall’Ansaldo.
Di notevole interesse risulta essere altresì un affresco di autore ignoto che raffigura una finestra aperta su di un tipico paesaggio della Genova tardo cinquecentesca.
La scala si snoda elegante ed è resa ancor più scenografica dagli affreschi delle volte e dalle colonne corinzie. I capitelli sono scolpiti con piccole cornucopie, fogliame, pissidi e piccole teste leonine. Sul capitello della colonna ad inizio scala è inciso lo stemma del casato.
Durante alcuni lavori di ristrutturazione nel loggiato del primo piano sotto l’intonaco sono emersi pittoreschi brani di azulejos. Sul muro a fianco sono stati rinvenuti resti in pietra e laterizio dell’edificio originale e con essi un’interessante testimonianza di tubazioni in ceramica a trombette delle condotte dell’acqua, il tipico sistema genovese di ripartizione detto a ”piceda”.
Nel quartiere di Carignano alla confluenza fra Corso Podestà e Via Mura di S. Chiara scende la sinuosa ed elegante scalinata Camillo Poli. Uno spazio un tempo occupato dalle imponenti mura cinquecentesche del Prato, delle Cappuccine e di Santa Chiara, con i possenti bastioni che dominano la parte di Levante del centro affacciati sull’odierna Piazza della Vittoria.
Lo scalone è intitolato al medico piemontese di nascita, ma genovese d’adozione, fondatore dell’associazione genovese contro la tubercolosi (1905 – 1973) malattia della quale si occupò tutta la vita. L’opera venne costruita nell’ambito dei lavori di risistemazione di Piazza della Vittoria negli anni ’30 presentati da Marcello Piacentini, il progettista esponente di spicco dell’architettura razionalista. Questi la concepì in stile neo liberty con lo scopo di fornire un coreografico e aulico collegamento alla zona delle Fronti Basse della zona attigua al Bisagno, con la soprastante collina di Carignano.
La scelta della forma ellittica accentua il carattere neo barocco della composizione di chiara ispirazione romana. Tale geometria nel linguaggio propagandistico romano era destinato agli anfiteatri e, in genere, agli spazi celebrativi della magnificenza dell’impero; ellittici sono i viali di circonvallazione attorno al monumento ai caduti; è pseudo ellittico il segno imposto su piazza Verdi per rendere più morbide le linee di uno spazio irregolare, geometrizzato dal rigore dei palazzi porticati, naturale prosecuzione di quelli di via San Vincenzo.
A me che ho frequentato il quartiere per 25 anni, scendendo i gradini di Scalinata Poli, sovvengono gli struggenti versi della lirica di Eugenio Montale “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale” (1967). Struggente come è il ricordo degli occhi cerulei di mia madre l’ultima volta che l’ho accompagnata per una visita al vicino Ospedale Galliera.
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Anticamente nelle mappe la contrada era indicata come Piazza della Foglia a causa della presenza di una bottega di foglie di granoturco, meliga in lingua genovese, utilizzate per l’imbottitura dei pagliericci. Il toponimo mutò intorno al 1795 per via di una locanda esistente in loco dal 1774 rinomata per la preparazione di selvaggina e cacciagione.
Non è da escludere tuttavia il legame con il casato della famiglia Lepre che nel Medioevo aveva qui le sue proprietà. Il vicolo che inizialmente era la prosecuzione del Vico della Torre delle Vigne, solo nel 1864 assunse l’attuale denominazione rimasta legata nella toponomastica cittadina per la presenza fino al 1958 di una delle più apprezzate case di tolleranza della città.
Al civ. n. 9 si può ammirare lo splendido portale in pietra nera con medaglioni imperiali fra nastri svolazzanti del Palazzo Grimaldi Di Negro. La dimora che al suo interno custodisce una delle meglio conservate testimonianze di rivestimento, lungo le prime tre rampe di scale, in azulejos. La trave è ornata con due angeli alati che sorreggono uno stemma abraso a forma di cavallo. Oltre alle pissidi, nei sovra capitelli, si notano degli uccelli esotici, forse cicogne. Al vano scale, decorato con un paio di lapidi in pietra nera, si accede attraverso una cornice ad arco tondo del medesimo materiale con fregi di fogliame a spirale. La scala è adornata con colonne fornite di capitelli e con balaustre marmoree.
