l celebre Francesco Maria Schiaffino che con sorprendente leggerezza sfrutta ogni centimetro di marmo per scolpire la sua splendida Natività.
Nella chiesa delle del S.S nome di Maria e degli Angeli Custodi in Piazza delle Scuole Pie sono custodite una serie di lastre marmoree preziosa testimonianza del talento di alcuni dei più importanti scultori del ‘700 genovese quali Nicolò Traverso, Carlo Cacciatori e Francesco Fanelli.
Fra queste in particolare merita menzione la composizione realizzata dal loro maestro, il celebre Francesco Maria Schiaffino che con sorprendente leggerezza sfrutta ogni centimetro di marmo per scolpire la sua splendida Natività.
Le statuine, in origine delle marionette, sono state adattate e arricchite con vestiti realizzati intorno al 1980 dal famoso scenografo genovese Lele Luzzati.
Non c’è chiesa nei caruggi – e non solo – che non fornisca preziosa testimonianza di questa tradizione nostrana. Fra i tanti mi preme segnalare e far conoscere in particolare quello orgogliosamente custodito in Santa Maria di Castello, la chiesa cuore storico, artistico e culturale della città vecchia.
Le statuine, in origine delle marionette, costruite a cavall0 fra ‘700 e ‘800, furono trovate in una cassa dai domenicani quando ancora abitavano il convento. Non se ne conosce con certezza la paternità. Probabilmente alcune sono riconducibili alla scuola del Maragliano e dei suoi allievi Pietro Galleano e Agostino Storace, altre la maggioranza, dei suoi continuatori Pasquale Navone e Giovanni Battista Garaventa. Di sicuro sono state adattate e arricchite con vestiti realizzati intorno al 1980 dal famoso scenografo genovese Lele Luzzati.
Le ceneri del Battista giunsero a Genova nel 1098 portate in patria da Guglielmo Embriaco di ritorno dalla presa di Cesarea durante la prima Crociata. Il conquistatore di Gerusalemme infatti le aveva prese in un convento di monaci greci presso la città di Myra in Licia in Asia Minore (attuale Turchia).
In realtà secondo quanto tramandato da Jacopo da Varagine nella sua “Legenda Aurea” obiettivo dei genovesi, anticipati di circa un decennio dai baresi, sarebbero state le reliquie di San Nicola.
Narra difatti la leggenda che sulla via del ritorno la flotta genovese rischiò, a causa di una forte tempesta, il naufragio.
Solo quando i resti del Santo, precedentemente ripartiti fra le galee del convoglio su consiglio del prete di bordo, vennero riuniti sotto la custodia unica sulla capitana di Oberto Da Passano responsabile della spedizione, il mare si placò e i nostri eroi rimpatriarono sani e salvi.
Da allora ogni 24 giugno, retaggio di miti pagani legati al vicino solstizio estivo, mischiati con la dottrina cristiana, il Santo viene celebrato portandone in processione le reliquie. In quell’occasione in suo onore si bruciano falò con lo scopo di illuminare, chiara reminiscenza pagana, le tenebre per esorcizzare streghe e demoni.
Un culto quello del Precursore buono per tutte le occasioni, in particolare come poliedrico antidoto contro le calamità naturali quali terremoti, pestilenze, carestie, fortunali e disgrazie varie. In queste nefaste circostanze narrano infatti gli Annali che i genovesi lo accompagnavano in processione sul luogo della sventura e miracolosamente il mare si placava, l’incendio veniva domato, la carestia scongiurata e la peste guarita.
Le ceneri di San Giovanni sono conservate in Cattedrale nell’omonima quattrocentesca Cappella e venivano ricoverate all’interno di una preziosa cassa detta del “Barbarossa” dal nome dell’imperatore alemanno che nel 1178 ne aveva fatto dono alla “Dominante”, la Signora del Mare. Nel ‘400 venne commissionata dal Capitolo di San Lorenzo la sfarzosa Arca Processionale ancora oggi in uso, capolavoro di alta oreficeria tardo gotica europea.
Le preziose Arche e il piatto in calcedonio che avrebbe accolto la testa del Santo, donato da Papa Innocenzo VIII, sono solo alcuni dei sensazionali pezzi custoditi all’interno della cripta del Tesoro di San Lorenzo.
