In Piazza Cavour all’angolo con Via del Molo proprio di fronte a quella che comunemente viene identificata come la casa del Boia si trova una misteriosa e inquietante scultura.
Notarla non è affatto facile: o la si vede da sotto all’altezza, appunto, di Via del Molo oppure da sopra Piazza Cavour distendendo lo sguardo oltre la sopraelevata.
All’ultimo piano dell’edificio infatti, tra il pluviale e il terrazzino dello stesso, si scorge una misteriosa testa murata.
Attorno a questa scultura ruotano diverse curiose interpretazioni più a carattere leggendario che storico vero e proprio.
Per altri sarebbe invece, visto che fin dal Medioevo sul Molo avvenivano le esecuzioni capitali, la riproduzione della testa del boia stesso.
Di quest’ultima versione c’è infine una macabra variante secondo la quale il volto sarebbe stata scolpito invece a ricordo delle teste mozzate dei condannati che tagliate dalla scure schizzavano in alto fin lassù.
Quando siete in zona state accorti e baveri ben alzati il boia vi sta osservando.
In Copertina: la testa del Boia in Piazza Cavour angolo Via del Molo. Foto di Rinaldo Parodi.
Quando nel 1885 i Savoia costruirono il ponte che collegava direttamente la loro dimora genovese con la ferrovia e l’imbarcadero lontano da occhi indiscreti.
Quando, per far ciò, non si fecero scrupolo di abbattere la secolare chiesa di San Vittore. Una parte della chiesa chiusa al culto venne inglobata nelle strutture del Palazzo Reale e una parte sacrificata per l’artificiosa creazione di Piazza dello Statuto.
La navata destra fu invece immolata per l’allargamento di Via Carlo Alberto (1831-39), odierna Via Gramsci.
Quando c’erano ancora i binari solcati dagli inconfondibili tram verdi della Uite.
Il ponte sabaudo fu abbattuto nel 1964 in occasione della costruzione della sopraelevata.
L’origine del toponimo genera ancora oggi confusione poiché tale posticcia appendice è sempre stata impropriamente chiamata Ponte Reale.
Il Ponte Reale, quello vero, invece era il passaggio che nei pressi di palazzo San Giorgio, attraversava il torrente “riale” di Soziglia che fungeva da raccoglitore delle acque del rio Bachernia e delle Fontane Marose.
Così rio, “ria” in lingua genovese, per storpiatura nel tempo si è trasformato in “reale” fomentando l’equivoco con il ponte chiamato alla stesso modo che collegava, il Palazzo Reale con l’imbarcadero direttamente in porto.
“Il Ponte Reale dei Savoia nei primi anni ’60 poco prima dell’abbattimento”.
Sopra il portale di accesso si legge infatti, scolpita nel marmo, la laconica epigrafe:
“Questo luogo non gode immunità”.
Tale decisione fu presa dal Papa nel XVIII sec. a seguito di una petizione popolare che denunciava il degenerare della situazione.
Fin dal Medioevo infatti tutti gli edifici religiosi garantivano l’immunità a chiunque vi chiedesse asilo: ladri, assassini, briganti, malviventi e fuorilegge vari riuscivano così a sfuggire alla giustizia terrena.
Evidentemente al riparo del chiostro di San Lorenzo si doveva davvero avere esagerato.
Nel bel mezzo di Piazza Bandiera in zona della Nunziata, accerchiato dalle automobili, si trova il barchile di Enea.
Il monumento, in origine un semplice barchile con fontana abbellito da una sinuosa sirena, fu realizzato nel 1578 da Taddeo Carlone.
La sua primitiva collocazione era al centro di Piazza Soziglia nel cuore macelli.
Da qui, in seguito alle proteste degli abitanti che lo ritenevano troppo ingombrante, venne trasferito in Piazza Lavagna.
Purtroppo nel frattempo la sirena era stata danneggiata dalle sassate dei monelli del quartiere che la utilizzavano come bersaglio e quindi, poiché mutila in più parti, ricoverata in un magazzino in attesa di essere restaurata.
Ma non finisce qui perché nel 1844 la fontana venne nuovamente spostata, priva della sirena, in Piazza del Fossatello.
Intanto – facciamo un piccolo passo indietro – nel 1726 venne incaricato il celebre scultore carrarese Francesco Baratta di realizzare la splendida composizione intitolata la “Fuga di Enea da Troia”.