Vicino al portale in alto è ancora leggibile il numero 400 che ci riporta all’antica numerazione divisa in sestieri, antecedente quella ottocentesca introdotta dai Savoia che ancora oggi utilizziamo.
Guardando verso l’alto, al livello del secondo e terzo piano, subito si notano i resti di archi in pietra bicroma successivamente tamponati e riempiti con finestre posticce. Fra queste risalta quella del primo in marmo con doppio arco tondo e colonnine con al centro il rilievo di una testa imperiale.
Anche l’accesso a Vico Lepre n. 5 è impreziosito da un altro portale marmoreo del XVI sec. con semi colonne ioniche scanalate. Sul trave, fra piccole cornucopie onuste di frutti e conchiglie, si affacciano due mascheroni ghignanti. Forse a ricordarci che i suoi abitanti erano signori della terra e del mare. Al centro campeggia il cartiglio che recita: “Qvodcvnqve Boni Egeris / Ad Devm Referto”.
Trad. “Riferisci a Dio qualunque cosa avrai fatto di bene”
E sicuramente bene svolgevano la loro professione le ragazze appunto del Lepre, la casa di tolleranza nota fra i suoi clienti anche con il poetico nome di “Casa dalle persiane chiuse”, che qui aveva sede.
Il centro storico fino all’abolizione delle case chiuse sancita dalla famigerata Legge Merlin pullulava di bordelli: ad esempio in vico Basadonne, vico delle Fate, vico Lavezzi, vico Spada e Vico dei Castagna frequentati dalla clientela più alla buona mentre il Lepre, pur non essendo lussuoso come il “Mary Noire” sito in San Luca, o alla moda come il “Suprema” (detto anche “Cebà” dal nome della via nel cuore della vecchia Portoria), godeva di un certo prestigio e, sicuramente, beneficiava di una privilegiata ubicazione. Oggi la piazzetta ospita, in una sorta di ritorno alle origini, una genuina trattoria ed un chiassoso ritrovo della movida notturna cittadina.
A vegliare sulla contrada, all’angolo fra piazza e vico, si trova infine, protetta da una grata, una settecentesca edicola in stucco con al suo interno la statuetta della Madonna con il Bambino.
In Copertina: Vico della Lepre. Foto di Stefano Eloggi.
Percorrendo Via Ravecca, giunti quasi all’altezza di Piazza Sarzano, si trova il Vico del Dragone, un caruggio come tanti, il cui toponimo fornisce però curiosi spunti narrativi.
I membri della famiglia Dragoni o Dragone, di origine umbra, si distinsero come valorosi cavalieri gerosolimitani durante le crociate e per questo, sul loro scudo, potevano esibire con legittimo orgoglio le insegne con tre teste di drago. Numero di teste che venne ridotto a una sola adagiata sul corpo di una colomba da Confidato Dragoni sostenitore, prima dell’Imperatore, e poi di Papa Innocenzo II.
Secondo un’altra versione l’origine dell’etimo del caruggio deriverebbe invece dalla presenza in loco dei Draconari. Costoro erano portatori di labari con sopra dipinti dei dragoni simbolo dell’eresia. I membri di questa misteriosa confraternita non solo partecipavano a processioni e a riti esoterici ma accompagnavano anche le spedizioni militari.
In Vico Dragone 43r. si può ammirare una cornice lineare in stucco completamente vuota del cui dipinto una volta esposto all’interno non sono riuscito a trovare notizie.
Pochi metri più in là è affissa un’ottocentesca lapide che recita:
“Nacque in questa casa, il VI gennaio MDCCCXX Francesco Bartolomeo Savi carcerato per tentativo del 1857 prode dei Mille apostolo della fede mazziniana sino alla morte XXX marzo MDCCCLXV nel vigesimo anno di Roma liberata il Circolo del pensiero”.
“Armi e divise garibaldine presso il Museo Risorgimentale”.
