Chi non ha mai gustato seduto ad un tavolino in compagnia dei propri genitori Il Paciugo alzi la mano?
Il gelato Paciugo nacque durante la guerra presso il celebre bar Excelsior di Portofino dove veniva realizzato un composto di panna e creme annaffiato di sciroppo di granatina, amarene sciroppate e granella di nocciola.
A dargli il nome fu il suo ideatore Lina Repetto che lo battezzò, in risposta alla domanda su come si chiamasse quel gelato:” U lè un paciugo”, un pasticcio.
Mai nome fu più azzeccato riportando alla mente, soprattutto dei meno giovani, le ingarbugliate vicende dei protagonisti della leggenda tramandata presso il santuario di Coronata.
Un altro gelato ormai patrimonio dell’assortimento nazionale è “Il Pinguino” la cui affascinante genesi venne raccontata da Gerolamo Boero titolare della Gelateria Giumin di Nervi. Questi ricordava come acquistò delle forme di acciaio da un ferramenta alle quali unì la panna montata intingendola nel cioccolato fuso. Il nuovo gelato venne chiamato Macallè in onore del nome di una vittoria, assai celebrata in quell’epoca, in Etiopia.
Nel dopoguerra l’originale stecco mutò nome in pinguino e venne assaggiato dal Cavalier Motta in persona che, pienamente soddisfatto, ne iniziò la produzione su larga scala.
E fu così che dal Pinguino genovese nacque il gelato che ancora oggi troviamo nei bar e nei banchi frigo dei supermercati, il Mottarello.
A proposito di gelati, impossibile non parlare poi, vista la recente riapertura della Cremeria di Buonafede, della pànera l’autoctona crema genovese a base di panna fresca, caffè arabico in polvere, tuorli d’uovo e zucchero. Genova ha una sorella dal nome, in due lingue diverse, identico che è Napoli (dall’etrusco Kainua Genova, dal greco Neapolis Napoli, entrambe significano “città nuova”) dove – guarda caso – esiste una preparazione molto simile, chiamata “Coviglia”.
In molti, a cominciare da “Amedeo”, la premiata gelateria di Boccadasse dal 1927, ne rivendicano la paternità. Panna nera per contrazione Pànera.
Se l’inventore del moderno gelato fu nel 1686 il siciliano Francesco Procopio che lo esportò a Parigi, l’origine di quello genovese risale al 1770 quando il nostro conterraneo Giovanni Bosio, emigrato in America in cerca di fortuna, la trovò proprio aprendo a New York la prima gelateria italiana artigianale. Fu così che iniziò a proporre un’antica preparazione semifredda ligure diffusa fra le famiglie nobili della sua città natale ideata per soddisfare i capricci estivi dei propri pargoli che non gradivano il caffèlatte caldo, preferendo invece la casalinga versione di quella che sarebbe stata chiamata pànera.
Gli americani ne furono subito entusiasti (e ancor oggi sono i più grandi consumatori di gelati al mondo) e iniziarono a variarne la ricetta, secondo il loro gusto unendo latte intero e aggiungendo altri ingredienti come caramello e noci. perfezionando le prime gelatiere casalinghe, mastelli di legno con manovella che andavano a ghiaccio e sale e in seguito aprendo le prime “fabbriche di gelato”, dando vita così al gelato industriale.
Il gelato insomma a Genova vanta una lunga tradizione che prosegue sia nel nome di prestigiose storiche gelaterie quali in ordine sparso: Carla a Sturla, Amedeo a Boccadasse, Tonitto e Ciarapica in Albaro, Guarino in Castelletto, Profumo, Viganotti e Cremeria di Buona Fede nei caruggi, sia nel solco di esperienze più recenti ma non meno gratificanti, quali Chicco e Gaggero a Nervi, Vittorio a Recco, Gelateria Priaruggia a Quarto, Cremeria delle Erbe e Cremeria Gran Sasso in centro, Don Paolo in circonvallazione, il Siculo alla Foce, Cucchi e Flora nel ponente cittadino… e mi scuso con tutte le altre altrettanto meritevoli realtà che nella mia ignoranza ho sicuramente dimenticato.
Annotò a proposito del gelato Marcel Proust in un brano della sua “À la recherche du temps perdu”: “Tutte le volte che ne mangio, templi, chiese, obelischi, rocce, è come una geografia pittoresca che guardo prima, e di cui converto poi i monumenti di lampone o di vaniglia in freschezza nella mia gola”. Un pensiero che a Genova calza a pennello. Non v’è dubbio che l’affermato scrittore quando appuntava questi pensieri si riferiva a Parigi.
Ma se nella Superba di rocce, chiese e palazzi ve ne sono in abbondanza di certo è priva di obelischi, una carenza questa ampiamente compensata dalla scenografica presenza del mare.
Anticamente Via Luccoli era poco più che una mulattiera che attraversava un bosco consacrato alle divinità pagane. “Luculus”che in latino infatti significa “piccolo bosco” era l’area dedicata a Camuho Dio del Sole e ad Acca la dea della Luna. Da questa curiosa unione deriva anche il nome di Acquasola che culminava proprio in cima alla zona dei boschetti sacri. In quel tempo era purtroppo normale fare sacrifici umani per ingraziarsi le divinità.
Secondo una popolare leggenda una di queste vittime che, oltre mille anni dopo, gironzola ancora oggi nel vicolo, ignara del proprio triste destino, è il fantasma di un ingenuo fanciullo che sorride ai passanti.
Il caruggio fu costruito nel XIII sec. al tempo in cui gli Spinola si insediarono nella zona costruendo i propri palazzi e aprendo le proprie botteghe.
Il tracciato della creuza segue pari pari il corso del sottostante rio che convoglia le acque provenienti da Via Caffaro e proseguiva fino alla Porta dell’Acquasola. In origine, era fuori le mura, all’interno delle quali venne inserito solo con l’erezione della cinta cinquecentesca.
La funzione di tale strada venne ridimensionata nei secoli successivi quando venne interrotta a causa dell’ottocentesca costruzione di Via Carlo Felice e all’ ampliamento di Piazza Fontane Marose nel 1825.
La conformazione in cui ancora oggi la possiamo ammirare risale al XVI sec quando le torri furono abbattute, le logge murate e i porticati chiusi. Vennero così edificate nuove costruzioni sfarzosamente decorate ed affrescate. Alcune di esse, nonostante gli stravolgimenti urbanistici avvenuti fino ai giorni nostri, mantengono ancora intatto il loro fascino e sono sempre fonte di sorprendenti scoperte..