L’artista nella sua scultura celebra uno dei momenti più alti della cultura occidentale rappresentando la commovente scena in cui Enea, che ha perso tutto, è costretto ad abbandonare la città con quanto di più prezioso gli è rimasto, ovvero il figlio Ascanio aggrappato alle braccia e il vecchio padre Anchise caricato sulle spalle.
Le mani dei protagonisti convergono sul palladio, simulacro della dea Pallade Atena che, secondo la tradizione, Enea avrebbe portato a Roma.
Le peregrinazioni della fontana di Enea e famiglia terminarono nel 1870 quando il gruppo marmoreo venne spostato definitivamente nella locazione odierna in Piazza Bandiera dove in precedenza si era insediato il nuovo mercato di frutta e verdura.
Passando sotto l’ormai millenaria Porta di S. Fede o deiVacca o Sottana che dir si voglia alzando lo sguardo si notano sulle colonne di recupero dei curiosi volatili appollaiati sui capitelli.
Non si tratta di rapaci qualunque bensì di aquile simbolo araldico del casato dei sovrani del Sacro Romano Impero degli Hohenstaufen.
Costoro, a partire da metà del 1100 fino a metà del secolo successivo, prima con Federico Barbarossa poi con suo nipote Federico II, tentarono invano di conquistare la Superba.
A eterno memento le aquile sono poste in segno di sottomissione a reggere la Porta della città.
La nuova strada che avrebbe dovuto risolvere i problemi viari determinati dai traffici portuali si rivelò presto insufficiente a soddisfarne le moderne esigenze. Negli anni ’30 del secolo scorso venne così presentato un progetto di raddoppio della strada che doveva collegare Piazza Dante con Via Turati demolendo le case di Canneto il Lungo e di Via dei Giustiniani. Per fortuna il delirante proposito si arenò nei meandri della burocrazia e non ebbe attuazione.
Oggi rappresenta il salotto buono del centro, ma non è stato sempre così. Da bambino infatti me la ricordo come una delle vie più trafficate della città, l’aria irrespirabile, i palazzi anneriti dalla fuliggine, i bus che arrancavano esausti in coda e le auto parcheggiate, irriverenti, davanti alla Cattedrale.
In origine la via non esisteva, non era che un dedalo di vicoli e piazzette. Nel 1835 fu al centro di una rivoluzione viaria, volta a dare sfogo alle merci che transitavano in Piazza Caricamento, che stravolse tutta l’area.
Fin qui nulla di strano ma forse non tutti sanno che per
realizzare l’ambizioso progetto non solo vennero abbattuti molti edifici
fatiscenti ma che alcuni vennero letteralmente segati. Le facciate smontate e
arretrate di parecchi metri. Insomma un’opera di ingegneria civile non da poco.
La nuova strada che avrebbe dovuto risolvere i problemi viari determinati dai traffici portuali si rivelò presto insufficiente a soddisfarne le moderne esigenze. Negli anni ’30 del secolo scorso venne così presentato un progetto di raddoppio della strada che doveva collegare Piazza Dante con Via Turati demolendo le case di Canneto il Lungo e di Via dei Giustiniani. Per fortuna il delirante proposito si arenò nei meandri della burocrazia e non ebbe attuazione.
Dopo i restauri dei palazzi e la pedonalizzazione per il G8
del 2001 Via San Lorenzo è diventata la strada, grazie anche ai numerosi locali
che affollano la zona, del passeggio dei genovesi e dei turisti.
Sul lato di Via San
Lorenzo il palazzo ad angolo con accesso
dal civico n. 2 di Via Turati non ha portone. Il fronte è in bugnato al piano
strada mentre i due piani nobili presenta stucchi di fine ‘800 con fascia marca
davanzale.
Al civ. n. 2 il fronte è invece in bugnato liscio e il portone in pannelli di ghisa lavorati a riccioli con teste leonine. La lunetta sopraluce è a verghe gigliate mentre su quella del negozio a fianco vi sono due angioletti alati che porgono delle cornucopie. L’atrio è a voluta sferica con al centro una lanterna in ferro battuto.