Bartolomeo Savi fu insieme a Nino Bixio uno dei fondatori della Società del Tiro a Segno della Foce che, sotto questa copertura, era il centro di reclutamento delle camicie rosse. Alcune sue lettere private e indirizzate all’eroe dei due mondi sono custodite presso l’archivio del Centro Sociale di Storia Sociale di Palazzo Ducale. La sciabola e il ritratto del valoroso combattente garibaldino sono conservati presso il Museo del Risorgimento, la Casa di Mazzini in Via Lomellini.
Bartolomeo fu anche animatore dell’organizzazione operaia e tra i fondatori del giornale mazziniano “Italia e Popolo”; partecipò al fallito moto insurrezionale genovese del 1857, a causa del quale finì in carcere. Beneficiato da un’amnistia si arruolò nelle file dei Carabinieri genovesi come luogotenente del comandante Antonio Mosto; partecipò alla spedizione dei Mille durante la quale rimase ferito a Calatafimi; sfruttò la sua attitudine di cronista occupandosi di inviare al giornale “Unità d’Italia” accalorate corrispondenze di guerra. Seguì Garibaldi fino al giorno che, dopo l’Aspromonte, tutto gli parve falsato. Malato e depresso, di lì a poco, tediato della vita si uccise sparandosi un colpo alla testa.
Il giornalista garibaldino riposa in pace, poco distante dal suo Generale, Boschetto Irregolare del Cimitero Monumentale di Staglieno.
In copertina: vico Dragone. Foto di Stefano Eloggi.
Davanti all’Ospitale di San Giovanni di Prè, a tutti noto come Commenda, sono affisse due targhe a ricordo di altrettanti illustri soggiorni. La prima rammenta la sosta di Papa Urbano V dal 13 al 20 maggio 1367, durante il suo viaggio di rientro da Avignone. La seconda, la permanenza di oltre un anno, tra il 1385 e il 1386, del Pontefice Urbano VI.
Quest’ultimo, fuggito dal castello di Nocera dove era assediato dalle truppe di Carlo III, re di Napoli, si era rifugiato a Genova portando con sé come prigionieri alcuni cardinali che avevano congiurato contro di lui. Costoro proprio alla Commenda saranno giustiziati nel dicembre 1385 (o nel gennaio 1386) e sepolti in un luogo prossimo alla chiesa. I loro resti furono rinvenuti nel 1829 durante lavori in un terreno adiacente al complesso.
Re Carlo scomunicato dal Papa aveva promesso una lauta ricompensa di 10000 fiorini a chi glielo avesse consegnato vivo o morto.
Intanto a Genova il Doge Antoniotto Adorno si stava arrovellando nel tentativo di trovare il modo di riscattare la Superba ancora scossa dalla recente sconfitta veneziana di Chioggia sancita dall’insoddisfacente Pace di Torino del 1381.
Antoniotto fece una scelta coraggiosa allestendo una flotta di dieci galee, ma non per catturare Urbano VI e consegnarlo all’imperatore, bensì per condurlo a Genova sano e salvo e salire così agli onori del mondo. L’audace impresa venne affidata al fratello Raffaele che imbarcò il Santo Padre insieme a nove illustri prigionieri e, nel settembre 1385, fece ritorno in patria.
Rifugiatosi così a Genova il Papa venne accolto con tutti gli onori ed ospitato, per sua stessa richiesta, presso la Commenda che diverrà la sua residenza ufficiale per oltre 15 mesi. Urbano VI aveva scelto l’edificio dei cavalieri gerosolimitani per potervi tenere incarcerati i cardinali ritenuti traditori, per cinque dei quali, di lì a poco, avrebbe emanato la sentenza di morte.
Il Doge sperava con questa operazione, oltre che di far riguadagnare prestigio alla sua Repubblica, di incrementare il flusso di pellegrini e godere del relativo giro di affari che ne sarebbe conseguito. Speranze disilluse perché il Vicario di Cristo non solo non si prestò ad iniziative o manifestazioni pubbliche, ma anzi si barricò nella Commenda uscendone solo quando, sollecitato dal Doge stesso che gli fornì due galee, riparò a Lucca.
I benefici ottenuti da questa impresa, soprattutto se comparati al costo del mantenimento del Papa e della sua corte a carico del Doge, furono davvero irrisori per la Repubblica di San Giorgio: di fatto quantificati nel solo acquisto del mercato di grano di Corneto commutato in piccoli feudi ecclesiastici sottratti ad Albenga e Savona e Noli.