Proseguendo nella passeggiata al civ. n. 14 si può ammirare un raffinato portale marmoreo che riproduce la tradizionale scena di S. Giorgio che uccide il drago.
Ai numeri 16 e 18 si nota il basamento in pietra nera di promontorio di una loggia tamponata del XV sec. che in origine, proseguiva in Vico Lavagna e Via ai Macelli di Soziglia e occupava tutto il perimetro del palazzo. I sei archi tamponati, speculari rispetto a quelli della parte residenziale della loggia lato Via Luccoli, un tempo ospitavano le botteghe dei macelli.
Al civ. 11 r si nota sopra un portone bianco un bel fregio con tre cornucopie colme di frutta che sovrasta un’attività commerciale.
Sul retro del civ. n. 22 nel giardino pensile ricoverava, prima di essere trasferito nell’atrio del palazzo di Via Sebastiano 15, un ninfeo con Tritone del XVII sec.
Nella piazzetta al civ. n. 23 si ci imbatte nello spettacolare Palazzo Niccolò Spinola di Luccoli, noto anche come Bertollo già Franzoni. Il portale presenta semicolonne ioniche mentre nel bel atrio con volte alcune colonne barbaramente murate sono semi nascoste dalla vetrina di un negozio di erboristeria. L’edificio è stato completamente ristrutturato nel XVIII sec. e arricchito sul prospetto con eleganti ornamenti in stucco.
Ai civ. 9 r e 24 edicole di Madonne col Bambino o mancanti o mutile.
Al civ. 26 sopra il portale in marmo bianco inciso un motto, per noi genovesi, assai pertinente: “Sumptus Censum non Superet” (la spesa non sia maggiore dell’entrata). Varcato il portone, scale, ballatoio e colonne tutti rigorosamente in marmo con i primi due piani superbamente rivestiti in azulejos.
Infine, sempre al 26 l’edicola gotica del XIV sec. della Madonna col bambino, San Giovanni Battista e San Michele Arcangelo attraversata, senza il minimo rispetto, da un pluviale e offesa da una persiana. Il trittico raffigura la Madonna e il Bambino al centro e ai lati sotto le cuspidi coniche i due santi con S. Michele che calpesta il drago. Alla base una metaforica rappresentazione della grottesca natura umana.
Se non erano “Quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo…” come nella celebre canzone di Gino Paoli, certo si può ben dire che, già prima della seconda guerra mondiale, c’erano quattro amici in mar che il mondo, per lo meno quello subacqueo, l’avrebbero cambiato per davvero: Duilio Marcante, assieme ai suoi tre amici, Egidio Cressi (che sarebbe stato il fondatore della Cressi Sub), Luigi Ferraro (fondatore poi della Technisub), Ludovico Mares (fondatore della Mares), si dedicò allo sviluppo delle prime strumentazioni per la subacquea, rivoluzionando completamente il settore.
Marcante viene infatti considerato il patriarca della scuola subacquea italiana e a lui, assieme a Luigi Ferraro, si deve la nascita nel 1948 del metodo didattico italiano, mirato all’avvicinamento alla subacquea, sviluppatosi poi fin dal 1957 nei corsi della Federazione Italiana Pesca Sportiva ed Attività Subacquee (FIPSAS).
A Marcante, Mares e Cressi durante la guerra si unirono anche Dario Gonzatti che creò in questi primi laboratori il prototipo sportivo dell’autorespiratore ad ossigeno (ARO) sulla base dello stesso respiratore usato dalla Marina militare italiana e Luigi Ferraro, conosciuto durante una battuta di pesca subacquea. Nacque così la prima moderna scuola subacquea del mondo.
Luigi Ferraro era stato un ufficiale della Marina Militare nella seconda guerra mondiale, pioniere della subacquea italiana. Aveva prestato servizio come palombaro nella Decima Flottiglia MAS della Regia Marina venendo decorato con la medaglia d’oro al valor militare per aver affondato da solo tre navi nemiche.
Terminata la guerra nel 1947 durante una delle tante immersioni effettuate da quei coraggiosi ragazzi qualcosa andò storto e Gonzatti vi perse la vita. Marcante si presentò al funerale del compagno in tenuta da sub e poi, ancora scosso, si recò a scrutare il mare in riva alla baia. Nacque così, in quel momento di profondo dolore, l’idea di Duilio di far costruire la statua battezzata Cristo degli Abissi, un luogo mistico per tutti i sub, in omaggio all’amico scomparso.
Il bronzo della statua creata nella fonderia artistica Battaglia venne ottenuto dalle fusioni di medaglie, elementi navali (perfino eliche di sommergibili americani donati dall’U.S. Navy) e campane.
La scultura, alta circa 2,50 metri, fu realizzata dal celebre artista Guido Galletti e rappresenta il Cristo con le braccia rivolte al cielo verso il Padre Eterno e aperte in segno di pace. Il 29 agosto 1954 la statua venne calata in mare davanti all’abbazia di San Fruttuoso nell’omonima baia a 17 metri di profondità grazie all’intervento della Marina Militare.
Alla morte di Marcante avvenuta nel 1985 sul basamento della statua è stata apposta una lapide in suo ricordo. Nel 2017 in occasione di un intervento di pulizia i sommozzatori di Guardia di Finanza, Capitaneria, Carabinieri, Polizia, Marina Militare e Vigili del Fuoco che avevano effettuato il restauro sotto il coordinamento della Soprintendenza alle belle arti, si sono accorti della scomparsa della targa. La stessa venne ritrovata pochi giorni dopo, non è chiaro se trasportata dal mare o abbandonata dopo un tentativo di furto, sulla spiaggia di san Rossore a Pisa.
Nel 2003 la statua è stata restaurata per preservarla dalla corrosione e dalle incrostazioni e, soprattutto, per riattaccarle la mano staccata da un’ancora, ritrovata dal subacqueo Enea Marrone, per poi essere riposizionata sott’acqua il 17 luglio 2004 su un nuovo basamento, ad una profondità inferiore a quella precedente.
La prestigiosa scuola subacquea genovese è tuttora attiva in Via Cinque Maggio 2/C e si chiama Unione Sportivi Subacquei “Dario Gonzatti”, fondata nel lontano maggio 1948 da Luigi Ferraro, Duilio Marcante, Egidio Cressi e altri soci, in onore dell’amico scomparso.
L’innovativo sodalizio non era stato ancora costituito quando Luigi Durand de la Penne (anch’egli genovese purosangue) il 18 dicembre 1941, al comando di una formazione di palombari si rese protagonista dell’eroica impresa della notte di Alessandria. In quel frangente dimostrò di essere della stessa pasta dei suoi colleghi affondando una nave e un sommergibile inglese.