In Via San Lorenzo n. 3 c’è uno dei pochi palazzi che venne invece avanzato di circa 5 metri nell’area della scomparsa Piazza delle Olive. L’antica facciata risulta incorporata all’interno del palazzo, mentre la nuova si presenta con il piano terra occupato da un negozio con le vetrine in ghisa e lamiera. Il fornice del portale è in marmo con una curiosa testina di lupo in stucco al centro.
Timpano e cornice sono interamente di stucco. Il trave è lavorato a fasci di verghe con ai lati due testine sporgenti dette acroterii.
In cima fa capolino una testa di Minerva fra riccioli e girali sopra una cornice greca.
Al civ. n. 5 il Palazzo Gio Batta Centurione (appartenente alla schiatta dei banchieri più ricchi d’Europa) meglio noto con il nome di Boggiano Gavotti. In facciata la Madonna col Bambino del sec. XVIII , un tondo in marmo con rilievo molto sporgente, attribuito allo scultore Bernardo Schiaffino. L’edificio era in origine orientato verso Canneto e venne modificato nel 1843 con la nuova facciata neoclassica lato Via San Lorenzo e con l’accorpamento del palazzo adiacente al Vico della Noce. Nel loggiato spicca il rilievo commissionato da Lorenzo Costa e realizzato da Santo Varni nel 1860. La scultura ricorda il celebre episodio del 1747, quando la rivolta popolare contro l’occupazione austriaca, iniziata nel dicembre del ’46, si stava evolvendo in senso rivoluzionario. I rivoltosi puntarono un cannone dritto contro Palazzo Ducale intenzionati a bombardarlo per dispetto contro quella borghesia che si era schierata con gli austriaci. Il senatore Giacomo Lomellini si pose a braccia aperte davanti all’arma e placò l’insurrezione.
Da qui il proverbio “O Lomelin o l’ha averto u portego”, che sta ad indicare un gesto plateale non propriamente eroico. Al primo piano un ponticello con balaustre marmoree collega il palazzo con un giardino pensile sovrastante l’angolo fra Canneto il Curto e Vico Caprettari. Il terrazzo versa nel più totale abbandono mentre il ninfeo con la statua di Venere risulta ancora ben conservato.
Sul portale del civ. 8 è scolpita una lapide il cui testo recita:
“Patriae Ornamento / Franciscus Ronco C. F. / MDCCCXXXX”. La lunetta sopraluce
in ghisa presenta una Testa di Minerva sul fornice. Osservando le finestre del
secondo piano nobile si nota una cornice in stucco con fregi di ghirlande e
putti e cinque bucature ad occhio di cui due con fregi a stucco.
Il palazzo del civ. n. 10 a che presenta un basamento in bugnato rustico aveva l’ingresso principale in Vico San Genesio e venne arretrato di ben 10 metri per permettere la costruzione della via.
L’edificio al civ. n. 12 è il Palazzo Bandinelli Sauli in San Genesio ristrutturato nel 1852 su progetto di Ignazio Gardella. Il portale mostra colonne doriche scanalate con metope scolpite con allegorie. A sinistra quella del fiume Po con un toro, simbolo della città di Torino. A destra un Nettuno con un Giano bifronte e un castello, simbolo di Genova. Al centro lo stemma con le due città unite opera di Santo Varni. Questa era la sede della Banca Nazionale, fusione della banca di Torino con quella di Genova che costituirà l’origine ed il nucleo fondante della Banca d’Italia.
Sul tetto terrazzato una balaustra marmorea con anfore e sotto un cornicione istoriato. Nel grande atrio di rappresentanza con colonne doriche si apre il cavedio tondo balaustrato. L’edificio è accorpato con l’ottocentesco palazzo Solari col quale divide l’accesso. Iniziato nel 1851 su progetto dell’architetto Carpineti il palazzo si presenta oggi con il fronte principale rivolto alla Cattedrale.
Genova è una sirena sdraiata sulla riva, è un Faro che illumina dove il sole non arriva. Genova è l’ardesia dei suoi tetti, è il volo di un gabbiano quando meno te lo aspetti. Genova, protetta dal monte, è il mare sempre all’orizzonte.
Ancor più suggestiva infine l’ipotesi secondo la quale la statuina del popolano con la testa calva in ginocchio sarebbe un ritratto, secondo alcuni addirittura un autoritratto, del Maestro stesso.
In Salita Inferiore di San Rocchino n. 15 presso l’Istituto Figlie di San Giuseppe è amorevolmente conservato un presepe risalente a cavallo fra il XVII e il XVIII sec.