Inoltre l’eco per il crimine commesso non era stato accettato per nulla di buon grado dall’oligarchia genovese che aveva dunque esercitato pressioni sul governo affinché il Papa venisse allontanato dalla città.
Leggenda narra che la notte dei morti il sangue di quell’efferato delitto riaffiori sul millenario pavimento dell’ospitale ma di leggenda appunto si tratta perché in realtà i prelati furono si giustiziati ma non passati a fil di lama nelle segrete di San Giovanni, bensì impiccati sulla scogliera del Molo.
In copertina: Il Campanile della Commenda. Foto di Leti Gagge.
Sulla collina d’Albaro dove un tempo si sviluppavano orti e giardini si trova la scenografica scalinata, realizzata nei primi del Novecento in stile liberty, intitolata a Giorgio Borghese. Concepita su quattro livelli presenta anche dei locali chiusi che, nel progetto iniziale, avevano solo una funzione puramente estetica e che oggi sono in attesa di essere riqualificati.
Su una targa c’è scritto «Scalinata Giorgio Borghese, genovese, secolo XVIII, tra i fondatori e primo cittadino della capitale uruguagia di Montevideo».
Dal rapallese eroe dell’indipendenza uruguaiana lo sguardo volge verso Piazza Tommaseo dove si staglia la statua di un altro rivoluzionario sudamericano, il generale Manuel Belgrano, rappresentato a cavallo nell’atto di guidare alla carica i suoi soldati. Manuel, di origine onegliese, fu un avvocato, uomo politico e d’armi, padre della patria argentina. A lui si deve la creazione della bandiera “albiceleste”. Il drappo consiste in due bande esterne azzurre con una bianca centrale, i colori con cui sono tradizionalmente raffigurate le vesti della Madonna. Al centro campeggia il logo del Sol de Mayo (divinità indigena) a ricordare la rivoluzione del maggio 1810 da lui ordita. Il monumento, opera di A. Zocchi, fu regalato ai genovesi dagli argentini in segno del perenne legame fra i due popoli (basti pensare alle vicende della fondazione della Boca). La maestosa scultura venne inaugurata nel 1927 alla presenza delle autorità , del re d’Italia Vittorio Emanuele e di Benito Mussolini.
AL
GENERALE
MANUEL BELGRANO
GLI
ITALO-ARGENTINI
MCMXXVII
(nella prima targa sottostante)
MANUEL BELGRANO
FIGLIO DI LIGURE UNA VITA DEDICATA
ALL’INDIPENDENZA DELL’ARGENTINA
PREMONITORE DI UN PROCESSO DI
ITALIANIZZAZIONE, CREO’ UN LEGAME
DI PROFONDA FRATELLANZA.
AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA ARGENTINA
20 GIUGNO 1988
(nella seconda targa)
ACADEMIA BELGRANIANA
DE LA REPUBLICA ARGENTINA
HOMENAJE AL
GRAL. DON. MANUEL BELGRANO
EN EL CINQUENTENARIO DE LA
INAUGURACION DE SU
ESTATUA ECUESTRE EN GENOVA
BUENOS AIRES – 1924 – 12 DE OCTOBRE DE 1927
(nella terza targa)
HOMENAJE DE LA ACADEMIA BELGRANIANA
DE LA REPUBLICA ARGENTINA
Y DEL LICEO MILITAR GENERAL “SAN MARTIN”
AL GLORIOSO GENERAL MANUEL BELGRANO
PRECURSOR, LIBERTADOR, FUNDADOR
DE LA NACION ARGENTINA
Y CREADOR DE SU BANDERA
GENOVA, 18 DE ENERO DE 197[ ]
(nella quarta targa)
MANUEL BELGRANO
PATRIOTA ARGENTINO FIGLIO DI LIGURI
E SIMBOLO PERMANENTE A GENOVA
DELL’AMICIZIA ITALO-ARGENTINA
AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA ARGENTINA
CONSOLATO GENERALE DELLA REPUBBLICA ARGENTINA
10 – XII – 1993
(nella quinta targhetta)
MANUEL BELGRANO
CREATORE DELLA BANDIERA ARGENTINA
EROE DELLA LIBERTÁ E DELLA
INDIPENDENZA DELLA SUA PATRIA
LA FEDE CATTOLICA, LA LEGGE
GIUSTIZIERA, LA SPADA MISERICORDE
]O ALTO ESPONENTE DELLA SUA
PERSONALITÁ PER LA GLORIA DEL S[
]E ONORE DELLA SUA STIRPE GENOVESE
GENOVA 16 GENNAIO 19[
(a sinistra)