In Copertina: l’Arca contenente le ceneri del Battista in processione lungo via San Lorenzo.
Sulle pareti all’interno del chiostro di San Matteo, insieme alle numerose lapidi che attestano il prestigio acquisito nei secoli dal casato dei D’Oria, è affissa la copia del bassorilievo del 1290 che raffigura Porto Pisano. Si tratta di una preziosa testimonianza di quel 23 agosto giorno in cui, Corrado D’Oria al comando della sua flotta, violò la roccaforte toscana interrandone definitivamente il porto.
Al centro spiccano le due torri Magnale e Formice collegate fra loro dalle famose gigantesche catene che proteggevano lo scalo della città della Volpe. Catene che furono, fino al 1860, appese sulle principali porte e chiese della Superba prima di essere, in segno di rinnovata concordia, restituite e conservate presso il Camposanto monumentale in riva all’Arno.
Le maglie erano appese in:
Chiesa di San Torpete
Palazzo San Giorgio
Chiesa di Santa Maria di Castello
Chiesa del Santissimo Salvatore
Porta Soprana
Bassorilievo in Borgo Lanaiuoli
Porta degli Archi
Chiesa di Santa Maria Maddalena
Salita di Sant’Andrea
Chiesa di Sant’Ambrogio
Chiesa di San Matteo
Chiesa di Santa Maria delle Vigne
Chiesa di San Donato
Porta dei Vacca
Chiesa di San Sisto
Commenda di San Giovanni di Pré
Murta
«Che a travaggiava con garie armè /
e ligava nemixi e noi servava, /
e chenne grosse da per lé schiancava, /
chi ancora son per Zena spanteghè
(Da Zena moere de regni e de cittè, Paolo Foglietta (1520 – 1596))
Traduzione:
«La grandezza di Genova è universalmente conosciuta] perché lavorava con galee armate, /
e legava nemici e ci salvava /
e grandi catene da sola spezzava, /
che ancora oggi sono sparse per Genova.»
Tuttavia ne restano ancora traccia in due località della Liguria: due anelli sono conservati infatti a Murta appartenuti ai fratelli Marcenaro due marinai della zona che avevano partecipato all’impresa. In realtà si tratta di copie settecentesche realizzate a posteriori poiché gli originali furono trafugati nel 1747 dagli austriaci del generale Schulenberg che, durante il vano assedio della Superba, erano accampati nel borgo della Val Polcevera.
Le copie murtesi oggi vengono esposte durante la festa della Zucca mentre le originali dell’epoca erano appese sulla chiesa di San Martino.
Altre maglie sono infine esposte all’esterno della chiesa di Santa Croce di Moneglia donate dai genovesi al capitano Stanco che, al comando della fedele alleata, aveva partecipato all’impresa.
L’epigrafe latina:
In nomine D(omi)ni am(en)
MCCLXXXX
oc cadena tuleru(n)t
de portu Pisanoru(m)
oc opus fecit fieri d(omi)no
Tra(n)cheus Sta(n)co de Monelia
Traduzione della lapide:
Nel nome del Signore così sia
Anno 1290
Questa catena fu portata via
dal porto di Pisa
la lapide fu posta dal signor
TRANCHEO STANCO DI MONEGLIA
battaglia della Meloria 1284
L’originale del bassorilievo di Porto Pisano era invece affisso un tempo in Vico Dritto di Ponticello sulla casa di Carlo Noceti (detto anche Noceto Chiarli), il celebre fabbro genovese che con la sua perizia aveva tranciato le enormi catene del porto nemico. Maistro Chiarlo – così era chiamato – aveva ingegnosamente acceso dei fuochi sotto di esse rendendole incandescenti e quindi più facilmente spezzabili.
Pochi però sanno che le catene del 1290 non furono né le uniche né le prime tradotte a Genova: già nel 1287 infatti, durante una spedizione organizzata dall’invincibile ammiraglio Benedetto Zaccaria, uno dei due eroi della Meloria, (l’altro Oberto D’Oria) i genovesi si erano già impossessati delle catene del porto.