La scena è ambientata in una campagna spruzzata di neve dove un variegato corteo di fedeli si dirige alla capanna incrociando via via lungo il cammino, popolani, contadini e artigiani. Spettacolare in particolare lo sfarzoso seguito equestre dei Re Magi.
Secondo la tradizione alcune di queste preziose statuette finemente intagliate e riccamente addobbate sarebbero riconducibili, per lo meno nel loro nucleo più antico, al Maragliano e alla sua scuola.
Ancor più suggestiva infine l’ipotesi secondo la quale la statuina del popolano con la testa calva in ginocchio sarebbe un ritratto eseguito da Pasquale Navone, secondo alcuni addirittura un autoritratto, del Maestro stesso.
De André fu molto cortese e rispose loro che avrebbe verificato in segreteria e, qualora ve ne fossero stati, si sarebbe premurato di avvisarli. Non appena le due camicie nere abbandonarono l’Istituto, il professore si precipitò in tutte le classi, raccolse gli alunni ebrei, li aiutò a fuggire e a cercare rifugio nelle campagne circostanti.
Il professor Giuseppe De André insegnava lettere in alcuni istituti di Genova, antifascista convinto, aiutò molti ebrei a nascondersi ed a fuggire dagli squadristi per impedirne la deportazione. Sospettato dal Regime, per timore di ritorsioni, nel ‘42 fece trasferire la sua famiglia nelle campagne dell’astigiano dove aveva acquistato un piccolo casale “la cascina dell’orto”. Nel ’44 una mattina due fascisti si presentarono all’istituto del quale era preside chiedendogli se, fra gli alunni della scuola, ve ne fossero di ebrei.
De André fu molto cortese e rispose loro che avrebbe verificato in segreteria e, qualora ve ne fossero stati, si sarebbe premurato di farglielo sapere. Non appena le due camicie nere abbandonarono l’istituto, il professore si precipitò in tutte le classi, radunò gli alunni ebrei e li aiutò a fuggire e a cercare rifugio nelle campagne circostanti. Trascorsi due giorni i fascisti, probabilmente informati da qualche delatore, tornarono a scuola per arrestarlo, ma Giuseppe con uno stratagemma riuscì a scappare dall’uscita posteriore, raggiunse Revignano d’Asti dove si era già trasferito il resto della sua famiglia e si nascose per intere settimane nelle cantine di un cascinale adiacente a quello di proprietà della famiglia.
Dopo la Liberazione la famiglia De André fece ritorno finalmente a Genova dove il professore ricoprì, prima di divenirne Vicesindaco, diversi incarichi pubblici e politici.
In Copertina:Fabrizio De André con i genitori e il fratello Mauro a Iglesias durante le feste di Natale del 1955.
I brutti ceffi, colti dalla lussuria, si tuffarono in acqua cercando di concupire le ragazze ma non riuscirono nel loro malvagio proposito. Al posto delle fanciulle trovarono sei statue di donna di marmo bianco.
Il Ponte S. Agata è stato costruito in tempi lontanissimi (prima del 1100) per agevolare il tragitto dell’antica via romana tra Genova e Luni e in seguito ha svolto la funzione di collegamento fra le ville di Terralba e quelle di Albaro. Il ponte è stato silente, coraggioso, ma impotente testimone di innumerevoli alluvioni, non ultima quella del 1970 rimasta tragicamente negli annali. Un’antica leggenda che ci riporta al 5 febbraio del 1693 lo definisce come il “Ponte dei Misteri”. Era il giorno della Fiera di Sant’Agata, mercato che si svolge tradizionalmente anche ai giorni nostri.
Un gruppo di sei novizie Carmelitane si era recato al mercato per acquistare anatroccoli, alberi da frutto e tutto ciò che necessitava per il convento quando si presentò loro davanti una minacciosa banda di biechi personaggi provenienti dal vicino colle di San Martino. Le monache terrorizzate fuggirono verso il ponte e si gettarono nel letto del fiume Bisagno il cui alveo risultava ancora in parte insabbiato dal terreno alluvionato. I brutti ceffi, in preda alla lussuria, si tuffarono in acqua cercando di concupire le ragazze ma fallirono il loro malvagio proposito perché al posto delle fanciulle trovarono sei statue di donna di marmo bianco.