S. E. A.
POR LA TRADICION
INDUSTRIA Y ARTE
LIBERALES
Dalla scalinata Borghese la vista prosegue spegnendosi all’orizzonte nella prospettiva di Corso Buenos Aires, capitale di quell’Argentina della cui indipendenza Manuel Belgrano è stato uno dei principali artefici.
… “E quando Roma ha voluto regalarsi una comoda via per passeggiare nel suo dominio e legarselo per l’eternità, è arrivato in quei luoghi il console Aurelio. Un console grasso e pieno d’ira che spingeva avanti a colpi di gladio, con la sapienza e la crudeltà che hanno come dote naturale i tracciatori d’imperi, un’altra immensa carovana cicalante di diecimila e più tra schiavi e picchettini e sterratori e camalli, operai e ingegneri, e puttane e bestie da soma e da sell, tutti quanti a ritmare per la parte che gli toccava l’infinita cantilena della strada che avanza. E la strada avanzava diritta, avendo per limite soltanto il lontano fiume Oceano, oltre tutte le montagne, i fiumi, le pianure, oltre tutte le genti e ancora oltre.
E quando arrivò alla valle degli Apui, al console fu fatto notare che affioravano, mal sepolti fra i cavezzi e le mortelle della prataglia, i resti di cinquemila suoi commilitoni e del collega console Marcello. Dolente e furioso alzò lo sguardo al cielo dei suoi dei di vendetta e incontrò quel poggio disperato da dove, a quattro zampe, c’era chi li stava spiando.
Egli fece compiere allora alla sua Via una complicata manovra a serpente che, deviando dal percorso stabilito, invadesse i bozzi dell’acquitrino, bonificando ogni eventuale traccia di invendicata ferita romana. Ci morirono in parecchi tra i suoi, nel tirar su tra la polta malarica un terrapieno che tenesse l’armatura di una via consolare destinata a durare per l’eternità, ma infine ci riuscì tronfio e testardo.
Terminata l’opera, fece rifare i calcoli a suo comodo per collocare proprio nel punto che poteva essere visto dalle tane di quel poggio, un bel cippo militare in pietra bianca di quelle montagne con sopra incise quattro C in maiuscolo monumentale. Mai una strada si era spinta così avanti nel mondo nero dei barbari.
La notte che l’opera fu finita fu posato il cippo, dall’alto del loro recinto ormai definitivamente inchiavardato, quel poco di gente che c’era, vedeva spandere dalla pietra cavata dai suoi monti una luce più candida della luna, una luce che confondeva il cielo e abbagliava ogni possibile cammino nella valle. E quel bagliore se lo indicavano muti a vicenda”.
Non tutti gli Apuani furono deportati. Alcune comunità sopravvissero ancora nel territorio montano, tanto che ancora nel 155 a.C. (ben 25 anni dopo le grandi deportazioni che evidentemente non erano state risolutive) gli Apuani capeggiavano una coalizione di Liguri sconfitta dalle legioni del console Marcello in una guerra che non deve essere stata secondaria. Infatti il console ebbe l’onore del trionfo e i cittadini romani di Luni ringraziarono il generale romano dedicandogli una colonna rituale che celebrava la vittoria sugli Apuani (la stele è stata rinvenuta da scavi archeologici nell’area di Luni).
Racconta Livio “… partì per primo Quinto Marcio per raggiungere il territorio dei Liguri Apuani. Mentre li inseguiva addentrandosi in gole nascoste, che essi avevano sempre usato come nascondigli e rifugi, giunto in una strettoia che i Liguri avevano già precedentemente occupato, finì con l’essere circondato in una posizione sfavorevole. Furono uccisi quattromila soldati (…) il console, appena uscito dal territorio nemico, volendo evitare che apparisse chiaramente di quanto le sue truppe si erano assottigliate, ripartì l’esercito in diverse zone del territorio pacificato. Ma non gli riuscì di impedire che quella sconfitta acquistasse una sua rinomanza, perché i Liguri chiamarono Salto Marcio il luogo in cui lo avevano messo in rotta”. Livio XXXIX,20.