Benedetto, a bordo della sola “Divizia”, la sua galea prediletta, aveva violato il baluardo militare facendosi largo fra le torri di difesa mentre un suo sottoposto, il capitano Nicolino di Petracco al timone di altre 5, era entrato nel bacino mercantile spezzandone per urto (delle galee) le maglie. Catene che furono anch’esse, fino al 1860, appese sulla Cattedrale di San Lorenzo. Durante l’eroico assalto Benedetto rimase gravemente ferito ma in seguito alla sua coraggiosa impresa, impauriti, i pisani siglarono la pace. I patti furono talmente duri per i toscani che questi, non rispettandoli, videro nel 1290 il loro approdo definitivamente distrutto ed interrato ad opera di Corrado D’Oria.
La tavella genovese rimanda ad altre due rappresentazioni simili murate nella cattedrale di Pisa. La prima esposta lungo il muro meridionale del coro della chiesa, la seconda al pian terreno del campanile della stessa. Probabile quindi che l’opera sia stata commissionata dai vincitori ad una delle numerose maestranze pisane fatte prigioniere in quegli anni a partire dalla celeberrima battaglia della Meloria avvenuta nel 1284.
A seguito della distruzione del quartiere avvenuta nel 1935 il prezioso manufatto è stato ricoverato presso il Museo di S. Agostino dove tuttora è accuratamente custodito.
Molti sono quindi gli aneddoti e le leggende legate al sito ma certamente il più inquietante è quello che racconta le tristi vicende della “Cagna Corsa” che qui venne arsa viva. A testimonianza della macabra esecuzione al centro della piazza c’è una mattonella superstite ancora annerita e, secondo la tradizione, ancora calda.
Piazza Banchi è sicuramente oltre che uno degli scorci più suggestivi della città vecchia anche un luogo ricco di storia: basti pensare ai cambiavalute, all’antica Borsa o al vicino Palazzo San Giorgio che nei secoli ha ricoperto la funzione di dimora del Capitano del Popolo, di dogana, prigione e Banca.
Ma alle vicende della piazza sono riconducibili anche avvenimenti criminali e leggendari quali ad esempio il pauroso incendio del 1398 che distrusse la primitiva chiesa di San Pietro della Porta. In quella nefasta circostanza perse la vita un giovane membro della potente famiglia dei Lomellini, il cui fantasma, secondo la tradizione, vaga ancora piagnucolante negli scantinati dell’edificio.
O le numerose risse e rasse (congiure) che nei secoli hanno visto protagonisti Mascherati (ghibellini) e Rampini (guelfi) fronteggiarsi in sanguinose lotte intestine.
Oppure il passionale omicidio avvenuto il 25 febbraio del 1682, per vendetta d’amore, del celebre musicista romano Alessandro Stradella.
Molti sono quindi gli aneddoti e le leggende legate al sito ma certamente il più inquietante è quello che racconta le tristi vicende della “Cagna Corsa” che qui venne arsa viva. A testimonianza della macabra esecuzione al centro della piazza c’è una mattonella superstite ancora annerita e, secondo la tradizione, ancora calda.
Manola questo era il suo nome, nota anche come Cattarina, era una donna del XVII sec. che, abitante a Rapallo, era originaria, come ci ricorda il suo soprannome, della Corsica.
Cattarina venne giustiziata dalla Santa Inquisizione nel settembre del 1630 al tempo in cui la Superba era sotto l’intransigente influenza di Re Luigi XIII di Francia.
Era stato il capitano della città del Tigullio Emmanuele da Passano a far pervenire al Senato una lettera in cui sostanzialmente accusava la presunta strega di chiedere l’elemosina e, con sommarie testimonianze di passanti, di aver infastidito un paio di mocciosi.
La povera disgraziata aveva tentato invano di sottrarsi all’intervento delle guardie ma era stata bloccata dalla folla nel frattempo accorsa e accusata di aver eseguito malefici contro alcuni fanciulli misteriosamente morti poi, qualche giorno dopo.
La relazione del Capitano da Passano al Sant’Uffizio l’aveva definita maga e incantatrice e per questo senza tanti convenevoli l’aveva condotta in carcere.