Sempre nel 1948, anno di fondazione, si tennero all’isola d’Elba i primi corsi del mondo di scuola subacquea. Fu sempre l’USS di Genova a pubblicare la prima rivista del mondo di cultura subacquea. Genova, nei decenni a seguire, vinse tutte le competizioni del genere: dalla prima crociera sub alle Isole Tremiti nel 1950 alle varie competizioni di foto sub, nuoto pinnato, caccia sub. Sempre per merito di Ferraro ma anche di Duilio Marcante e delle loro prove sull’adattamento fisiologico dell’uomo in immersione, si arrivò, in collaborazione con l’Università di Genova a cognizioni che aprirono quello che fino ad allora era un territorio vergine della ricerca.
Si passò così dalle rudimentali pinne ai modelli “rondine”, tuttora insuperate. Fu sempre il Ferraro ad organizzare una settimana ininterrotta di vita in una capanna sottomarina per il figlio, che superò la prova brillantemente. Sempre i genovesi convocarono nel 1964 nella nostra città l’assemblea Generale della Confederazione Mondiale delle attività subacquee alla quale partecipò il fior fiore dell’oceanografia mondiale. Fra gli altri: J.J. Cousteau, Dumas, Bond, Piccard.
Il tempio di questi coraggiosi pionieri si trova qui nel mare di Camogli all’interno dell’area protetta del parco marino di Portofino dove nuota un Cristo sott’acqua che volge lo sguardo al cielo.
Se c’è un luogo comune associato ai genovesi è proprio quello legato alla loro presunta avarizia. Una storia che parte da lontano, da molto lontano probabilmente già al tempo del famoso “Emmo Za Daeto” pronunziato dai legati della Repubblica in faccia all’Imperatore Federico Barbarossa che, pretendendo da costoro tributo, ottenne invece l’orgoglioso rifiuto.
Una caratteristica questa legata alla gestione del denaro che si rafforza a partire dal ‘400 quando, a seguito dell’istituzione del Banco di San Giorgio avvenuta nel 1407, la Superba diviene la regina delle transazioni finanziarie contendendo il primato in questo ambito ai grandi banchieri teutonici e sassoni.
E siccome “a prestâ e palanche à un amigo, ti perdi e palanche e ti perdi l’amigo” i genovesi, ligi all’antico adagio,
(se presti soldi ad un amico, perdi i soldi e perdi l’amico) fanno fortuna prestando “palanche” alle emergenti e ambiziose monarchie francese e spagnola.
Sul finire del secolo Genova, fiutandone il senso degli affari e le potenzialità economiche, accoglie la prima comunità di ebrei sefarditi espulsi dalla Spagna cattolica da Isabella di Castiglia. Da questi i Genovesi apprendono e affinano sia le tecniche commerciali che le pratiche di strozzinaggio. Ed è proprio in questo periodo che, per calmierare e porre freno alla lucrosa gestione dei prestiti, vengono istituiti anche a Genova i banchi di pegno.
A detta degli storici però il vero spartiacque in relazione all’assioma “genovesi quindi avari” che si sostituisce nell’immaginario collettivo al precedente “genuensis ergo mercator” (genovese dunque mercante) risale al 1588 quando i destini della Signora del mare si incrociarono con quelli del grande corsaro inglese Sir Francis Drake.
Da tempo infatti Genova aveva rinunciato alla sua vocazione marittima preferendole quella finanziaria e bancaria: quello che veniva identificato come “Il siglo de los Genoveses” quando i forzieri della città partivano per la Spagna e tornavano onusti di oro delle Americhe, tanto che si diceva: “l’oro nasce nel Nuovo Mondo ma viene sepolto a Genova”, volgeva ormai al tramonto.
Era il periodo in cui le dimore patrizie genovesi erano le più sfarzose d’Europa: una ricchezza comunque mai ostentata fine a se stessa ma semmai consona al rango per doveri di rappresentanza e prestigio sociale, più spesso, accuratamente nascosta e considerata solo un modo redditizio per diversificare gli investimenti.
“o cû e i dinæ no se mostran à nisciun”
(il sedere e i soldi non si mostrano a nessuno).
I genovesi dunque così pronti a viaggiare per il mondo, protagonisti dei commerci e delle scoperte geografiche invece a casa loro sono schivi e diffidenti, per nulla inclini a mostrare le proprie ricchezze e proprietà.
Era scomparso da circa un lustro Andrea Doria quando nel 1585 era scoppiata la guerra tra Spagna e Inghilterra e Filippo II, per sconfiggere la terra di Albione di Sir Francis Drake, decise di allestire l’invincibile “armada” commissionandola, come da consolidata tradizione, ai genovesi.
I nostri armatori erano indecisi e titubanti se investire così tanto denaro in un’impresa a tal punto rischiosa da mettere a repentaglio le risorse della Repubblica ma decisero comunque di restare fedeli alla corona degli Asburgo e di finanziare questa operazione. Vennero allestiti 130 vascelli, con relativo armamento di 24.000 uomini, pronti per affrontare le terribili battaglie del 1588.
La sorte avversa culminata in una serie anomala di violentissime tempeste unita all’indiscussa abilità e capacità marinara di Drake infransero i sogni spagnoli e con essi anche le speranze di lucro dei genovesi.
Per la regina del mare, dopo un secolo di ricchezze, agi e splendori, si trattò di un colpo durissimo dal quale non riuscì più completamente a risollevarsi. La Spagna terminerà la sua iperbole di dominio europeo e Genova, fedele alleata, ne seguirà il declino con l’aggravante di non riuscire più né a pretendere, né di conseguenza a riscuotere i crediti maturati e dovuti.
Da qui si fa risalire quindi la diffidenza quando si parla di dinæ nei confronti dei “furesti” e quel senso di malcelata rassegnazione (se non era per gli spagnoli…) che porterà i nostri avi ad essere più che mai accorti nei loro futuri investimenti: quello che per gli altri quindi è tirchieria per i genovesi è parsimonia perché – e la storia ce lo insegna – “maniman” non si sa mai.
Perché se nel campo delle scienze Lavoisier teorizzava “in una reazione chimica nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma” per i genovesi, in quello economico, nulla si butta via, nulla si spreca e tutto si ricicla e risparmia”.
In copertina allegoria dell’avarizia – miniatura dal Trattato sui Sette Vizi Capitali di Cocharelli – Genova, 1330-1340.