Nel 186 a.C. i Liguri Apuani inflissero una grave sconfitta al console Quinto Marcio Filippo, ed alle sue legioni, dopo averle attirate nelle strette gole della zona. Furono uccisi non meno di 4.000 legionari ed il luogo del disastro fu quindi successivamente chiamato “Saltus Marcius”, forse l’attuale località di Marciaso (che deriverebbe da Martii Caesio), forse le strette gole sopra Seravezza, nel territorio del comune di Stazzema. Tra Pontestazzemese e Cardoso esiste ancora oggi un colle denominato “Colle Marcio”, con un probabile riferimento al “saltus Marcius” (salto nel senso di dislivello e Marcius dal nome del console romano), nome che secondo Tito Livio avrebbe preso la località a seguito della battaglia.
Questo insomma è l’anno di gloria degli Apuani che riescono a battere i Romani grazie ad un’imboscata. Comunque, dopo tante sconfitte, gli Apuani riescono finalmente a prendersi una rivincita prima della tragedia finale. Il coraggio e la fierezza di questo popolo che non scende a compromessi è davvero ammirevole.
I successi dei Liguri Apuani, però, furono di breve durata: tra il 180 a.C. ed il 179 a.C. gli Apuani sopraffatti vennero in gran parte deportati nel Sannio (Macchia di Circello), in due scaglioni ed anni successivi composti, se vogliamo dar credito alle cifre trionfalistiche di Tito Livio, di 40.000 e 7.000 individui per convoglio.
Nonostante la provvisorietà delle loro vittorie gli Apuani, uomini e donne, furono ricordati a lungo come valenti guerrieri dai romani e alcuni storici romani li descrivevano così: “Le donne combattono come gli uomini, spietate e feroci come fiere” e ancora, con riferimento alla sconfitta romana del 186 a.C., “si stancarono prima gli Apui di inseguire, che i romani di fuggire”. Ma i Romani erano destinati a tracciare un solco indelebile nella storia. Di lì a poco avrebbero dato la civiltà al mondo costruendo ponti, acquedotti e strade.
Strade come la via Aurelia l’antica via consolare iniziata, alla metà del III secolo a.C. dal console Gaio Aurelio Cotta, per congiungere Roma a Cerveteri e poi prolungata fino a collegare le nuove colonie militari sul litorale tirrenico.
Quel selciato puntellato di sampietrini sta lì a ricordarci questa meravigliosa storia scritta con il rosso scarlatto del sangue dei suoi eroici protagonisti, i nostrani Asterix ed Obelix che, forse, sarebbe meglio chiamare Albiorix (il dio celto ligure delle montagne) e Obelin.
In Copertina: Striscia di Asterix in lingua genovese.
Fin da bambino i fumetti di Asterix e Obelix sono stati patrimonio del mio immaginario, in particolare da quando mio padre, nella speranza di farmi appassionare al latino, materia nella quale deficitavo, me ne aveva persino regalato un volume nella lingua degli antichi romani. Al latino mi sono appassionato poco, in compenso molto di più alle avventure dei due eroi per i quali ho sempre, nonostante l’esilarante simpatia degli invasori romani, fatto il tifo.
Eppure questi personaggi sono realmente esistiti ma non erano Galli come nella striscia di René Goscinny e Albert Uderzo bensì Liguri montani, più precisamente Apuani fedeli alleati, al tempo delle guerre puniche, dei Cartaginesi. Al posto della misteriosa e corroborante pozione magica del Druido sorbita per combattere il nemico, mi sono immaginato i nostri eroi consumare abbondanti porzioni di basilico e di agliato pesto, magari spalmato sugli archetipi dei loro gustosi testaroli.