In prigione subì un sommario processo in cui la testimonianza di un tal Nicolò Multedo fu purtroppo per lei fatale: Nicolò raccontò della visita che Cattarina aveva fatto 4 anni prima, egli assente, nella sua casa durante il periodo di Carnevale.
Costei aveva domandato a sua moglie, ottenendone rifiuto, fichi e castagne. Nel frattempo Cattarina aveva notato nella stanza un pargolo e, mentre elemosinava dell’olio chiaro, le chiese se fosse il figlio. Angiolina, la moglie di Nicolò rispose che olio chiaro non ne aveva più ma che poteva servirsi lei stessa dalla “ramara” per riempire “il doglio” che recava seco.
Evidentemente la strega non doveva essere rimasta soddisfatta del trattamento visto che brontolò: “… tu facevi meglio a darmelo chiaro” e se ne andò. Poche ore dopo il termine della sgradita visita il pargoletto, che aveva poco più di un mese, iniziò a star male e l’indomani a perdere dal naso “tre stizze di sangue” che colarono sulla bocca. Morse persino la madre che lo stava fasciando. L’infante sulla gola presentava tre segni neri come la presa di una mano attorno al collo che, secondo i genitori, non potevano altro che essere stati fatti dalla strega.
Qui subentra l’interpretazione esoterica del numero tre in chiave malefica dato che: tre furono le richieste della strega (fichi, castagne e olio), tre le gocce di sangue, tre i segni neri e alle tre di notte del terzo giorno della settimana il decesso del pargolo.
Forte di questo nefasto episodio il processo proseguì con altre testimonianze, più o meno inventate, di assassini di altri bambini e quindi il Capitano poté chiudere soddisfatto la pratica informando il Senato genovese dell’esito della sua inchiesta.
La risposta giunse rapida e lapidaria il 30 agosto: “… Vi diciamo che restando il suo delitto soggetto mallo statuto criminale Cap. 10 sotto la Repubblica de Veneficiiis, tirate innanzi questa causa terminandola con giustizia”.
Cattarina fu così trasferita a Genova e, conformemente alla legge in vigore, fu arsa viva in Piazza di San Pietro in Banchi.
“Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle”. (Voltaire)
Nel giugno 1797 il fallace vento libertario della Rivoluzione francese era giunto anche a Genova ponendo fine alla gloriosa Repubblica marinara per far posto all’effimera Repubblica “Popolare”.
Fu così che il popolo, in preda alla furia distruttrice, rinnegò i simboli della secolare oligarchia nobiliare, cancellando ogni traccia dell’odiata aristocrazia.
Vennero soppressi tutti i titoli regali, feudali e nobiliari con conseguente abolizione di stemmi, insegne e di tutta la simbologia araldica. A causa di questa scellerata disposizione vennero deturpati palazzi e chiese in tutta la Liguria cancellando numerose tracce d’arte e di storia della nostra cultura.
I facinorosi distrussero il libro d’oro della nobiltà, il prezioso registro dei patrizi genovesi, bruciandolo in Piazza Acquaverde sotto uno dei tanti alberi della libertà issati per celebrare la presunta ritrovata autonomia e, soprattutto, la tanto agognata emancipazione. Persino il leggendario Vessillo di San Giorgio subì in quei sciagurati giorni il medesimo nefasto destino. Quello che non erano riusciti a fare nemici d’ogni sorta nel corso dei secoli, fecero i genovesi in pochi giorni.
Come racconta un testimone del tempo non vennero risparmiate nemmeno le statue di Andrea e Giovanni Andrea Doria a poste a protezione dell’ingresso di Palazzo Ducale, da poco per l’occasione, ribattezzato Palazzo Nazionale.
“Al dopo pranzo… in Palazzo si volevano atterrare le statue dei due Doria. Non bastò ad evitarlo né l’intervento del colonnello Menici, né quello del comandante Siri. A forza di funi furono gettate a terra, e rotte, e cancellate le iscrizioni…”
Le teste mozzate dai busti e parti delle gambe furono trascinate e poste a basamento dell’albero della libertà predisposto davanti al novello (nel nome) Palazzo Nazionale.