Il 28 giugno 1960 i partiti antifascisti si coalizzarono per difendere la Costituzione ed impedire che il Movimento Sociale Italiano organizzasse a Genova il proprio Congresso Nazionale.
Il Presidente onorario di tal partito sarebbe dovuto essere Basile, in epoca fascista Prefetto per le Deportazioni.
Il 30 giugno venne indetto lo Sciopero Generale a partire dalle 15 fino alla fine dei turni di lavoro.
Si formò così un Corteo di alcune migliaia di persone con destinazione Piazza della Vittoria dove a pronunciare l’accorato discorso contro il neonato fascismo fu Sandro Pertini.
Al termine della Manifestazione gran parte dei dimostranti risalì verso Piazza De Ferrari dove erano schierate in assetto antisommossa le Forze dell’Ordine.
Gli scontri furono violenti e durarono circa due ore fino a quando il Presidente dell’Anpi Giorgio Gimelli e il Questore della città concordarono la ritirata delle Forze di Polizia.
Ovviamente il Congresso del Partito non si tenne più a Genova e, conseguenza di questo smacco, a Roma cadde il Governo Tambroni.
ESSERE ANTIFASCISTI È IMPEDIRE AI NEOFASCISTI DI MANIFESTARE. (IL DISCORSO DI SANDRO PERTINI A GENOVA NEL 1960)
di Sandro Pertini
“Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa.
Io nego – e tutti voi legittimamente negate – la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologià di reato.
Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza.
Ed è ben strano l’atteggiamento delle autorità costituite le quali, mentre hanno sequestrato due manifesti che esprimevano nobili sentimenti, non ritengono opportuno impedire la pubblicazione dei libelli neofascisti che ogni giorno trasudano il fango della apologia del trascorso regime, che insultano la Resistenza, che insultano la Libertà.
Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza.
Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono: la libertà, esigenza inalienabile dello spirito umano, senza distinzione di partito, di provenienza, di fede. Poi la giustizia sociale, che completa e rafforza la libertà, l’amore di Patria, che non conosce le follie imperialistiche e le aberrazioni nazionalistiche, quell’amore di Patria che ispira la solidarietà per le Patrie altrui.
La Resistenza ha voluto queste cose e questi valori, ha rialzato le glorie del nostro nuovamente libero paese dopo vent’anni di degradazione subita da coloro che ora vorrebbero riapparire alla ribalta, tracotanti come un tempo. La Resistenza ha spazzato coloro che parlando in nome della Patria, della Patria furono i terribili nemici perché l’hanno avvilita con la dittatura, l’hanno offesa trasformandola in una galera, l’hanno degradata trascinandola in una guerra suicida, l’hanno tradita vendendola allo straniero. Noi, oggi qui, riaffermiamo questi principi e questo amor di patria perché pacatamente, o signori, che siete preposti all’ordine pubblico e che bramate essere benevoli verso quelli che ho nominato poc’anzi e che guardate a noi, ai cittadini che gremiscono questa piazza, considerandoli nemici della Patria, sappiate che coloro che hanno riscattato l’Italia da ogni vergogna passata, sono stati questi lavoratori, operai e contadini e lavoratori della mente, che noi a Genova vedemmo entrare nelle galere fasciste non perché avessero rubato, o per un aumento di salario, o per la diminuzione delle ore di lavoro, ma perché intendevano battersi per la libertà del popolo italiano, e, quindi, anche per le vostre libertà.
E’ necessario ricordare che furono quegli operai, quegli intellettuali, quei contadini, quei giovani che, usciti dalle galere si lanciarono nella guerra di Liberazione, combatterono sulle montagne, sabotarono negli stabilimenti, scioperarono secondo gli ordini degli alleati, furono deportati, torturati e uccisi e morendo gridarono “Viva l’Italia”, “Viva la Libertà”. E salvarono la Patria , purificarono la sua bandiera dai simboli fascista e sabaudo, la restituirono pulita e gloriosa a tutti gli italiani.
Dinanzi a costoro, dinanzi a questi cittadini che voi spesso maledite, dovreste invece inginocchiarvi, come ci si inginocchia di fronte a chi ha operato eroicamente per il bene comune.
Ma perché, dopo quindici anni, dobbiamo sentirci nuovamente mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso, i quali tentano di tornare alla ribalta?
Ci sono stati degli errori, primo di tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose e per la quale oggi i fascisti la fanno da padroni, giungendo a qualificare delitto l’esecuzione di Mussolini a Milano. Ebbene, neofascisti che ancora una volta state nell’ombra a sentire, io mi vanto di avere ordinato la fucilazione di Mussolini, perché io e gli altri, altro non abbiamo fatto che firmare una condanna a morte pronunciata dal popolo italiano venti anni prima.
Un secondo errore fu l’avere spezzato la solidarietà tra le forze antifasciste, permettendo ai fascisti d’infiltrarsi e di riemergere nella vita nazionale, e questa frattura si è determinata in quanto la classe dirigente italiana non ha inteso applicare la Costituzione là dove essa chiaramente proibisce la ricostituzione sotto qualsiasi forma di un partito fascista ed è andata più in là, operando addirittura una discriminazione contro gli uomini della Resistenza, che è ignorata nelle scuole; tollerando un costume vergognoso come quello di cui hanno dato prova quei funzionari che si sono inurbanamente comportati davanti alla dolorosa rappresentanza dei familiari dei caduti.
E’ chiaro che così facendo si va contro lo spirito cristiano che tanto si predica, contro il cristianesimo di quegli eroici preti che caddero sotto il piombo fascista, contro il fulgido esempio di Don Morosini che io incontrai in carcere a Roma, la vigilia della morte, sorridendo malgrado il martirio di giornate di tortura. Quel Don Morosini che è nella memoria di tanti cattolici, di tanti democratici, ma che Tambroni ha tradito barattando il suo sacrificio con 24 voti, sudici voti neofascisti.
Si va contro coloro che hanno espresso aperta solidarietà, contro i Pastore, contro Bo, Maggio, De Bernardis, contro tutti i democratici cristiani che soffrono per la odierna situazione, che provano vergogna di un connubio inaccettabile.
Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di quei 24 voti, i fascisti sono nuovamente al governo, si sentono partito di governo, si sentono nuovamente sfiorati dalla gloria del potere, mentre nessuno tra i responsabili, mostra di ricordare che se non vi fosse stata la lotta di Liberazione, l’Italia, prostrata, venduta, soggetta all’invasione, patirebbe ancora oggi delle conseguenze di una guerra infame e di una sconfitta senza attenuanti, mentre fu proprio la Resistenza a recuperare al Paese una posizione dignitosa e libera tra le nazioni.