Roma caput mundi ha impiegato circa 250 anni per occupare quella terre e sfaldare la coriacea resistenza di quelle popolazioni, molto più coraggiose e indomabili rispetto a quelle di altre celebrate nazioni. Una vittoria sui Liguri era considerata talmente provvisoria e temporanea che nella Città Eterna venne coniata, a sottolinearne il carattere aleatorio, l’espressione “… come un Trionfo sui Liguri”.
Maurizio Maggiani nel suo celebre romanzo “Il Coraggio del Pettirosso” ne racconta magistralmente le vicende attingendo a piene mani dalle fonti di Strabone e Tito Livio:
“Era un popolo quello Apuo che abitava la valle di un dolce grande fiume, con molte fiumane che gli si precipitavano addosso dalle gole profonde di un giogo di montagne aguzze e franose. Le montagne erano bianche, di un marmo morbido e poroso che diventava d’oro scarlatto quando raccoglieva il sole basso del tramonto. La valle arrivava al mare per un’ampia piana, ricca di tutti gli umori necessari a far crescere le piante e gli animali. Erano un popolo di bestie, senza una città e senza una scrittura; per questa ragione non c’è mai stato nulla in nessun luogo che parlasse per loro. Né hanno mai voluto in qualsivoglia modo parlare direttamente ai rappresentanti dell’impero di Roma in caccia di nuovi possedimenti, quando, è come se li vedessi qui davanti a me, si sono presentati in pompa magna per chiedere il pegno del vassallaggio, cercando di spiegare a quelle teste di pietra il vantaggio che ne sarebbe derivato. Non hanno mai avuto idea di parlamentare o trattare. E questo lo dicono i cronisti di Roma. E dicono anche che è stata una gran follia non voler capire dove stava tirando il vento, una sciagura da addebitarsi al fatto che quel popolo non era di veri uomini, quanto piuttosto di mostri selvatici e indecifrabili. Allora si procedette come di consueto in queste faccende d’insubordinazione. Le legioni spianarono l’erba grassa della piana, i carri da guerra ararono la valle per tutta la sua lunghezza e i cavalli asciugarono le fiumane con la gran sete dei conquistatori.
Perché Roma non la ferma nessuno. Così che gli Apui si fecero ancora più lupi di com’erano e si issarono sulle montagne più impervie e resistettero. Durarono a guerreggiare 250 anni, ed è una cosa inaudita che possa essere successo. Avranno mangiato pane fatto con la farina macinata dalla pietra del marmo per poter durare così tanto, si saranno mangiati tra loro, o avranno sbranato i lupi loro cugini. O forse erano lupi, se è vero quel che dicono i Romani. Che un giorno piovvero a branchi da ogni lato del cielo sul grande accampamento fortificato alle pendici del Monte Caprione e fecero a pezzi cinquemila tra fanti e cavalieri. Rapinarono cento carri carichi di vettovaglie, e salmeria e bagasce a frotte, con il console Marcello nascosto fra le loro sottane dorate. E si sentivano i buoi mugghiare per il dolore di vedersi mangiati vivi. Cinquemila in un giorno solo: che gran inviperimento al senato di Roma e che rabbia.
E infatti non si badò a spese e di conseguenza gli stolidi Apui, gli abominevoli rigettatori della clemenza di Roma, vennero debitamente sterminati. Furono arsi i boschi, avvelenati i sorgivi, spazzolati i recessi e le tane con la striglia delle ottanta centurie del console Claudio, l’élite delle armi, lo scudo inflessibile della sacra difesa dell’impero. Ogni accorgimento fu approntato perché non rimanesse nessuno, non un bambino, una puerpera, un vecchio, che non fosse stato toccato dalla mano della vendetta. Per chi ne uscì vivo fu organizzato un convoglio in catene per consegnarlo, possibilmente con ancora un po’ di fiato nell’anima, alle miniere di rame del sannio, all’altro capo dell’Italia.
Bisognava averlo visto quel corteo di diecimila semi uomini che attraversava l’Italia tenuto per la catena. Che figliava, che si straziava di dolore, che avvizziva di rabbia, che cresceva e moriva, che forse faceva l’amore . E mangiava, dormiva e cagava sotto la scorta del trionfo di Roma. Spettacolo a imperitura memoria per tutte le genti che lo hanno visto passare per la durata di un anno e forse più, per la lunghezza di mille miglia e forse più”.