La folla non contenta pretese anche gli abbigliamenti da cerimonia del Doge, abiti, gioielli e oggetti dall’incommensurabile valore storico: la portantina, l’urna del seminario (il marchingegno utilizzato per l’estrazione semestrale dei magistrati), troni, arredi e simboli saccheggiati dalla sala del Minor Consiglio.
La sera stessa dei tumultuosi avvenimenti Napoleone venne informato dell’accaduto dal Faipoult, suo rappresentante in città e, nonostante la comprensibile soddisfazione per l’ardore rivoluzionario dimostrato ai suoi futuri sudditi, rimase sinceramente dispiaciuto e scrisse una lettera di biasimo al governo provvisorio:
“Citoyens, j’apprende avec le plus grand déplaisir que dans un moment de chaleur l’on a renversé l statue d’André Doria. André Doria fut grnd marin, et homme d’état; l’aristocratie était la liberté de son temps. L’Europe entière envie à votre ville le précieux avantage d’avoir donné le jour à cet homme célèbre. Vous vous empresserez, je n’en doute pas, à relever sa statue. Je vous prie de vouloir m’enscrire pour supporter une partie des Frais que cela occasionnerà, et que je désire partager avec les citoyens les plus zelés pour la gloire et pour le bonheur de votre patrie. Je vous prie de me croire avec les sentiments de consideration avec lesqueis, je suis, Bonaparte”.
Il Faipoult stesso e Luigi Crovetto, membro di spicco del nuovo governo, riuscirono a dissuadere con pragmatiche motivazioni politiche (troppo difficile dissociare i Doria dal regime aristocratico nella mente ormai invasata dei genovesi) Napoleone dal suo nobile proposito e l’argomento delle statue finì nel dimenticatoio.
La statua di Andrea era stata scolpita da Angelo Montorsoli, quella di Giovanni Andrea da Taddeo Carlone due straordinari artisti a cui i Doria avevano commissionato opere nella chiesa di San Matteo e nella Villa del Principe.
Per fortuna alcune parti superstiti sono state salvate, recuperate e alloggiate presso il Museo di S. Agostino. Dal 2010, dopo accurato restauro, sono tornate nella loro casa di Palazzo Ducale dove, collocate sul ballatoio al termine della prima rampa di scale che conduce ai piani superiori, hanno ripreso il loro compito di custodi della nostra storia.
Scritta di getto due giorni dopo la tragedia del 14/8/2018 del crollo del Ponte Morandi. Un umile ma sincero pensiero volto a trasmettere un po’ di orgoglio e senso di appartenenza per la nostra Comunità.
ANCORA UNA VOLTA!
Non ti ha scoraggiato la guerra
ma ancora una volta,
Ti frana sotto i piedi la terra.
Roma oggi contrita ti porge il Tricolore
ma ancora una volta,
domani sarai sola con il tuo dolore.
Costretta a piangere in silenzio i tuoi figli
ancora una volta,
vite spezzate come petali di fiori vermigli.
In silenzio e con ritegno,
quando ancora una volta,
è grande lo sdegno.
Persino il tempo ha disatteso il suo mandato stavolta,
si è fermato,
ad ascoltare un momento
ancora una volta,
delle sirene del Porto il disperato lamento.
GENOVA ferita,
ancora una volta,
Genova tradita.
Genova di nuovo in ginocchio,
si ancora una volta,
ma con lo sguardo fiero
Rialzati!
Ancora una volta,
Rialzati per davvero.
Campanile di S. Maria di Castello e Torre De Castro spuntano fra le gomene del Neptune.
Foro di Leti Gagge.
Più che mai:
“Padroni di una corda marcia d’acqua e di sale che ci lega e ci porta in un caruggio di mare”.
Cit. “Creuza de ma” 1984 Faber.
Il ponte Morandi in quel maledetto agosto 2018
Versione in lingua genovese:
ANCON INA VÒTTA!
A no t’à descoragiòu a goæra
ma ancon ina vòtta,
a tæra a te derua de sotta a-i pê.
Romma ancheu pentîa a te porze o tricolore
ma ancon ina vòtta,
doman ti saiæ sola co-o teu dô.
Costreita a cianze in scilensio i teu figgi
ancon ina vòtta,
vitte stocæ comme feugge de sciôe cô rosso incarnatto.