Il senso, il movente, le aspirazioni che ci spinsero alla lotta, non furono certamente la vendetta e il rancore di cui vanno cianciando i miserabili prosecutori della tradizione fascista, furono proprio il desiderio di ridare dignità alla Patria, di risollevarla dal baratro, restituendo ai cittadini la libertà. Ecco perché i partigiani, i patrioti genovesi, sospinti dalla memoria dei morti sono scesi in Piazza: sono scesi a rivendicare i valori della Resistenza, a difendere la Resistenza contro ogni oltraggio, sono scesi perché non vogliono che la loro città, medaglia d’oro della Resistenza, subisca l’oltraggio del neofascismo.
Ai giovani, studenti e operai, va il nostro plauso per l’entusiasmo, la fierezza., il coraggio che hanno dimostrato. Finché esisterà una gioventù come questa nulla sarà perduto in Italia.
Noi anziani ci riconosciamo in questi giovani. Alla loro età affrontavamo, qui nella nostra Liguria, le squadracce fasciste. E non vogliamo tradire, di questa fiera gioventù, le ansie, le speranze, il domani, perché tradiremmo noi stessi. Così, ancora una volta, siamo preparati alla lotta, pronti ad affrontarla con l’entusiasmo, la volontà la fede di sempre.
Qui vi sono uomini di ogni fede politica e di ogni ceto sociale, spesso tra loro in contrasto, come peraltro vuole la democrazia. Ma questi uomini hanno saputo oggi, e sapranno domani, superare tutte le differenziazioni politiche per unirsi come quando l’8 settembre la Patria chiamò a raccolta i figli minori, perché la riscattassero dall’infamia fascista.
A voi che ci guardate con ostilità, nulla dicono queste spontanee manifestazioni di popolo? Nulla vi dice questa improvvisa ricostituita unità delle forze della Resistenza?
Essa costituisce la più valida diga contro le forze della reazione, contro ogni avventura fascista e rappresenta un monito severo per tutti. Non vi riuscì il fascismo, non vi riuscirono i nazisti, non ci riuscirete voi.
Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad impedire che ad essa si rechi oltraggio.
Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi.”
Davanti al giardino meridionale, dominato da una statua di Nettuno (eretta al tempo di Giovanni Andrea), chiaro riferimento analogico alla supremazia dell’ammiraglio) proteso verso il mare (immaginatelo senza il porto e la strada sopraelevata, in diretto rapporto col mare quindi), attraccavano le galee della flotta delle aquile dei Doria nel momento in cui l’ammiraglio (prima Andrea, poi Giovanni Andrea) doveva imbarcarsi sulla Capitana (l’ammiraglia) o doveva sbarcarne per tornare a casa.
Oltre all’ormai celebre galeone dei pirati al Porto Antico è ormeggiata la riproduzione della fregata “Argo” di Andrea Doria.
La barca è stata ricostruita seguendo fedelmente i disegni originali del Cinquecento. “Argo” monta issati i due vessilli verdi (il colore della famiglia) ed i due vessilli bianchi fregiati dall’aquila araldica dei Doria. Il tutto è completato da un tendale in prezioso velluto cremisi. L’imbarcazione serviva all’epoca per trasportare i nobili ed i notabili che giungevano via mare fino alla residenza del Palazzo del Principe, la sontuosa villa sul mare da cui l’ammiraglio poteva dominare il porto e il golfo di Genova.
Ma l’ammiraglio aveva sempre, ancorate in Darsena, 12 galee in assetto da guerra (che aumentarono poi fino a 20) al comando della quale v’era la Capitana, la galea più prestigiosa del suo tempo.
Una nave sfarzosa e dalle dimensioni ragguardevoli al servizio del Signore del mare. A quel tempo era stata stabilita insieme all’imperatore Carlo V la spedizione in Africa e, per l’occorrenza, l’ammiraglio aveva dato disposizione per l’allestimento di una nuova flotta e di una degna capitana di tale stuolo.
“Il Signor Principe facea fare una quadrireme, legno non usitato, per vedere se riuscita bene, per servirsene riuscendo molto utilmernte” raccontano i cronisti del tempo e ancora “L’Imperatore è sbarcato in la quadrireme, la quale è la più bella galera che si possa immaginare, e a popa li è preparata una cameretta ove dormirà esso et lo Infante Don Luis di Portugal”.
“La quadrireme è tale che a gran fatica non si potrebbe meglio pingersi et immaginarsi”… un altro storico… “Questo legno era con sì raro artificio et con tanta et si nuova magnificenza fabbricata, et ornato così riccamente, che pareggiava in questo genere le spese superbissime delli antichi imperatori”.
“Il Principe Andrea Dorio ha fatto una galera per la cesarea Maiestà; quale dicono essere longa quindice palme et larga quatro più delle altr. Dove che nelle altre usano tre rafforzati (tre fila di rematori) per banco in questa ne usano quatro: E de qui preso il nome Quadrireme. In prora vanno tre gagliardi, che così dicono stendardi, con Bandere de damasco cremesin; longhe palmi ventitrè l’una, posti tutti in oro. In quello de mezo una stella tutta d’oro col campo pieno de razi et freze atorno, con littere che dicono, “Vias tuas Domine dimostra mihi (Signore mostrami le tue vie”.
Nelle altre dui la impressa de sua Maestà; con facelle de foco, con parole che dicono Ignis ante ipsum precedet (il fuoco lo precede).
Ne la bandiera della Gabbia qual pendeva fino al mare un Angelo molto grande con littere intorno che dicono Misit deus angelus suum ut custodiat te in omnibus viis tuis (Dio pose un suo angelo a custode delle tue vie).
Ne la bandiera de la Antena (pennone) uno Scuto, una celata (elmo), una spada con parole intorno Apprehende arma et scutum et exurge in adiutorium mihi (Afferra lo scudo e le armi e corri in mio aiuto).
Tre stendardi, dui de largheza de sette pezze, l’altro de otto longo palme vinticinque; l’altro trenta.
Nel grande il Crucifixo con freze (frecce) d’oro senza parole. Neli altri dui le armi de sua Maestà et staranno innanzi la popa dreto le qual anderà una bandiera de damasco biancho longa vintisei palmi; in mezo una pietra de littere Arcum conteret et confriget ; arma et scuta comburet igni (l’arco si consuma e si spezza; brucia le armi e gli scudi col fuoco), et per lo campo chiave calici et croce de sancto Andrea. Dale bande duoi altre bandiere con littere intagliate Et plus ultra con l’impressa stemma di sua Maiestà.
Poi si ferno vintiquatro bandiere de damascho con campo gialo messo in oro con le arme de sua Maiestà: con le frezi rosse ne li cantoni de argento con le impresse de la sua Maiestà.
La Camera viene tutta intaliata de lavori bellissimi de legname messi in azuro et or, et de più altri paramenti di tela d’oro e d’argento.
Le pope viene medesimamente intagliata de uno Cendale de Veluto cremisino fodrato de brocato riccio sopra riccio; et un altro di scarlato pe ogni dì.
La Ciurma vestita di seta con camise lavorate di seta. L’arteglieria che è portata da ogni parte serà molto grossa e minuta.; gli huomini che ce andaranno si pensa che saranno ben vestiti et ben armati con questa et quatordece altre galere andava in Barzellona ove se intende che serà sua Maiestà. Et sono opinioni che voglia venir in Italia un’altra volta: pur il più crede che no, et che il Principe piglierà li sette mila spagnoli che sono in ordine per questa impresa: et l’armata de Spagna et de Portugallo et verrà in Sardegna. El signor Marchese con le altre galere et nave che son qui, imbarcarà li quatro milia italiani et sette milia Todeschi che sono in Lombardia, et andràno a napoli e de lì in Sicilia per pigliare cinque milia spagnoli che sono lì: et le galere passeranno in Sardegna”.
Nel 1538 Andrea Doria, in occasione dell’arrivo a Genova sia dell’Imperatore Carlo V che del Papa Paolo III organizzò un’imponente parata navale davanti al porto con lo scopo di dimostrare, se mai ce ne fosse stato il bisogno, tutta la sua potenza.
L’incontro aveva l’obiettivo di preparare una crociata contro gli Ottomani: un anticipo di quella alleanza che porterà alla vittoria di Lepanto nel 1571. La flotta genovese, seconda per numero di galee a quella turca e veneziana ma non per efficienza e qualità, avrà un ruolo decisivo nelle guerre combattute dalla Spagna nel Mediterraneo durante il XVI secolo.
In copertina: Il convegno del 1538 tra l’Imperatore Carlo V, il papa Paolo III e Andrea Doria di fronte a Genova, in un dipinto fiammingo. Sulla galea che ospita i tre personaggi, in primo piano a destra, sono raffigurati i simboli papale [l’Eucarestia], imperiale [l’aquila] e di Andrea Doria [il rostro]. L’ammiraglio indica con la mano ai due capi della Cristianità la rotta verso levante. Immagine tratta da giuntafilippo.it.
… di una chiesa scomparsa… di un mobiliere… di dipinti di Van Dyck…
In una città che re e principi né ne ha mai avuti, né ne ha mai visti di buon occhio è quanto mai curioso che due dei principali musei siano a questi intitolati: Villa del Principe e Palazzo Reale. il Quest’ultimo in realtà si chiama Palazzo Stefano Balbi dal nome del facoltoso mecenate che lo fece, insieme all’omonima strada, costruire nella prima metà del ‘600.
La lussuosa dimora venne poi acquistata nel 1679 da un’altra nobile famiglia, quella di origine albanese, dei Durazzo che diedero incarico al prestigioso architetto Carlo Fontana, di ristrutturarla nella versione in cui, grosso modo, la possiamo ammirare ancora oggi.
Divenne Reale solo nel 1823 quando subentrarono i Savoia, nuovi indigesti signori della città dopo il frustrante Congresso di Vienna del 1815, che la elessero a loro residenza cittadina. Nel 1842 la famiglia reale incaricò lo scenografo genovese Michele Canzio di trasformare alcuni ambienti, come le sale del Trono e delle Udienze e il salone da Ballo, per adattarle alle nuove necessità di rappresentanza.
Fu allora che fu eretto, nella parte a mare, il Ponte Reale che, scavalcando la strada carrabile ( Via Carlo Felice, oggi via Gramsci),
permetteva ai Savoia di raggiungere, lontano da occhi indiscreti e al coperto, direttamente l’imbarcadero del porto. Il Ponte per la cui costruzione era stata demolita parte dell’attigua e secolare chiesa di S. Vittore, fu abbattuto nel 1964 in occasione della costruzione della sopraelevata.
Una parte della chiesa chiusa al culto venne inglobata nelle strutture del Palazzo Reale e una parte sacrificata per l’artificiosa creazione di Piazza dello Statuto. La navata destra fu invece immolata per l’allargamento di Via Carlo Alberto (1831-39), odierna Via Gramsci.
Entrambi i lati mutili sono stati “mascherati con facciate posticce di stile ottocentesco ancor oggi visibili mentre gli interni superstiti sono stati ristrutturati per ospitare locali del Palazzo Reale ed una caserma della Guardia di Finanza, da tempo trasferitasi altrove. Di originale a ricordarci del tempio scomparso e dell’abuso commesso rimane solitario il campanile che svetta fra i tetti e vigila sui giardini.
Gli arredi e le opere d’arte, come la celebre Madonna della Fortuna, vennero trasferite nella vicina S. Carlo che ne assunse anche il titolo chiamandosi da allora Chiesa di San Carlo e San Vittore.
Nel 1919 i Savoia donarono il palazzo allo Stato e venne così istituito il museo della galleria nazionale.
Varcato l’imponente portale si accede al cortile con l’arco di trionfo che separa il bel giardino pensile affacciato sulla Darsena del porto.
Assai particolare è il mosaico della pavimentazione in risseu proveniente dal distrutto Monastero delle Monache Turchine che si trovava sotto Corso Carbonara e Largo della Zecca. Come testimoniato da apposita lapide il risseu è stato risistemato da Armando Porta lo stesso splendido artista che avrebbe restaurato quello di Campo Pisano.
Al suo interno il Palazzo Reale conserva i mobili originali di tutta la sua secolare storia ed include mobili genovesi, piemontesi e francesi della metà del XVII secolo fino all’inizio del XX secolo. Tra questi meritano particolare menzione quelli del celebre ebanista britannico Henry Thomas Peters. L’artista aprì infatti a Genova un laboratorio proponendo il suo stile moderno e all’avanguardia. La sua raffinata produzione marchiata a secco “Peters Maker Genoa” divenne un tratto distintivo imitato per decenni dai mobilieri locali.
Fra i numerosi e pregevoli affreschi sono da ricordare “La fama dei Balbi” di Valerio Castello e Andrea Seghizzi,” La primavera che spinge lontano l’inverno“ di Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli e “Giove che manda giustizia sulla Terra” di Giovanni Battista Carlone.
Nelle sale dei due piani nobili sono inoltre esposti circa 200 dipinti dei migliori artisti genovesi del Seicento come Bernardo Strozzi, il Grechetto, Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccio, Domenico Fiasella insieme a capolavori di Bassano, Tintoretto, Luca Giordano, Simon Vouet, Guercino e Antoon Van Dyck del quale si possono ammirare due capolavori assoluti: il “Ritratto di Dama” e il “Crocefisso”.
Adeguato risalto e spazio viene anche dato alla scultura grazie alla presenza di opere di Filippo Parodi, uno dei massimi esponenti della scultura barocca genovese.
Il Museo, aperto al piano nobile, presenta una serie di eleganti ambienti decorati e arredati nel Settecento dalla famiglia Durazzo. Appartengono al XVIII secolo la Galleria degli Specchi, la Sala di Valerio Castello (il pittore autore degli affreschi) e la Galleria della Cappella. Risalgono invece all’epoca dei Savoia la Sala del Trono, la Sala delle Udienze, il Salone da Ballo.
La galleria degli Specchi in particolare costituisce veramente un gioiello di eleganza e sfarzo in cui spiccano quattro statue (Giacinto, Clizia, Amore o Narciso, Venere) di Filippo Parodi e un gruppo marmoreo (Ratto di Proserpina) di Francesco Schiaffino.
Fatta costruire dai Durazzo decorata a fresco 1730 da Domenico Parodi con statue romane e affreschi metaforici sulle virtù e sui vizi. Sullo sfondo risalta il “Ratto di Proserpina” di Francesco Schiaffino.
Era prassi consolidata nei giardini privati delle ville patrizie di costruire grotte artificiali e ninfei con giochi d’acqua e fontane.
I nobili le commissionavano, ad imitazione delle antiche domus romane, per trascorrervi qualche momento di sollievo al riparo dalla calura estiva o per immergersi in solitaria lettura accompagnati dal bucolico scorrere delle acque. Spesso le nobildonne vi si intrattenevano con le dame di compagnia mentre si dedicavano ai loro passa tempo preferiti.
A Genova questa moda di costruire caverne artificiali ebbe gran successo ed è per questo che se ne possono ammirare ancora diversi esemplari: quella di Villa Pallavicini a Pegli, di Palazzo Lomellino in Via Garibaldi o quella di Palazzo Balbi Senarega, decorata quest’ultima con statue in stucco, marmi e conchiglie.
Di certo la più celebre rimane però quella del giardino settentrionale della Villa del Principe (Palazzo Doria), realizzata da Galeazzo Alessi a metà del Cinquecento..
Citata addirittura dal Vasari nell’elenco delle opere del capitolo sulla vita dell’Alessi risulta essere oltre che la più antica grotta genovese, senza dubbio la più spettacolare e affascinante, con una vicenda assai travagliata da raccontare.
Venne infatti commissionata a metà ‘500 al celebre architetto perugino da un certo “Capitan Lercaro”, membro di una famiglia di luogotenenti di Andrea Doria, i Doria Galleani, che abitavano nella vicina – e perduta – villa del Gigante proprio nei pressi del luogo dove dal 1566 sorgeva l’omonima statua dell’ammiraglio.
La villa e il terreno con relativa grotta vennero acquistati nel 1603 da Giovanni Andrea Doria ed entrarono così a far parte del parco della Villa del Principe.
Ma a causa del progressivo inurbamento della sovrastante collina nei secoli passati fu dimenticata e trascurata. Già lo storico ottocentesco Federico Alizeri ne denunciava allibito il degrado, descrivendola come deposito di fascine dei contadini della zona.
Ad inizio Novecento fu addirittura trasformata nella cantina di un condominio, danneggiata poi durante un bombardamento durante la seconda guerra mondiale, fu riscoperta negli anni Ottanta (1984) grazie alla determinazione del prof. Lauro Magnani. Questi, nella speranza che esistesse ancora e conoscendo la sua ubicazione originale, prima di trovarla, girò il nuovo quartiere sorto in quell’area alla disperata ricerca d’informazioni, finché ottenne notizie e riscontri da un’ignara condomina proprietaria, senza saperlo, della secolare grotta nascosta nella sua cantina.
Lo studioso si adoperò perché le istituzioni si attivassero per salvaguardare quell’incredibile patrimonio storico e artistico non riuscendo, a causa della mancanza di fondi e del disinteresse della burocrazia, nel suo nobile intento.
Chi la dura la vince e per fortuna il professore salvò il tesoro convincendo nel 1999 la famiglia Doria Pamphilj ad acquisire l’appartamento a cui era legata la proprietà della cantina-grotta che oggi è visitabile, previa prenotazione, nell’ambito dei percorsi guidati del Palazzo del Principe.
Dietro al Miramare varcato un piccolo cortile si apre davanti alla favolosa grotta: pianta ottagonale, pavimento in marmi policromi. Alle pareti non c’è limite alla fantasia dei mosaici polimaterici, con cui si realizzano temi classici: cristalli, coralli, tessere di maiolica colorate e migliaia di conchiglie di ogni forma e tipologia. Non c’ è uno spazio liscio, intorno. Le figurazioni del Nilo, del Tevere, come vecchi dal cui otre sgorgano le acque. L’intera superficie della grotta, tranne i pavimenti rivestiti di marmo, è incastonata di decorazioni in conchiglie, coralli, tessere di maiolica, ciottoli, cristalli e frammenti di stalattiti naturali: un mosaico composto in più materiali di eccezionale ricchezza, che riesce a mescolare natura ed artificio donando all’intera grotta un aspetto acquatico. Sul fondo, si apre la grotta naturale, con stalattiti e stalagmiti dove dal 1550 sgorga ancora l’acqua, attinta chissà dove, e canalizzata, chissà come, fino a qui. Originalmente, sulle figure di coralli e pietre scendevano rivoli d’acqua che tintinnavano. Adesso l’effetto è perduto. Il vano è chiuso, in alto, da una cupola a spicchi: sono rappresentate figure mitologiche legate a Nettuno (rappresentazione metaforica di Andrea Doria).
Questo anche perché l’acqua, nella grotta, scorre davvero sulla superficie della profonda nicchia aperta sul lato di fronte all’ingresso, mentre anticamente stilava dall’alto nei bacini posti sotto le varie nicchie minori. Tutti gli episodi rappresentati sulle pareti della grotta sono di soggetto e ambientazione marina: Polifemo sullo scoglio, Galatea sulla conchiglia trainata dai delfini, il rapimento di Europa, Nettuno sul cocchio, Perseo mentre uccide il mostro marino che minaccia Andromeda, Peleo e Teti e il rapimento di Deianira.
Un mondo meraviglioso in cui i gli eroi qui rappresentati come direbbe Platone …” se uscissero dalla caverna e vedessero le cose alla luce del sole si renderebbero conto di aver vissuto in un mondo di apparenze”.
(Il mito della caverna)
Con lo scopo di commissionare un monumento funebre degno di tal nome per la tomba del figlio Rodolfo, da pochi anni morto suicida, sua Maestà Elisabetta d’Austria, a tutti nota come Principessa Sissi, giunse a Genova. Scese nel tardo pomeriggio del 26 marzo 1893 dal treno proveniente da Milano alla stazione di Piazza Principe sotto le mentite spoglie di “Lady Parker”. Noleggiata una carrozza, in incognito, raggiunse Ponte Federico Guglielmo dove ad attenderla c’era lo yacht Miramar giunto da Nizza. L’imperatrice era già a bordo quando arrivarono a Calata delle Grazie i suoi bagagli, ben sessantanove colli sistemati su tre carri.
Il giorno successivo dopo la colazione a bordo, l’imperatrice mandò verso le 11 il suo cameriere a fare acquisto d’una guida di Genova e un’ora dopo, accompagnata dalla sua dama di compagnia e dal suo professore di greco, scese a terra… Nessuno fece caso al suo passaggio. Si incamminò verso il centro della città, fino alla chiesa dell’Annunziata dove entrò e si trattenne parecchio ad ammirare le numerose opere d’arte custodite al suo interno.
Uscita dalla chiesa, Elisabetta si diresse in corso Carbonara dove aveva lo studio lo scultore Domenico Carli. Si fermò ad esaminare monumenti quasi terminati. E da lì, proseguì a piedi con passo sostenuto, lungo la Circonvallazione a Monte, per arrivare a piazza Manin.
Di qui, discendendo per via Montaldo, arrivò alla monumentale necropoli di Staglieno, orgoglio dei genovesi pedinata da un cronista del Secolo XIX che nel frattempo si era messo sulle sue tracce.
Annota il giornalista: “…Nel cimitero si fermava con compiacenza ad ammirare le opere di Monteverde, Villa, Saccomanno, Sclavi, Carli, Moreno, Fabiani… Dinanzi al monumento di Giacomo Carpaneto dello Scanzi, raffigurante una barca con un angelo, fece copiare sul suo taccuino l’epigrafe: “Avventurato chi nel mar della vita ebbe nocchier si fido”.
Chiese l’indirizzo dello studio dello scultore… Ritornò in città con una vettura chiusa… In via Roma nel negozio filogranista signor Savelli, fece diversi acquisti e, dopo essersi fermata alquanto nell’offelleria Ferro e Cassanello in piazza De Ferrari, scese in via Orefici, entrando a far spese nella pasticceria della vedova Romanengo”. “Non è dato sapere – precisa il cronista – a quale scultore Sissi commissionasse il lavoro per il sepolcro del figlio Rodolfo”.
“Il terzo giorno, martedì 29 marzo, venne organizzata un’escursione nel ponente genovese. Verso le 11, vestita con un elegante abito nero, in mano un ombrellino color cenere, assieme alla contessa Festelia e al professor Barker salì su una carrozza scoperta ad un cavallo. La prima sosta fu appena fuori la porta della Lanterna, a ridosso del bastione di San Benigno, per ammirare il paesaggio della cornice rivierasca. Risaliti in vettura proseguirono per Pegli dove giunsero poco prima di mezzogiorno alla Villa Pallavicini. Alle 14 la visita era terminata. Diretta verso Sestri Ponente, la piccola comitiva fece ancora una breve fermata a Villa Rostan, a Multedo, per ammirare il parco di querce secolari ed il laghetto.
Ripreso il cammino, attorno alle tre pomeridiane arrivarono a Sestri. Qui del proposito di Sissi di salire sulla vetta del monte Gazzo doveva essere giunta notizia, perchè a Palazzo Fieschi dalla mattina stavano armeggiando per trasformare in portantina una comoda poltrona, uno di quei capaci e maestosi “careguin” in cuoio di Cordova che allora attorniavano il salone municipale. Portatori sarebbero stati i “camalli da menna”, capitanati dal leggendario “Perrucca”, assai noto a Sestri per il suo pugno proibito e per il trasporto del grandioso gruppo ligneo della Decollazione del Maragliano durante la processione delle Casacce.
Nonostante al mattino non si fosse risparmiata, Elisabetta d’Austria – formidabile camminatrice, instancabile e svelta – rinunziò alla portantina preferendo arrampicarsi a piedi fin sulla cima del monte. Fece fermare la carrozza in San Giovanni Battista, dove ad attenderla c’era la guida Francesco Patrone che l’accompagnò fino al santuario, a 421 metri d’altezza”.
Dall’altura il panorama (a quel tempo una distesa di spiagge) era davvero stupendo e l’imperatrice – annota fedelmente il reporter de “Il Secolo XIX” che dal suo arrivo la pedinava discretamente come un’ombra – “espresse il suo compiacimento con delle frequenti esclamazioni di jolie! jolie!”.
L’imperatrice nei suoi programmi avrebbe voluto fermarsi qualche giorno di più se le fosse riuscito – come era suo desiderio – di passare inosservata. Ma la notizia del suo arrivo aveva ormai fatto il giro della città e nei salotti buoni non si parlava d’altro. Ragion per cui diede ordine al comandante di salpare l’indomani. Il mattino dopo, alle nove in punto, lo yacht imperiale uscì dal porto e costeggiando la riviera di levante puntò deciso verso Napoli, tappa successiva di quel continuo ed inquieto peregrinare. Un moto fine a se stesso, senza una direzione nè un senso, che spinse Sissi a scrivere sul suo diario: “Non si sa che farsi di me perchè vivo al di fuori delle convenzioni. Nulla fa sentire il peso dell’esistenza come il contatto con gli uomini, mentre il mare e le foreste liberano di tutto ciò che è terrestre.”
A ricordare la visita di Elisabetta d’Austria a Genova è rimasta, unica testimonianza, una lapide nel piazzale del santuario del monte Gazzo, murata sulla facciata lato mare del vecchio ospizio dei pellegrini.
L’iscrizione, dettata sul finire dell’800 da Angelo Boscassi, archivista del Comune di Genova, suona così:
“Perchè non cada nell’oblìo – d’Austria Ungheria – alcuni devoti di questo Santuario – posero il presente ricordo”. l’Augusta visita qui fatta il 29 marzo 1893 dalla piissima Imperatrice Regina Elisabetta”.